Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26565 del 23/11/2020

Cassazione civile sez. II, 23/11/2020, (ud. 16/07/2020, dep. 23/11/2020), n.26565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8065/2017 R.G. proposto da:

ING. G. L. S.R.L., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa dall’avv. Pietro Clemente Perrotti, con

domicilio eletto in Roma, alla Via V. Rocca Di Papa n. 10, presso

l’avv. Maurizio Giorgino.

– ricorrente –

contro

REGIONE LAZIO, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa

dall’avv. Tiziana Ciotola, elettivamente domiciliato in Roma, Via

Marcantonio Colonna n. 27.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 5703/2016,

pubblicata in data 28.9.2016.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno

16.7.2020 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Ing. G. L. s.r.l. ha proposto opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione emessa sulla base del verbale n. (OMISSIS) dell’Arpa Lazio, con cui le era stata comminata la sanzione di Euro 3000,00 per il superamento dei limiti di legge per lo scarico di acque reflue, effettuati, in carenza di autorizzazione, presso il depuratore di (OMISSIS), ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 133, commi 1 e 2.

Il Tribunale ha respinto l’opposizione, con pronuncia confermata in appello.

Il Giudice distrettuale ha ritenuto irrilevante che la Regione avesse depositato tardivamente il verbale di accertamento e l’ordinanza ingiunzione, osservando che tali atti erano stato depositati anche dall’opponente, ed ha respinto l’eccezione di nullità del verbale per mancata indicazione del luogo e della data di redazione, che ha ritenuto desumibili dalla relativa nota di trasmissione.

Quanto al fatto che la violazione fosse stata contestata direttamente alla società e non alla persona fisica responsabile dell’infrazione, la Corte di merito ha rilevato che, nel corpo della Det. 10 febbraio 2014, BO 1130, era stato richiamato anche il verbale dell’Arpa, con cui la violazione era stata contestata al legale rappresentante della Ing. G. L. s.r.l. in qualità di responsabile diretto, al Comune di Forano, quale proprietario dell’impianto, e all’opponente quale obbligata in solido con il proprio amministratore, sostenendo infine che anche ricorrente dovesse rispondere del fatto, non trattandosi di illecito proprio.

Per la cassazione della sentenza la Ing. G. L. s.r.l. ha proposto ricorso in quattro motivi, illustrati con memoria.

La Regione Lazio ha proposto controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 124, comma 3 e art. 133, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 sostenendo che la condotta sanzionata non contempla la presenza di impianti di depurazione, ma solo lo scarico di acque reflue domestiche o di reti fognarie, restando esclusa la responsabilità del gestore dell’impianto; che, in ogni caso, la ricorrente era addetta alla semplice manutenzione del depuratore, per cui la sanzione doveva essere elevata a carico del gestore del servizio idrico integrato o del Comune, ente proprietario dell’impianto.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la sentenza confermato la sanzione senza indicare il titolo in base al quale la ricorrente, deputata alla sola manutenzione del depuratore, dovesse rispondere dell’illecito, e per aver ritenuto che quest’ultima avesse la gestione e detenzione dell’impianto, sebbene tali funzioni le fossero stati attribuiti solo nell’ordinanza ingiunzione, trascurando inoltre che l’impianto era affidato al gestore del servizio idrico integrato e che alla Ing. G. L. s.r.l. non era imputabile neppure la mancanza di autorizzazione, poichè solo il Comune era abilitato a richiederla.

La Corte distrettuale avrebbe poi, del tutto immotivatamente, respinto il motivo di illegittimità della sanzione irrogata alla ricorrente quale responsabile in solido con il proprio amministratore, pur in mancanza di una specifica contestazione contenuta nel verbale di accertamento.

Il terzo motivo censura la violazione del L. n. 689 del 1981, art. 6 e art. 14, commi 1 e 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che il verbale non conteneva alcuna contestazione a carico della ricorrente quale obbligata in solido con l’autore della violazione, conseguendone l’illegittimità della sanzione. I tre motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Dalla trascrizione in ricorso del contenuto del verbale si evince che l’illecito era stato ascritto in via diretta all’amministratore della società ricorrente, la quale, già nel verbale di accertamento e poi nell’ordinanza ingiunzione, era indicata come impresa incaricata della gestione dell’impianto di depurazione presso il quale era stata rilevata l’effettuazione dello scarico abusivo.

