Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26552 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. I, 17/10/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 17/10/2019), n.26552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25417/2018 proposto da:

O.C., elettivamente domiciliato in Roma, Via G. Marcora

n. 18-20, presso lo studio dell’avvocato Faggiani Guido,

rappresentato e difeso dall’avvocato Dalla Bona Roberto;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno – Commissione Territoriale per la Protezione

Internazionale di Milano;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 02/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/09/2019 dal Pres. Dr. DI VIRGILIO ROSA MARIA.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che la Corte:

Con decreto del 2/8/2018, il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso di O.C., inteso ad ottenere la protezione internazionale nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, nonchè in ulteriore subordine, di riconoscimento della protezione umanitaria, ritenendo credibile la narrazione del ricorrente, sentito nuovamente dal Tribunale (il ricorrente, cittadino della Nigeria, originario di Benin City, aveva riferito di avere lasciato il proprio paese per aver una vita migliore, di essere stato seguito da tre uomini a bordo di un’auto che avevano sparato alcuni colpi in aria e di avere saputo dai fratelli che queste persone lo avevano cercato in casa e di non sapere cosa volessero questi sconosciuti), salva la del tutto opaca e generica narrazione relativa all’episodio degli uomini che avevano sparato in aria, costituente, al più, episodio di delinquenza comune; ha escluso la sussistenza di atti di persecuzione così come ha escluso la ricorrenza delle fattispecie necessarie per il riconoscimento della protezione sussidiaria, evidenziando come da fonti espressamente citate risulti una condizione di assoluta emergenza nel nord del Paese ma non nel centro sud, che ivi, peraltro, si assiste ad una recrudescenza di violenza tra diversi ed opposti cult, non tale peraltro da configurare conflitto armato interno e raggiungere la soglia della violenza diffusa ed indiscriminata.

Il Tribunale ha ritenuto insussistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando la mancata deduzione di specifici fatti di vulnerabilità; che l’attestato di frequenza ad un corso per operatore di opere edili e ad corso di alfabetizzazione e la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro non erano idonee a dare la prova delle condizioni di partenza nel Paese di origine e quindi della disparità effettiva condizioni e quella condotta in Italia.

Ricorre O.C. con cinque mezzi.

Il Ministero non svolge difese.

Il ricorrente ha depositato memoria fuori termine.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che col primo mezzo, il ricorrente denuncia vizio processuale ex art. 360 c.p.c., n. 4, sostiene che il giudice dell’opposizione ex D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis non è competente a decidere sulla protezione umanitaria, dato che la domanda relativa a detta protezione è soggetta al giudizio di cognizione ordinario e quindi anche ad eventuale appello e che il Tribunale avrebbe dovuto decidere per l’inammissibilità di detta domanda o separarla.

Il motivo è inammissibile.

Sulla questione fatta valere, questa Corte si è di recente pronunciata con l’ordinanza 9658/2019, evidenziando quanto segue.

“E’… carente di interesse il ricorso per cassazione ogni qual volta il ricorrente denunci la mancata adozione del rito ordinario o sommario di cognizione con riferimento alla domanda di protezione umanitaria dopo avere egli stesso instaurato il giudizio di merito mediante la proposizione di un ricorso unico e unitario ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis avente ad oggetto la richiesta di ogni forma di protezione, come è avvenuto nella presente controversia, per giunta senza eccepire in alcun modo nel giudizio camerale la mancata adozione – peraltro da lui stesso provocata – del rito ordinario per la domanda di protezione umanitaria, previa richiesta di separazione dei giudizi da lui congiuntamente instaurati. E’ poi del tutto paradossale che il ricorrente lamenti, nel ventaglio alternativo delle decisioni corrette che ipotizza, la mancata dichiarazione di inammissibilità della domanda da lui formulata, ovvero la mancata adozione di un provvedimento, ovviamente meramente ordinatorio, di separazione delle domande che egli stesso ha proposto cumulativamente, chiedendo il simultaneus processus.

E’ infine il caso di notare incidentalmente che il dovere di cooperazione officiosa che grava sul giudice del procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale riguarda il profilo istruttorio e l’assunzione di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine del richiedente e non certo le forme e le modalità di introduzione della domanda giudiziale, laddove il richiedente fruisce, eventualmente anche attraverso il patrocinio a spese dello Stato, di congrua assistenza tecnica”.

