Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26545 del 23/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/11/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 23/11/2020), n.26545

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11369/2014 R.G. proposto da

Società Programmi Integrati s.c.a.r.l. (SOPIN), in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta

procura in calce al ricorso, dall’Avv. Rocco Nicola, elettivamente

domiciliata in Roma presso l’AIGA (Associazione Italiana Giovani

Avvocati), Via Tacito n. 50;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Basilicata n. 21/1/2013, depositata 111 febbraio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2020 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della Società Programmi Integrati s.c.a.r.l. (Spin scarl), per l’anno 2002, avendo questa esposto un reddito di impresa per Euro 10.005,00, a fronte di ricavi contabilizzati per Euro 450.281,00, di cui Euro 376.281,00 derivanti dalla gestione del ristorante Le Botteghe ed Euro 74.000,00 dall’attività di costruzione e ristrutturazione dei beni immobili e alloggi destinati ai soci titolari dei requisiti soggettivi per l’accesso all’edilizia economica popolare, in relazione al programma di attuazione per la conservazione ed il recupero architettonico dei rioni Sassi di Matera, di cui alla L. 11 novembre 1986, n. 771. L’Ufficio contestava alla società l’omessa contabilizzazione dei maggiori componenti positivi di reddito d’impresa per Euro 521.853,00, di cui Euro 487.534,00 quale importo dei contributi in conto capitale ad essa erogati dallo Stato e dal Comune di Matera ai sensi della L. n. 771 del 1986 ed Euro 34.319,00 quali ricavi non contabilizzati relativi all’attività di ristorazione determinati ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, attraverso ricostruzione analitico-induttiva fondata sul “tovagliometro” applicato al prezzo medio di un pasto. I contributi in conto capitale costituivano, dunque, “sopravvenienze attive”, sicchè si disponeva il recupero a tassazione della maggiori rimanenze finali per Euro 487.534,00, non contabilizzate nè dichiarate nel conto economico, con un maggior reddito di impresa di Euro 531.858,00.

2. La società con il ricorso deduceva che era errata l’affermazione dello svolgimento di una attività lucrativa dietro il paravento di una attività con finalità mutualistiche, mentre la prevalenza dell’attività di ristorazione era stata desunta dai soli ricavi, senza considerare i costi sopportati nell’esercizio. Inoltre, la peculiare disciplina della L. n. 771 del 1986 relativa alla riattazione degli immobili siti nei rioni Sassi di Matera, pur prevedendo l’accreditamento dei contributi pubblici alla società cooperativa, al momento della ultimazione dei lavori da parte del soggetto attuatore/sub-concessionario, avrebbe consentito il subentro dei soci (pre)assegnatari titolari dei requisiti soggettivi per l’accesso alla edilizia agevolata. Solo le erogazioni finalizzate ad arricchire l’organizzazione patrimoniale dell’impresa in modo permanente potevano annoverarsi tra i contributi in conto capitale, assoggettabili, quindi, a tassazione.

3.La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, rilevando che l’attività prevalente era quella edilizia. Inoltre, il contributo pubblico, in realtà, era destinato all’assegnatario della singola unità ad uso abitativo, quindi al socio della cooperativa, e non a quest’ultima. Trattavasi, quindi, di contributi a fondo perduto, non tassabili, erogati per la riattazione di un patrimonio “demaniale”, successivamente dato in concessione e sub concessione, sicchè era ovvio che non ne fosse fatta menzione nel conto economico. La legge sui Sassi di Matera era volto a valorizzare un patrimonio demaniale dello Stato, non essendovi un incremento dei mezzi patrimoniali dell’impresa. Quanto all’attività di ristorazione non si era tenuto conto delle ricevute fiscali per la pizzeria.

4.La Commissione tributaria regionale della Basilicata, invece, accoglieva l’appello della Agenzia delle entrate, rilevando che, nell’ipotesi di “multiattività”, l’attività prevalente era quella di ristorazione, dovendosi tenere conto dei ricavi derivanti dall’attività di ristorazione di gran lunga superiori a quelli generati dall’attività edilizia. Quanto ai costi, non potevano essere prese in considerazione le rimanenze, che non rappresentavano l’attività dell’anno di imposta preso in esame. Era rilevante lo scostamento dagli studi di settore. Inoltre, trattavasi di contributi pubblici in conto capitale, come emergeva dalla dizione lettera di cui alla L. n. 771 del 1986, artt. 7 e 8 ed alla normativa comunale (Delib. Cons. n. 86/92). La determina di concessione, poi, indicava quale beneficiario proprio la cooperativa Spin Carl.

