Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26554 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. I, 17/10/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 17/10/2019), n.26554

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32060/2018 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliata in Milano, piazza

Sant’Agostino 24, presso e nello studio dell’avv. Anna Moretti, che

la rappresenta e difende per procura speciale del 17/10/2018;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 01/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2019 dal Pres. rel. Dott. DI VIRGILIO ROSA MARIA.

La Corte:

Fatto

RILEVATO

che:

Con decreto del 1/10/2018, il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso di S.A., inteso ad ottenere la protezione internazionale nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, nonchè in ulteriore subordine, di riconoscimento della protezione umanitaria, ritenendo non credibile la narrazione della ricorrente(la ricorrente, cittadina della Nigeria, dell’Edo State, di religione “in Italia cristiana”, di essere stata picchiata dal fidanzato, ma di non avere denunciato il fatto alla Polizia, di avere subito intervento in Italia per essere incinta e non essere ben posizionata la nascitura; di avere lasciato la Nigeria perchè il padre le aveva sempre detto che non si sarebbe mai potuta sposare perchè “apparteneva agli dei” in quanto i genitori, non potendo avere figli, erano andati “in un posto per chiedere di avere un figlio”; di essere vissuta, per cinque-sei anni presso un’amica ad (OMISSIS), dopo aver lasciato la famiglia, di essere tornata in casa dei suoi dopo sei anni, di essersi ammalata e che il padre le aveva detto di nuovo che apparteneva agli dei, di essere stata portata da un uomo per vedere se poteva guarirla, di essere stata guarita, ma che apprendeva dall’uomo che doveva “essere sacrificata agli dei”, di avere quindi lasciato la Nigeria, di essere arrivata in Libia, e qui aveva incontrato un ragazzo che voleva raggiungere l’Italia e che l’aveva aiutata).

Il Tribunale ha argomentato la ritenuta non credibilità considerato che la parte all’arrivo in Italia aveva dichiarato di esser sposata con So.La., un uomo del Gambia che l’aveva aiutata a trovare i soldi per venire in Italia e l’aveva picchiata anche durante la gravidanza, che, pur dichiarando che doveva esser sacrificata agli dei, la S. aveva parlato non di questo rischio, ma che i genitori avevano fatto la promessa agli dei di non consentire alle sue nozze; era non credibile che avesse trovato l’amica disposta ad aiutarla grazie a Facebook, ospitandola per oltre sei anni, ed inverosimile la storia dello shrine e che poi sarebbe scappata; inoltre, osserva il Tribunale, pur in presenza di seri indicatori dell’esistenza di un fenomeno di “tratta”, la ricorrente, a cui era stato spiegato il senso ed il significato della procedura di ascolto, aveva negato la circostanza.

Secondo il Tribunale, non erano pertanto riconoscibile lo status di rifugiato nè la protezione sussidiaria, nella carenza dei requisiti di legge, dato che secondo le fonti consultate ed indicate, nel nord della Nigeria sussiste una condizione di assoluta emergenza, mentre nel centro sud, Edo State luogo di origine della ricorrente, si segnalano l’incremento morti violente e la recrudescenza di violenza tra appartenenti a cult diversi ed opposti, con risvolti di insicurezza tra i cittadini, ma che tale situazione, pur mostrando indici di criticità, non poteva ritenersi configurare “conflitto armato interno”.

Il Tribunale non ha riconosciuto la protezione umanitaria, rilevando l’assenza di allegazione sull’integrazione e di condizioni di vulnerabilità particolari.

Ricorre S.A. con tre mezzi.

Il Ministero non si difende.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Col primo mezzo, la ricorrente censura la pronuncia per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, lamentando l’esame non aggiornato di informazioni sulla situazione politica sociale ed economica del Paese di origine, come illustrato da Amnesty International 2016/2017 e sul sito (OMISSIS) del Ministero Affari Esteri al 7/3/2018 e sostiene che tutte le fonti citate dal Tribunale descrivono una situazione di violenza diffusa.

La sentenza è immune da censure riguardo alla decisione assunta con riferimento alla protezione sussidiaria e, in particolare, al fatto costitutivo della medesima, consistente nel “danno grave” di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c): il Tribunale ha infatti fondato la propria pronuncia sul riscontro di dati informativi che ha valutato, escludendo, in particolare, la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, nella specifica zona di provenienza della ricorrente, pervenendo al giudizio finale di non sussistenza della soglia della “violenza diffusa ed indiscriminata che consente il riconoscimento della protezione sussidiaria.

A fronte di detta specifica ed argomentata conclusione, il motivo di ricorso si palesa inammissibilmente inteso ad una contestazione di merito.

Col secondo motivo, la ricorrente denuncia il vizio di violazione falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; deduce che il Tribunale si sarebbe limitato a richiamare articoli di un quotidiano nigeriano, senza valutare le fonti indicate dalla ricorrente e non ha condotto un esame adeguato ed oggettivo della situazione in Nigeria.

Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.

In prima battuta, va rilevato che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, dispone sulle fonti di informazione delle Commissioni territoriali; inoltre, la stessa ricorrente neppure indica quali fonti avrebbe fatto valere in giudizio e, nel “sto, sostanzialmente la parte tende alla contestazione della valutazione di merito condotta dal Tribunale.

Col terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, ed il vizio di insufficiente motivazione.

La ricorrente sostiene la spettanza del permesso di soggiorno per motivi umanitari, vista la sua giovane età, lo stabile inserimento sul territorio italiano, con la frequenza della Chiesa carismatica africana a (OMISSIS) e perdurando nel Paese di origine gravi pericoli per l’incolumità dei cittadini.

Ora, anche ad ammettere la non applicabilità ratione temporis del D.L. n. 113 del 2018 (così la pronuncia 4890/2019), che ha abolito il permesso umanitario sostituendolo col permesso per casi speciali tipizzati, va rilevato che tale forma di permesso costituisce una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (“status” di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (così, tra le tante, la pronuncia 9/10/2017 n. 23604), e richiede per converso che colui che richieda protezione umanitaria debba dedurre una situazione di vulnerabilità che deve riguardare la sua personale vicenda venendo altrimenti in rilievo non la peculiare situazione di vulnerabilità del singolo soggetto, ma piuttosto quella dei suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti (così, tra le ultime, la pronuncia 11267/2019).

Ciò posto, si deve concludere per la palese inammissibilità del motivo, che si sostanzia in una mera prospettazione di merito, a fronte della valutazione del Tribunale, intesa a verificare la situazione di vulnerabilità personale ed individualizzata della richiedente (il Giudice del merito ha inoltre specificato che le dichiarazioni illogiche ed incongrue non consentivano di “apprezzare, ove sussistente, quale sia l’effettiva criticità che la richiedente incontrerebbe rientrando nel paese di origine”).

Conclusivamente, va respinto il ricorso; non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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