La pronuncia citata ha inoltre ritenuto di pronunciarsi nel merito per l’infondatezza, a ragione della rilevanza nomofilattica della questione, rilevando quanto segue.

“Si è detto che il rito previsto dal D.Lgs. 25 del 2008, art. 35 bis, con le peculiarità che lo connotano – composizione collegiale della sezione specializzata, procedura camerale e non reclamabilità del decreto – ha un ambito di applicabilità espressamente limitato alle controversie di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 e a quelle relative all’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’Unità Dublino. Tuttavia, qualora le azioni dirette ad ottenere le protezioni internazionali tipiche (status di rifugiato e protezione sussidiaria) e le azioni volte al riconoscimento di quella atipica (protezione umanitaria) siano state contestualmente proposte con un unico ricorso, per libera e autonoma scelta processuale del ricorrente, trova comunque applicazione per tutte le domande connesse e riunite il rito camerale di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis davanti alla sezione specializzata del Tribunale in composizione collegiale, in ragione della profonda connessione, soggettiva ed oggettiva, esistente tra le predette domande e della prevalenza della composizione collegiale del Tribunale in forza del disposto dell’art. 281 nonies c.p.c.. Occorre inoltre tener conto, nella stessa prospettiva delineata, di alcuni fondamentali principi e valori che corroborano la conclusione: in primo luogo, il carattere unitario dell’accertamento dei presupposti dei vari tipi di tutela, che normalmente richiede l’indagine officiosa circa le medesime realtà socio-politiche del Paese di origine; in secondo luogo, la fondamentale esigenza di evitare contrasto di giudicati, in considerazione del rapporto di sussidiarietà e conseguente relativa residualità reciproca che connota le tre forme graduate di protezione, che attuano ed esauriscono nel nostro ordinamento il diritto di asilo costituzionale ex art. 10 Cost., comma 3; in terzo luogo, il principio della ragionevole durata del processo, che impone una soluzione interpretativa che eviti le duplicazione di accertamenti processuali e i ritardi connessi alle inevitabili relazioni di pregiudizialità tra i processi celebrati separatamente. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, il ricorrente si duole della pronuncia impugnata per la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, della Direttiva 2004/83/CE e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8.

Compito del giudice, secondo il ricorrente, non è valutare l’insostenibilità, credibilità della narrazione della parte, ma se si sia formata la prova per presunzioni, in base ai requisiti ex D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3; sostiene che il Giudice del merito non ha tenuto conto dell’età e della personalità del richiedente;oppone che deve ritenersi credibile e circostanziata la narrazione esposta; che occorre valutare la situazione della Nigeria, se le strutture statuali siano effettivamente in grado di assicurare l’ordine pubblico e la giustizia, ricorrendo alla cooperazione istruttoria officiosa.

Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.

Come ritenuto tra le ultime nella pronuncia 2458/2019, questa Corte ha precisato che in tema di protezione internazionale, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma (Cass. 10 luglio 2014, n. 15782, e in precedenza Cass. 18 febbraio 2011, n. 4138, secondo cui ove il richiedente non abbia fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti comunque veritieri se ricorrano le richiamate condizioni).

Ora, la recentissima pronuncia 15794/2019 ha affermato che in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare in modo preciso, completo e circostanziato i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta e, quindi, a pervenire alla dimostrazione dei fatti medesimi, trovando deroga il principio dell’onere della prova, a fronte di una esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, la cui lett. c) indica proprio la valutazione di coerenza e plausibilità delle dichiarazioni del richiedente.

Ciò posto, va rilevato che nel caso in esame, il giudice del merito ha motivatamente e congruamente escluso che le dichiarazioni del richiedente potessero ritenersi attendibili in relazione all’episodio dei tre uomini che avevano sparato colpi in aria, indicando come la narrazione fosse estremamente generica, priva di dettagli che facessero ritenere che il sig. O. fosse il bersaglio, ed in ogni caso ha escluso che detto episodio fosse significativo di fatti persecutori, costituendo al più un episodio di criminalità comune.

Nel resto, nel motivo il ricorrente finisce sostanzialmente per contestare la valutazione di merito eseguita dal Tribunale, opponendovi la propria anche con riferimenti fattuali non attinenti alla stessa narrazione della parte (vedi a pag. 6, sub 2, il riferimento a “vendetta dello zio”, che invero non risulta indicato nei fatti riportati dalla stessa parte).