5 .Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

6. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1.Anzitutto, va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione formulata dalla difesa erariale, in quanto il ricorso è stato notificato all’Agenzia delle entrate, presso la direzione periferica di Matera, invece che presso la Direzione Centrale di Roma.

Invero, per questa Corte, a sezioni unite, la parte necessaria del giudizio tributario è sempre l’autorità che ha emesso l’atto o provvedimento impugnato. Pertanto, ove l’ente non si sia avvalso del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, essendo l’Agenzia delle entrate rappresentata dal suo direttore, il ricorso per cassazione, proposto nei confronti dell’Agenzia, dovrebbe essere notificato, in via di principio, al direttore presso la sede centrale di Roma. Tuttavia, tale regola generale va integrata con la disciplina speciale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, e segnatamente con gli artt. 10 e 11. Tali norme attribuiscono capacità di stare in giudizio agli uffici finanziari che hanno emesso l’atto impugnato e tale capacità è stata assunta dagli uffici periferici dell’Agenzia delle entrate; la stessa capacità deve ritenersi conferita in modo concorrente e alternativo, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c., anche tenendo conto della natura impugnatoria del processo tributario. Pertanto, anche gli uffici periferici dell’Agenzia, subentrati a quelli dei Dipartimenti delle entrate, devono essere considerati, una volta che l’atto ha come destinatario l’ente, come organi dello stesso che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza in giudizio, ai sensi dell’art. 163 c.p.c., comma 2, n. 2 e artt. 144 e 145 c.p.c.; sicchè la notificazione del ricorso per cassazione può essere indifferentemente effettuata all’Agenzia delle entrate presso la sua sede centrale ovvero presso il suo ufficio periferico.

1.1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “la nullità della sentenza o del procedimento a cagione dell’omesso rilievo della tardività e, quindi, dell’inammissibilità dell’appello – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto la sentenza del giudice di appello è stata depositata il 12-1-2010, sicchè il termine ultimo di proposizione dell’appello era il 27-2-2011, che però cadeva di domenica. Se l’Agenzia avesse utilizzato per la proposizione dell’appello la notificazione a mezzo ufficiale giudiziario, il termine ultimo per la consegna dell’appello per la notificazione all’ufficiale giudiziario sarebbe stato quello del lunedì successivi 28 febbraio 2011, ai sensi dell’art. 155 c.p.c.. Avendo, però, l’Agenzia optato per la notifica a mezzo posta ordinaria, come consentitole dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, il termine del 27 febbraio 2011, non poteva slittare al giorno successivo, trattandosi di attività meramente amministrativa, cui era inapplicabile l’art. 155 c.p.c., comma 4.

1.2. Tale motivo è infondato.

Invero, è pacifico che la sentenza di primo grado è stata depositata il 12 gennaio 2010 e che il termine lungo di un anno di cui all’art. 327 c.p.c., scadeva, considerando la sospensione feriale dei termini processuali di quarantasei giorni, il 27 febbraio 2011; altrettanto pacifico è che il 27 febbraio 2011 cadeva di domenica.

L’Agenzia ha provveduto alla effettuazione della notifica dell’appello a mezzo posta ordinaria, come espressamente consentito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, attraverso il richiamo compiuto dall’art. 53, comma 2, al tale decreto legislativo, art. 20, commi 1 e 2.

La notifica dell’appello, quindi, poteva essere effettuata, non solo attraverso l’ufficiale giudiziario, ma anche “direttamente” a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, e persino mediante “consegna” dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia.

L’art. 155 c.p.c., comma 4, prevede che “se il giorno di scadenza è festivo, la scedenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo”.

Tale disposizione, secondo la società ricorrente, non troverebbe però applicazione in caso di notificazione dell’appello in modo “diretto” attraverso il servizio postale.

