Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26567 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. I, 17/10/2019, (ud. 09/10/2019, dep. 17/10/2019), n.26567

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – rel. Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

D.B.A., rappr. e dif. dall’avv. Angelo Raneli, elett.

dom. in Palermo, via Roma n. 443, come da procura in calce all’atto;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappr. e dif.

dall’Avvocatura generale dello Stato, elett. dom. in Roma, presso i

relativi uffici in via dei Portoghesi n. 12, come da atto di

costituzione, ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di

discussione;

– costituito resistente –

per la cassazione della sentenza App. Palermo 19.4.2018, n. 813/2018,

R.G. 1144/2016;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

Massimo Ferro alla Camera di consiglio del 9.10.2019;

il Collegio autorizza la redazione dei provvedimento in forma

semplificata, giusta decreto 14 settembre 2016, n. 136/2016 del

Primo Presidente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. D.B.A. impugna la sentenza App. Palermo 19.4.2018, n. 813/2018, R.G. 1144/2016 che ha rigettato il suo appello avverso l’ordinanza Trib. Palermo 20.4.2016 che aveva negato la dichiarazione dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e altresì quella umanitaria con concessione del permesso di soggiorno, così non accogliendo l’opposizione del ricorrente al provvedimento della Commissione territoriale di Trapani, sezione di Palermo, la quale aveva escluso i relativi presupposti;

2. la corte, sulla principale istanza, ha escluso che il dedotto timore di essere ritenuto simpatizzante di ribelli tuareg nel proprio Stato di provenienza (Mali) e la stessa condizione di tale Paese, potessero configurare requisito per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo stato allegato alcun atto temuto di persecuzione personale e diretta, con violazione dei diritti umani fondamentali; non poteva essere accolta poi la domanda subordinata di protezione sussidiaria, per infondatezza del rischio effettivo di grave danno, posto che la regione d’origine maliana (Bamako) non risultava interessata da conflitto, così difettando l’effettività del dedotto rischio; mancavano infine gravi ragioni di protezione per la concessione del permesso umanitario, quali una vulnerabilità personale, non svolgendo la situazione del paese di transito (Libia) il ruolo di fattore di per sè integrante il requisito;

3. il ricorso è su quattro motivi, ad esso resiste il Ministero dell’Interno con atto di costituzione, senza svolgimento di tre difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si contesta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, oltre che il vizio di motivazione, avendo trascurato la corte che la rappresentazione del ricorrente di poter essere considerato un sostenitore dei ribelli tuareg (per aver dato ospitalità a due di loro) già di per sè lo esponeva – al pericolo di persecuzione;

2. con il secondo motivo viene contestata la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), avendo omesso la corte di esaminare il rischio effettivo di grave danno cui sarebbe andato incontro il ricorrente per il caso di ritorno al Paese d’origine;

3. il terzo motivo censura, come vizio di motivazione in rapporto al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, la decisione reiettiva della protezione sussidiaria, non avendo la corte esaminato i documenti comprovanti la violenza generalizzata in tutto il Mali, inclusa la città di Bamako;

4. il quarto motivo contesta, come vizio di motivazione e in rapporto al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, che non sussista nel Mali una generalizzata situazione di grave crisi umanitaria, tale da giustificare la minor protezione, richiesta in via gradata, anche con riguardo all’impossibile fruizione, in caso di ritorno, di diritti fondamentali.

5. premette il Collegio che nella controversia e per il preliminare controllo di tempestività, trova luogo il principio per cui “in tema di riconoscimento della protezione internazionale, la disciplina introdotta con il D.L. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla L. n. 46 del 2017, si applica, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del citato Decreto, alle controversie instaurate successivamente al 18.8.2017” (Cass. 18295/2018); conseguentemente, per la proposizione del ricorso per cassazione avverso le sentenze di appello rese su ricorsi originariamente introdotti anteriormente a quella data si applica la precedente disciplina, anche riguardo alla sospensione dei termini durante il periodo feriale;

6. il primo motivo è inammissibile, avendo la corte condotto, con apprezzamento di merito insindacabile in questa sede alla luce degli stringenti limiti di censurabilità della motivazione (Cass. s.u. 8053/2019), una chiara verifica sul timore dell’atto di persecuzione, peraltro non più specificamente indicato, giungendo alla conclusione che esso è stato allegato avendo riguardo e piuttosto alla ben diversa vicenda di una volontaria sottrazione del ricorrente alle attività di verifica delle autorità di polizia circa le ragioni dell’ospitalità fornita a persone di etnia tuareg; nè la genericità delle circostanze invocate rende superabile il dato, presupposto nella sentenza impugnata, per cui la prospettazione persecutoria al ricorrente del tutto indiretta, per come riferita da un terzo soggetto e, come tale, carente di una sicura prova di reale attribuzione “dall’autore delle persecuzioni” anche D.Lgs. n. 151 del 2007, ex art. 8, comma 2 – non appare essere stata compiuta in relazione all’appartenenza ad una razza o gruppo (come dibattuto nel processo), secondo il catalogo dei motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2008, art. 8, ma avendo riguardo alla differente occasionale cooperazione soccorrevole verso persone di altra etnia;

7. nè il ricorrente ha censurato in modo specifico l’affermazione della corte per cui è mancata la prova dell’assenza di adeguata protezione del Paese d’origine, circostanza da collegare alla condotta di collaborazione con l’autorità cui il ricorrente si è sottratto; invero, la stessa “nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva salo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. 13858/2018, 18306/2019);

8. il secondo e il terzo motivo vanno trattati congiuntamente, perchè connessi e sono complessivamente inammissibili; il ricorrente non contrasta in modo puntuale l’accertamento della corte, la quale ha escluso la fondatezza dei motivi per l’ammissibilità della protezione sussidiaria, per le ragioni sopra riassunte, non ravvisando – tra l’altro – il grave danno ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), dunque regando di poter far discendere un automatismo fra situazione di conflitto interno al Mali e altresì alla zona di frequentazione del richiedente e minaccia individuale e grave alla vita o alla persona; nel ricorso, poi, per un verso si contrasta la decisione invocando il mancato riconoscimento del danno grave alla stregua di tortura o altra pena inumana (lett. b), art. 14 cit.), Per altro non si avversa più puntualmente la ratio della delimitazione del collegamento fra conflitto interno al Mali e carattere indiscriminato della violenza, posto che la corte ha distinto proprio l’area di riferimento del ricorrente (Bamako) non interessata al medesimo conflitto e con la stessa intensità (riferita invece alle zone del Nord); opera invero in tema, secondo un indirizzo cui va data continuità, il principio per cui “ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica. Il relativo accertamento integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass. 30105/2018, 14157/2016); in ogni caso, la corte d’appello ha escluso la sussistenza del presupposto di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in quanto la situazione locale del territorio di provenienza del richiedente non poteva dirsi caratterizzata da violenza generalizzata da conflitto armato (Cass. 18540/2019, 13088/2019);

9. il quarto motivo è inammissibile, dovendosi ripetere, con Cass. 23778/2019 (pur sulla scia di Cass. 4455/2018), che “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vira privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″;

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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