Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26566 del 21/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 21/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep.21/12/2016),  n. 26566

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14300-2015 proposto da:

L.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIETRO

DELLA VALLE 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO SCHILLACI,

rappresentata e difesa dall’avvocato PARIDE BERSELLI giusta mandato

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURO RICCI,

CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 12/2015 del TRIBUNALE di BERGAMO, depositata

il 15/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/11/2016 dal Consigliere Reattore Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito l’Avvocato Schillaci Francesco (delega avvocato Paride

Berselli) difensore della ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Mauro Ricci difensore del controricorrente che si

riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con la sentenza impugnata il Tribunale di Bergamo ha respinto il ricorso ex art. 445 bis c.p.c., comma 6, proposto da L.S. in esito a dichiarazione di dissenso dalla conclusioni del c.t.u., formulata nell’ambito di nel procedimento per instaurato per l’accertamento del requisito sanitario prescritto in relazione alla a prestazione di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 13.

Il Tribunale ha ritenuto le conclusioni attinte dal c.t.u. coerenti con i criteri di cui al D.M. 5 febbraio 1992 e osservato che, in considerazione della modesta entità delle patologie dalle quali la ricorrente era affetta nonchè del fatto che le stesse interessavano il medesimo apparato vertebrale, la valutazione del 60% della riduzione permanente della capacità lavorativa generica doveva ritenersi congrua.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso L.S. sulla base di sei motivi. L’INPS ha resistito con tempestivo controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Il Consigliere relatore ha formulato proposta di rigetto del ricorso per inammissibilità dei motivi.

Il Collegio condivide tale valutazione, non inficiata dalla deduzioni svolte nella memoria depositata dal ricorrente, deduzioni corredate da allegazioni in fatto destinate inammissibilmente (v. tra le altre, Cass. ord. n. 26670 del 2014, n. 3780 del 2015) ad integrare il contenuto del ricorso.

Si premette che, con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, art. 13; si censura la decisione per avere il giudice di prime cure, nel conferimento dell’incarico peritale, fatto riferimento alla norma sopra richiamata nel testo vigente prima della modifica introdotta dal D.L.L. n. 509 del 1988, art. 9 che aveva fissato alla misura del 74% la percentuale di invalidità indispensabile al fine del beneficio assistenziale in controversia.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 5091 del 1988, art. 2 comma 1; la decisione viene censurata sul rilievo che “il calcolo dell’invalidità che affligge la sig.ra L., compiuto secondo le ignorate prescrizioni di legge, il cui contenuto è espressamente richiamato anche dalle linee guida I.N.P.S., per l’accertamento degli stati invalidanti, le attribuisce un livello di invalidità senz’altro superiore al 74% di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 13, ma il CTU non ha preso in considerazione le prescrizioni del decreto ed il giudice di prime cure non glielo ha richiesto”.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.M. 5 febbraio 1992, art. 1, recante la tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti sulla base della classificazione internazionale dell’Organizzazione mondiale della Sanità prima parte; si censura la decisione sul rilievo che il c.t.u. non aveva rispettato le prescrizioni di cui al detto D.M. e aveva posto a base della diagnosi un referto risalente ad undici anni prima, relativo alla scoliosi e alla cifosi del ramo dorsale.

Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione del D.M. 5 febbraio 1992, art. 1 recante la tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti sulla base della classificazione internazionale dell’Organizzazione mondiale della Sanità prima parte, sub 3; si censura la decisione sul rilievo che non era stata rispettata la prescrizione secondo la quale “occorre tener presente che le invalidità dovute a menomazioni multiple per infermità tabellate e/o non tabellate possono risultare da un concorso funzionale di menomazioni ovvero da una semplice loro coesistenza. Sono funzionalmente in concorso tra loro, le menomazioni che interessano lo stesso organo o lo stesso apparato. In alcuni casi, il concorso è direttamente tariffato in tabella (danni oculari, acustici, degli arti ecc.). In tutti gli altri casi, valutata separatamente la singola menomazione, si procede a valutazione complessiva, che non deve di norma consistere nella somma aritmetica delle singole percentuali, bensì in un valore percentuale proporzionale a quello tariffato per la perdita totale anatomo-funzionale dell’organo o dell’apparato.”.

Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 509 del 1988, art. 1; si censura la decisione per non avere il ctu compiuto in maniera approfondita le indagini prescritte dal comma 2 e per avere trascurato l’importanza rivestita dalle menomazioni, tenuto conto delle specifiche attività lavorative già compiute dalla L..

Con il sesto motivo si deduce omessa e insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo; si censura, in sintesi, la decisione per non avere considerato che la gravità delle patologie e la loro compresenza sullo stesso apparato avrebbe suggerito la necessità di effettuare una valutazione neurochirugica la quale avrebbe portato a risultati ben più pregnanti di quelli dati da una sommaria visita medica e per non avere attribuito rilievo alla discrepanza fra il codice attribuito alle infermità della signora L. in sede amministrativa dalla commissione sanitaria provinciale e la concreta percentuale stabilita dal ctu.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile sotto un duplice profilo. In primo luogo l’assunto del conferimento dell’incarico peritale di verifica di una percentuale di invalidità diversa da quella prescritta dalla norma vigente non è corredato, in violazione dell’art. 366 c.p.c., dall’esaustivo riferimento agli atti e documenti di causa dalla quale la circostanza sarebbe evincibile e dai dati necessari al loro reperimento (v. tra le altre Cass. n. 4201 del 2010). In secondo luogo, alla stregua delle stesse prospettazioni del ricorrente, è da escludere l’interesse ad impugnare la decisione sul punto posto che la statuizione di rigetto della domanda è stata fondata sulla esistenza di una percentuale di riduzione della capacità lavorativa pari al 60% e, quindi, comunque inferiore al parametro invocato, rappresentato dalla riduzione pari al 74%. L’errore dedotto, quindi, anche ove sussistente, sarebbe ininfluente al fine della decisione.

I motivi secondo, terzo, quarto e quinto sono inammissibili.

Con tali motivi parte ricorrente assume la esistenza di una serie di violazioni di norme di diritto alla base della valutazione dell’ausiliare; omette, tuttavia, di trascrivere i pertinenti brani della consulenza tecnica d’ufficio, condivisa dalla sentenza impugnata.

A tale stregua parte ricorrente non consente la individuazione dell’errore ascritto al consulente d’ufficio e, prima ancora, la verifica del percorso logico – scientifico seguito da questi nel pervenire alla contestata valutazione della percentuale di riduzione della generica capacità di lavoro.

Occorre ancora considerare che i motivi in esame non sono articolati con modalità conformi all’insegnamento di questa Corte secondo il quale, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. tra le altre, Cass. n. 8569 del 2013). Parte ricorrente si è sottratta agli oneri prescritti omettendo di offrire dati idonei al reperimento degli atti e documenti di causa posti alla base dei motivi in considerazione.

Parimenti da respingere è il sesto motivo. Con riferimento alla nuova configurazione del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. (Cass. ss.uu. n.8053 del 2014).

In particolare è stato precisato che il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In conseguenza la parte ricorrente sarà tenuta ad indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.

Parte ricorrente non ha sviluppato il motivo di ricorso in termini coerenti con tali prescrizioni.

Premesso, infatti, che alla luce della nuova formulazione dell’art. art. 360 c.p.c., n. 5, non possono trovare ingresso censure attinenti alla insufficienza e contraddittorietà di motivazione, si rileva che l’odierna ricorrente non ha individuato il fatto storico, avente carattere di decisività, che ha costituito oggetto di discussione fra le parti ed il cui esame è stato omesso dal giudice di appello. Tale non potrebbe essere rappresentato dalla considerazione della opportunità di valutazione neurochirurgica delle patologie sofferte dalla L., considerazione che esprime un mero dissenso diagnostico; tantomeno potrebbe essere rappresentato dalla evidenziata discrepanza fra il codice attribuito alle infermità della signora L. in sede amministrativa dalla commissione sanitaria provinciale e la concreta percentuale stabilita dall’ausiliare, trattandosi di circostanza priva di decisività.

In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve, quindi, essere dichiarato inammissibile.

Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

L’attuale condizione del ricorrente di ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude, allo stato, la debenza di quanto previsto dall’art. 13, comma 1 quater (Cass. n. 18523 del 2014).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione all’INPS delle spese di lite che liquida in Euro 2.500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

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