Il rilievo è infondato, in quanto l’Agenzia delle entrate può scegliere di effettuare la notificazione dell’appello sia attraverso l’ufficiale giudiziario, sia con il servizio posta, e persino mediante consegna diretta all’impiegato addetto, che ne rilascia ricevuta sulla copia.

Ciò significa che trattasi sempre di notificazione di un atto processuale, e non di un mero atto amministrativo, come erroneamente prospettato dalla società, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 155 c.p.c., comma 4; di qui la tempestività della notifica dell’appello proposto dalla Agenzia delle entrate.

2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e/o falsa applicazione della L. n. 771 del 1986, art. 7 e ss., artt. 2512 e 2626 c.c., artt. 59 e 88 Tuir – Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5: carente o contraddittoria ricostruzione e/o erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa”, in quanto il giudice di appello avrebbe erroneamente ritenuto che non si trattava di una cooperativa a mutualità prevalente, poichè, in caso di “multiattività” doveva farsi riferimento alla prevalenza dei ricavi. Il giudice di appello aveva ritenuto prevalente l’attività di ristorazione, rispetto a quella edilizia. Per la ricorrente, invece, vanno considerati anche i costi sostenuti nell’esercizio, sicchè la prevalenza era per l’attività edilizia. Ai sensi dell’art. 223-duodecies disp. att., c.c., le agevolazioni fiscali si applicano solo alle cooperative a mutualità prevalente.

2.1. Tale motivo è infondato.

2.2. Anzitutto, si rileva che le cooperative sono soggette al fallimento nel caso in cui svolgano “attività commerciale”, sicchè la mera iscrizione nel registro delle imprese come società cooperative non è sufficiente ad impedire la dichiarazione di fallimento, dovendosi soffermare sulla effettiva attività svolta. Invero, il fallimento delle cooperative è sancito dall’art. 2545-terdecies c.c. ove si legge che “In caso di insolvenza della società, l’autorità governativa alla quale spetta il controllo sulla società dispone la liquidazione coatta amministrativa. Le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento. La dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa preclude la dichiarazione di fallimento”.

L’art. 2 L. Fall., poi, prevede al secondo ed al comma 3 che “Le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al fallimento, salvo che la legge diversamente disponga. Nel caso in cui la legge ammette la procedura di liquidazione coatta amministrativa e quella di fallimento si osservano le disposizioni dell’art. 196”.

L’art. 196 L. Fall. prevede il principio di “prevenzione” in caso di concorso tra fallimento e liquidazione coatta amministrativa (“per le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, per le quali la legge non esclude la procedura fallimentare, la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa preclude la dichiarazione di fallimento”).

Per questa Corte lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l’attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest’ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, può ben essere presente anche in una società cooperativa, pur quando essa operi solo nei confronti dei propri soci. Ne consegue che anche tale società ove svolga attività commerciale può, in caso di insolvenza, può essere assoggettata a fallimento in applicazione dell’art. 2545-terdecies c.c. – nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza dichiarativa di fallimento di una società cooperativa avente quale oggetto la commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassava il prezzo, senza che sia risultato provato che tutte le operazioni di vendita ed incasso compiute dalla società siano state seguite dal completo versamento del denaro ai soci – (Cass.Civ., 24 marzo 2014, n. 6835; Cass., 10 ottobre 2019, n. 2547; Cass., 2016/14250); sicchè il giudice può accertare la natura commerciale dell’attività svolta da una società cooperativa, non essendo questa incompatibile con la finalità mutualistica, poichè l’accertamento dello scopo di lucro non è precluso nè dall’oggetto sociale risultante formalmente dall’atto costitutivo della società nè dal fatto che quest’ultima risulti iscritta nel registro prefettizio delle imprese cooperative, rivestendo tale formalità unicamente lo scopo di consentire alla società di partecipare ai pubblici appalti e di usufruire di alcuni benefici fiscali (Cass., 28 luglio 1994, n. 7061).