Ne discende che, sotto il profilo che qui interessa, non ricorre la fattispecie di cui all’art. 3, comma 5, lett. c) cit. – quella per cui “le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone”, sicchè correttamente il Tribunale ha ritenuto che non vi fossero le condizioni per l’accoglimento della domanda proposta.

Col terzo mezzo, la parte si duole della violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e della Direttiva 2004/83/CE, in relazione al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria.

Sostiene che il Tribunale non avrebbe valutato il quadro generale di violenza diffusa in Nigeria e la eventuale contrapposizione da parte dello Stato.

Il motivo presenta profili di inammissibilità ed infondatezza.

A fronte della valutazione condotta dal Tribunale sulla situazione in generale in Nigeria e specifica della zona di provenienza, condotta sulla base dei dati ricavati dalle fonti specificamente indicate, e della conclusiva affermazione dell’esistenza di un forte tasso di criminalità armata e della ricorrenza di fatti omicidiari, tale però da non costituire uno stato di conflitto armato, è infondato il rilievo del ricorrente in relazione alla mancata valutazione della condizione del Paese e, nel resto, è inammissibile il tentativo di ribaltare la valutazione di merito condotta congruamente dal Tribunale.

Col quarto motivo, il ricorrente, in relazione al diniego di protezione umanitaria, oppone che il primo Giudice non avrebbe fatto uso della doverosa attività istruttoria ufficiosa, denuncia che il Tribunale avrebbe erratamente considerato la protezione umanitaria come inclusa nella protezione internazionale.

Al motivo non può prestarsi adesione.

Quanto alla protezione umanitaria, il Tribunale ha concluso nel ritenere che il ricorrente non aveva allegato alcuna situazione di vulnerabilità specifica, ha ritenuto inidonea a provare l’inserimento in Italia la documentazione prodotta, ha applicato i principi della pronuncia 4455/2018, ha rilevato che non emergeva quella disparità effettiva ed incolmabile tra la vita condotta in Italia e quella che la parte aveva condotto nel Paese di origine.

Ora, anche ad ammettere la non applicabilità ratione temporis del D.L. n. 113 del 2018 (così la pronuncia 4890/2019), che ha abolito il permesso umanitario sostituendolo col permesso per casi speciali tipizzati, va rilevato che tale forma di permesso costituisce una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (“status” di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (così, tra le tante, la pronuncia 9/10/2017 n. 23604), e richiede per converso che colui che richieda protezione umanitaria debba dedurre una situazione di vulnerabilità che deve riguardare la sua personale vicenda venendo altrimenti in rilievo non la peculiare situazione di vulnerabilità del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti (così, tra le ultime, la pronuncia 11267/2019).

Ciò posto, deve ritenersi infondata la denuncia relativa agli oneri probatori ed inammissibile la sostanziale richiesta del ricorrente di rivalutazione del merito, a fronte della valutazione effettuata dal Tribunale.

Col quinto mezzo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., art. 6 CEDU, art. 101 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, D.Lgs. n. 28 del 2005, art. 27, comma 1 bis, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 8 e 9, introdotti dal D.L. n. 13 del 2017, e solleva questione di costituzionalità delle norme di diritto interno sopra richiamate a partire dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 per contrarietà all’art. 24 Cost.,”nella parte in cui le norme suelencate prevedono che la Commissione Territoriale possa procedere alla raccolta di prove (videoregistrazione/redazione del verbale di audizione/raccolta delle COI) senza che il richiedente possa svolgere un’attività difensiva a riguardo; prove essenziali per la decisione della Commissione Territoriale, prove che in base al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis conservano la propria efficacia anche nel successivo giudizio di opposizione avanti al Tribunale (vedi art. 35 bis cit. comma 8).

Il motivo è inammissibile per la parte in cui solleva censure ex art. 360 c.p.c., n. 3; a riguardo, è sufficiente rilevare che il ricorrente per la gran parte si duole di quanto avviene nella fase amministrativa, avanti alla Commissione Territoriale, rispetto alla quale il giudizio avanti al Tribunale si pone non in termini di riesame del provvedimento, ma di accertamento del diritto soggettivo del richiedente.

Quanto alla questione di costituzionalità, la stessa deve ritenersi prima facie manifestamente infondata, volta che si rilevi come, con l’entrare a far parte del giudizio, sulla documentazione si svolga il contraddittorio.

Conclusivamente, va respinto il ricorso; non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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