Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26583 del 23/11/2020

Cassazione civile sez. I, 23/11/2020, (ud. 09/10/2020, dep. 23/11/2020), n.26583

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16419/2019 proposto da:

E.M.O., elettivamente domiciliato in Roma Via

Della Giuliana, 32, presso lo studio dell’avvocato Gregorace

Antonio, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

e contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma

Via Dei Portoghesi 12, Avvocatura Generale Dello Stato, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 12/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/10/2020 da Dott. CAPRIOLI MAURA.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che:

Con il decreto impugnato il Tribunale di Roma rigettava la domanda proposta da E.M.O., cittadino (OMISSIS) proveniente dalla città di (OMISSIS), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.; in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

Il giudice di merito riteneva che dal racconto fornito del richiedente non emergesse l’esistenza di una situazione che giustificasse il riconoscimento della protezione internazionale, sia per l’inesistenza di atti di persecuzione sia per la situazione dello Stato di provenienza ed in particolare della zona di origine del richiedente.

Rilevava in particolare che la versione data dal ricorrente si presentava scarsamente attendibile ed illogica non potendosi ritenere credibile che il conflitto familiare con le altre mogli del padre, cui aveva fatto riferimento il richiedente, si fosse protratto per un arco temporale molto lungo prima della sua decisione di lasciare il Paese.

Osservava inoltre che la vicenda narrata rientrava nella sfera di competenza della giustizia ordinaria.

Quanto alla situazione nel Paese di origine, rilevava che i territori posti a sud della Nigeria (tra cui l’Edo State) non erano interessati da conflitto armato con un grado di violenza per i civili circa il concreto rischio della vita; d) la mancanza di prova di una elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio;

da ultimo relativamente alla domanda di protezione umanitaria osservava che nessuna specifica ragione di vulnerabilità era stata allegata.

Avverso tale provvedimento E.M.O. propone ricorso per cassazione affidato a 4 motivi cui resiste con controricorso il Ministero degli interni.

Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione della norme di diritto in relazione alle dichiarazione rese dal ricorrente ed al mancato supporto probatorio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla Direttiva 2004/83/CE recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007.

Si lamenta,in particolare, che il Tribunale avrebbe omesso di svolgere un ruolo attivo nell’istruttoria della domanda relativa alla protezione umanitaria sostenendo che i Giudice avrebbero dovuto indicare al ricorrente i documenti che quest’ultimo avrebbe dovuto allegare o acquisire d’ufficio i mezzi ritenuti necessari ai fini del decidere.

Con un secondo motivo si denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione del Paese d’origine del ricorrente.

Si censura,in specie, la valutazione espressa dai primi giudici in merito alla situazione esistente nell’Edo State che, ad avviso del ricorrente, sarebbe tale da esporre il richiedente al serio rischio dell’incolumità fisica.

Con il terzo motivo si critica ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la mancata concessione della protezione sussidiaria e la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Si sostiene che l’elevato livello di criminalità e di violenze generalizzate e di sommosse presenti in tutta l’area geografica del Delta del Niger caratterizzata dalla perdita di ogni controllo di legalità, avrebbero giustificato la concessione della tutela invocata.

Da ultimo si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione al mancato riconoscimento della protezione internazionale o sussidiaria con riguardo al Paese di transito,ossia la Libia nonchè la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

I quattro motivi di ricorso sono inammissibili.

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che il Tribunale di Roma ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e con adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

In particolare, con riferimento al diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari il tribunale ha dato conto di un vero e proprio difetto di documentazione delle circostanze idonee a consentire il riconoscimento della protezione umanitaria, difetto di documentazione che il ricorrente avrebbe dovuto specificamente censurare.

Le critiche in esame si limitano a sollecitare l’esercizio di un potere officioso del giudice senza confrontarsi con la ratio decidendi posta a base del rigetto della domanda di protezione umanitaria, rappresentata dalla rilevata mancanza di documenti da parte del ricorrente di particolari condizioni di vulnerabilità del ricorrente.

Relativamente al secondo profilo di censura il primo Giudice, infatti, ha motivato sia in relazione alla situazione soggettiva del ricorrente, sia in ordine alla situazione complessiva del Paese, sicchè è del tutto evidente che non vi è stata alcuna violazione di legge o omessa motivazione nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente, inoltre, deduce genericamente la violazione di norme di legge attraverso il richiamo alle disposizioni disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta quanto all’insicurezza del Paese di origine ed alla compromissione di diritti fondamentali, difforme da quella accertata nel giudizio di merito.

Come si è detto il Tribunale ha esaminato, richiamando varie fonti di conoscenza, la situazione generale del paese di origine ed in particolare della regione di provenienza del ricorrente, precisando che deve escludersi una situazione di violenza indiscriminata in conflitto armato.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali del ricorrente, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile dai giudici di merito (Cass. n. 14283/2019, a meno che la non credibilità investa il fatto stesso della provenienza da un dato Paese).

Inoltre, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

Ne consegue che la censura si risolve in una richiesta di nuova valutazione dei medesimi fatti.

Va altresì considerato che il provvedimento impugnato non ha ritenuto il ricorrente credibile: al riguardo, questa Corte ha chiarito come “In tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 3, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati;

la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 3, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni specifiche e circostanziate” (Cass., ord. 30 ottobre 2018, n. 27503) e che “In materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona; qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di ad al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 27 giugno 2018, n. 16925; v. pure Cass., ord. 5 febbraio 2019, n. 3340).

In applicazione dei suesposti principi, allora, non si presta a censura la decisione impugnata, la quale ha inteso pronunciare: a) quanto alla richiesta dello status di rifugiato, sull’assunto, del tutto corretto, che i fatti narrati dal richiedente (l’aver lasciato la Nigeria per il timore di essere ucciso a causa di un conflitto familiare con le mogli del padre conseguenze giudiziarie dell’accoltellamento di un parente) appartengono alla sfera del diritto comune, ritenendosi egli semplicemente una possibile vittima di ingiustizia, nè avendo dedotto atti persecutori o episodi di violenza e discriminazioni “suoi danni, nè emergendo atti di persecuzione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, tali intendendosi, ad esempio, le minacce alla vita, la tortura, le gravi violazioni di diritti umani; b) con riguardo alla richiesta di protezione sussidiaria, posto che la sussistenza, nella specie, delle condizioni per darvi accesso è stata esclusa sulla base di approfondite ed appropriate referenze attinte, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, dalle fonti di informazione internazionale, specificamente indicate e tutte segnalanti l’insussistenza, nel Paese di provenienza del ricorrente (Nigeria) di situazioni astrattamente idonee a legittimare il riconoscimento del pericolo di un danno grave.

Relativamente alla prospettata violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, si osserva che tale norma nel prevedere che “Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” è stato condivisibilmente interpretato da questa Corte nel senso che l’obbligo di acquisizione delle informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti nella richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro il cittadino straniero lamentarsi della mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi riferita a circostanze non dedotte, ai fini del riconoscimento della protezione (cfr. Cass. n. 30105 del 2018, in motivazione, ribadita dalla più recente Cass. n. 9842 del 2019); dall’altro che nemmeno sono state specificamente indicate ragioni di rilevanza dell’accertamento della situazione della Libia, non essendo quest’ultima zona il Paese di origine e dunque di rimpatrio del richiedente protezione internazionale (cfr. Cass. n. 9302 del 2018, in motivazione; si veda, in pari senso, n. 17837 del 2019);

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese della presente fase seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che si liquidano in complessive Euro 2100,00 oltre S.P.A..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2020

 

 

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