Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26549 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. I, 17/10/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 17/10/2019), n.26549

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15695/2018 proposto da:

M.A.K., elettivamente domiciliato in Roma Via Sabotino 46 Sc.

F Int. 5 presso lo studio dell’avvocato Comi Vincenzo che lo

rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 06/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/09/2019 dal Pres. Dott. DI VIRGILIO ROSA MARIA

La Corte:

Fatto

RILEVATO

che:

Con decreto del 6/4/2018, notificato in pari data, il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di M.A.K. di protezione internazionale nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, nonchè in ulteriore subordine, di riconoscimento della protezione umanitaria, ritenendo pur credibile la narrazione dello straniero (che aveva dichiarato di essere originario di (OMISSIS), di essere sposato senza figli, di avere lasciato il Paese per le vessazioni a cui era stato sottoposto dai cugini, che dopo la morte del padre nel 2010 volevano appropriarsi dei terreni della sua famiglia e di avere timore di essere picchiato o rapito, nel caso di rimpatrio), ma insussistenti gli atti di persecuzione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, da parte dei soggetti indicati all’art. 5, per i motivi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, ed inoltre risultava che i cugini erano stati sanzionati dalle autorità bengalesi.

Il Tribunale ha ritenuto altresì insussistenti gli estremi per il riconoscimento della protezione sussidiaria, dovendosi escludere che il ricorrente, in caso di rimpatrio, andasse incontro a condanne importanti, come la pena di morte o trattamenti inumani o degradanti; non emergeva inoltre il rischio di essere coinvolto nella violenza di un conflitto armato generalizzato, stante l’esistenza di una generica situazione di instabilità del Paese nella regione di provenienza, risultando dalle fonti consultate ed indicate che non vi sono stati episodi di violenza o conflitto armato nel distretto di (OMISSIS), ed inoltre i rapporti internazionali depongono per un calo del numero delle vittime del terrorismo islamico.

Il Tribunale ha respinto infine la richiesta di protezione umanitaria, non avendo il ricorrente allegato fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli posti a base della richiesta di protezione internazionale, mancando pertanto indici di particolare vulnerabilità, non deponendo in tal senso il fatto di avere contratto di lavoro a tempo determinato in Italia, non sussistendo gli estremi della integrazione sociale culturale lavorativa e familiare e non erano state neppure allegate le concrete condizioni in cui si troverebbe il ricorrente al rientro nel Paese di origine.

Ricorre M.A.K. con due motivi, e solleva tre profili di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis.

Il Ministero non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Col primo motivo, il ricorrente si duole del vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, commi 1, 3, 4, 5, 6, artt. 14 e 17.

Sostiene che se il Tribunale avesse correttamente applicato la normativa di settore avrebbe dovuto riconoscere la protezione sussidiaria, “in quanto i gravi danni, previsti dall’art. 14 cit., possono essere costituiti anche da condotte dei famigliari del migrante qualora il sistema giudiziario del paese non garantisca ordinariamente, e non solo episodicamente, che la vittima delle violenze sarà tutelata adeguatamente”.

Si duole della considerazione del Tribunale sull’arresto di coloro che avevano incendiato la casa del ricorrente e dopo avere scontato la pena avevano tentato di rapirlo, sostiene di essere tuttora minacciato di morte e che certi reati possono essere prevenuti solo quando un soggetto è posto sotto la tutela dello Stato, cosa impossibile in Bangladesh.

Il motivo è largamente inammissibile.

Ed infatti, sostanzialmente il ricorrente vorrebbe una diversa valutazione de fatti, che, come tale, è inammissibile nel giudizio di legittimità.

Inoltre, la parte inserisce nel motivo fatti nuovi, tra l’altro genericamente addotti (le attuali minacce), e non si confronta neppure con la specifica ratio decidendi della pronuncia impugnata.

Il Tribunale, infatti, ha motivatamente escluso la situazione di violenza indiscriminata e generalizzata nella regione di provenienza della parte, alla stregua delle fonti consultate e specificamente indicate, valorizzando altresì il fatto, di sicura rilievo, che i cugini erano stati sanzionati per gli atti commessi in danno di M.A.K..

Col secondo motivo, il ricorrente denuncia il vizio di motivazione per omesso esame di più fatti decisivi, con particolare riferimento alla situazione di vulnerabilità ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari; sostiene che non è stato condotto a riguardo un adeguato scrutinio, dovendo essere valutati tutti i fatti allegati, anche quelli fatti valere al fine del riconoscimento della protezione internazionale.

Il motivo è inammissibile.

Ora, anche ad ammettere la non applicabilità ratione temporis del D.L. n. 113 del 2018 (così la pronuncia 4890/2019), che ha abolito il permesso umanitario sostituendolo col permesso per casi speciali tipizzati, va rilevato che nel motivo manca in ogni caso la specifica indicazione del fatto omesso, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, novellato, il cui oggetto è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Costituisce, poi, un “fatto”, agli effetti della menzionata disposizione, non una “questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., SU, n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); iii) una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (cfr. Cass. n. 21439 del 2015); iv) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della “domanda” in sede di gravame.. Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato, avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poichè l’attributo si riferisce al “fatto” in sè, la “decisività” asserisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015). Lo stesso deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti, in continuità con la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, già voluta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, così da tenersi ben distinto un tale vizio dall’errore di fatto revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4, il quale, al contrario, non deve aver costituito un “punto controverso su cui la sentenza ebbe a pronunciare”.

E’ utile rammentare, poi, che Cass., SU, n. 8053 del 2014 ha chiarito che “la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti”.

V’è inoltre un’altra considerazione da fare; col dolersi della mancata considerazione degli elementi di fatto dedotti ai fini del riconoscimento delle forme di protezione maggiori, il ricorrente sostanzialmente non coglie la ratio decidendi del decreto impugnato.

Il Tribunale, infatti, ha a riguardo evidenziato che il ricorrente aveva posto a base della domanda gli stessi fatti addotti ai fini del riconoscimento del rifugio e della protezione sussidiaria, fatti che il Giudice aveva già esaminato per concludere per l’insussistenza di dette cause di inclusione (quindi detti fatti erano stati valutati e ne era stata esclusa la rilevanza ad ogni effetto), ed ha poi escluso la sussistenza di una condizione di particolare vulnerabilità avuto riguardo alla mancata effettiva integrazione in Italia.

Il ricorrente, da ultimo, solleva tre questioni di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, per violazione dell’art. 77 Cost., per la mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza; per violazione da parte del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, artt. 3,24,117 Cost., dell’art. 6 CEDU, del principio del diritto al ricorso effettivo, di cui art. 13 CEDU, dell’art. 47Carta di Nizza e dell’art. 46 della Direttiva 2013/32/UE; e per la violazione degli artt. 3 e 111 Cost..

Le dette questioni di legittimità costituzionale vanno ritenute manifestamente infondate, richiamandosi a riguardo, a prescindere da ogni ulteriore rilievo, rispetto alle due prime questioni la pronuncia 17717/2018, e per la terza, le pronunce 2770/2018 e 28119/2018.

Conclusivamente, va respinto il ricorso; non v’è luogo alla pronuncia sulle spese, non essendosi costituito l’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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