La circostanza che la società avesse contestato di essere titolare della gestione operativa dell’impianto non risulta della sentenza impugnata, nè il ricorso chiarisce dove con quali modalità tale deduzione sia stata proposta in modo specifico nel giudizio di merito. Dallo stesso esame del ricorso si evince – al contrario – che le uniche censure mosse alla sentenza di primo grado erano volte a sostenere che la responsabilità dell’infrazione dovesse ricadere sul gestore del servizio idrico integrato (e quindi su un soggetto diverso dalla ricorrente) o sul Comune, che, essendo proprietario del depuratore, era tenuto a richiedere l’autorizzazione allo scarico (cfr. ricorso, pagg. 2 e ss.).

Non appare invocabile la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 294/2020, menzionata nella memoria illustrativa, trattandosi di pronuncia di cui non risulta attestato il passaggio in giudicato.

1.1. La decisione impugnata, con accertamento in fatto incensurabile in cassazione, ha attribuito l’effettuazione dello scarico all’amministratore della ricorrente, escludendo, in esplicita adesione al consolidato orientamento di questa Corte, che si trattasse di illecito proprio, non avendo alcun valore esimente l’eventuale corresponsabilità di altri enti.

Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 132, comma 2, al pari della analoga previsione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 54, impone a chiunque effettui lo scarico di procurarsi l’autorizzazione.

La condotta sanzionata consiste – difatti – nel mero scarico di acque reflue o di reti fognarie domestiche, a prescindere dall’esistenza o dalla stessa gestione di impianti di depurazione, trattandosi di infrazione che prescinde dal possesso di una data qualità in capo al responsabile (proprietario o gestore dell’impianto), avendo rilievo sul piano oggettivo – la consumazione della condotta illecita in sè considerata (Cass. 1740/2020; Cass. 8364/2020; Cass. 3176/2006).

Come è chiarito dalla pronuncia impugnata, il fatto era stato contestato all’amministratore della società ricorrente, quale responsabile diretto della violazione e, pertanto, la ricorrente era obbligata in via solidale ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 6.

Inoltre, già nella determina del 10.2.2014 e quindi nella successiva Delibera dirigenziale, erano state distinte le posizioni della ricorrente e del Comune, evidenziando che l’amministrazione comunale era chiamata a rispondere in qualità di proprietario dell’impianto (cfr. sentenza, pag. 3), il che, per quanto detto, non impediva di imputare la corresponsabilità dell’infrazione anche alla Ing. L. s.r.l..

2. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115,116,416 c.p.c., D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, commi 8 ed 11, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la Corte di merito respinto l’opposizione, ritenendo utilizzabile l’ordinanza ingiunzione ed il verbale di accertamento depositati dalla ricorrente, non potendosi sollevare l’amministrazione regionale, costituitasi tardivamente, dall’onere della prova dei fatti giustificativi della sanzione.

Il motivo è infondato.

In tema di opposizione a sanzione amministrativa, grava sull’amministrazione l’onere di provare gli elementi costitutivi dell’illecito, ma la sua inerzia processuale non determina – neppure nel regime del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 10, lett. b) e art. 7, comma 9, lett. b) – l’automatico accertamento dell’infondatezza della trasgressione.

Il Giudice è, difatti, chiamato ad esaminare l’intero rapporto sanzionatorio, senza potersi arrestare alla valutazione di legittimità del provvedimento, potendo valutare i documenti già acquisiti e disponendo d’ufficio i mezzi di prova ritenuti necessari (Cass. 24691/2018; Cass. 4898/2015).

Per altro verso, era irrilevante che il verbale e l’ordinanza ingiunzione fossero state prodotti dalla ricorrente anzichè dall’amministrazione ed in modo tempestivo, poichè, pur in mancanza di specifiche deduzioni sul punto, il giudice è tenuto a valutare tutti gli elementi di prova prodotti in giudizio in base al principio di acquisizione processuale, secondo cui le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (Cass. 14284/2018; Cass. 15300/2011).

Neppure la costituzione tardiva dell’amministrazione resistente poteva impedire l’utilizzazione, in funzione probatoria, dei suddetti elementi documentali, poichè il termine di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 7 (al pari di quello di cui all’art. 6, comma 8, del citato Decreto), per il deposito della documentazione strettamente connessa all’impugnazione (copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento nonchè alla contestazione o alla notificazione della violazione) non è, in difetto di espressa previsione, perentorio, a differenza di quello previsto dall’art. 416 c.p.c., che si applica, in virtù del richiamo operato del medesimo art. 7, comma 1, agli altri documenti depositati dall’Amministrazione (Cass. 15887/2019; Cass. 9545/2018; Cass. 5828/2015).

Il ricorso è quindi respinto.

Le spese seguono la soccombenza, con liquidazione in dispositivo.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore dei controricorrenti, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 650,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2020

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