Peraltro, lo scopo mutualistico proprio delle cooperative può avere gradazioni diverse, che vanno dalla cosiddetta “mutualità pura”, caratterizzata dall’assenza di qualsiasi scopo di lucro, alla cosiddetta “mutualità spuria”, che, attenuandosi il fine mutualistico, consente una maggiore dinamicità operativa anche nei confronti di terzi non soci, conciliando così il fine mutualistico con un’attività commerciale e con la conseguente possibilità per la cooperativa di cedere beni o servizi a terzi a fini di lucro (Cass., 8 settembre 1999, n. 9513). La previsione della mutualità prevalente è stata introdotto la riforma del diritto societario di cui alla legge delega L. n. 366 del 2001 (art. 5), poi attuata con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in vigore dal 1 gennaio 2004. Si è stabilito che le disposizioni fiscali agevolative spettassero in esclusiva alle cooperative a mutualità prevalente.

La possibilità che la cooperativa assuma tali diverse tipologie comporta necessariamente una diversità di posizioni del socio cooperatore, senza, peraltro, che, anche laddove è più accentuato il fine mutualistico (come nelle cooperative di consumo), il parametro normativo di riferimento cessi di essere quello delle società (come dimostra l’art. 2516 c.c.), pur rimanendo la posizione del socio cooperativo distinta da quella del socio di una società di capitali, in quanto quest’ultimo persegue un fine puramente speculativo, mentre il primo mira di regola ad un risultato economico e ad un vantaggio patrimoniale diverso dal lucro, o comunque peculiare e variante a seconda del ramo di attività cooperativa esercitato dalla società. Tale vantaggio non è costituito (o almeno non lo è prevalentemente) dalla più elevata remunerazione possibile del capitale investito, ma dal soddisfacimento di un comune preesistente bisogno economico (di lavoro, del bene casa, di generi di consumo, di credito ed altri), con la congiunta consecuzione di un risparmio di spesa per i beni o i servizi acquistati o realizzati dalla propria società (come nelle cooperative di consumo), oppure di una maggiore retribuzione per i propri beni o servizi alla stessa ceduti (come nelle cooperative di produzione e di lavoro).

2.3.Quanto ai criteri per la definizione di “prevalenza” l’art. 2513 c.c. fa riferimento ai parametri costituiti dai “ricavi” dalle vendite e dalle prestazioni di servizi verso i soci che devono essere superiori al 50 % del totale dei ricavi e delle vendite e delle prestazioni ai sensi dell’art. 2425 c.c., comma 1, punto A 1, del conto economico, oltre che al “costo del lavori dei soci” ed al costo della produzione per servizi ricevuti dai soci ovvero ai beni conferiti dai soci.

In tal modo deve operarsi un confronto tra la gestione mutualistica e quella verso i terzi, con valutazione della gestione imprenditoriale caratteristica, attraverso la specifica individuazione delle voci del conto economico. I dati di bilancio, poi, in base al principio di “derivazione” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83, vengono convogliati, ai fini fiscali, nella determinazione del reddito di impresa.

Inoltre, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 18 (disposizione regolamentare concernente la contabilità semplificata per le imprese minori), che detta una disposizione che consente alle imprese “minori” di adottare un regime di contabilità semplificata, “per i contribuenti che esercitano contemporaneamente prestazioni di servizi ed altre attività si fa riferimento all’ammontare dei ricavi relativi all’attività prevalente”.

Peraltro, ai sensi del D.M. 11 febbraio 2008, art. 2, ai fini dell’applicazione degli studi di settore “i risultati derivanti dall’applicazione degli studi di settore…, non possono essere utilizzati per l’azione di accertamento, di cui alla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, qualora l’importo dei ricavi dichiarati relativi alle attività non rientranti tra quelle prese in considerazione dallo studio di settore relativo all’attività prevalente superi il trenta per cento dell’ammontare totale dei ricavi dichiarati”.

Pertanto, il paramento dei “ricavi” è elemento imprescindibile per individuare l’attività prevalente di una società, che svolge attività diverse.

2.4.Va, poi, osservato che l’applicabilità degli studi di settore alle società cooperative a mutualità prevalente era esclusa dall’Agenzia delle entrate in base al D.M. 16 marzo 2011, che aveva modificato il D.M. 11 febbraio 2008. Il D.M. 28 dicembre 2012, art. 6 ha poi previsto che i risultati degli studi di settore non possono essere utilizzati per l’azione automatica (diretta) di accertamento fiscale, anche se tali società dovevano comunque compilare e trasmettere all’Agenzia delle entrate il relativo modello dello studio di settore, da utilizzare esclusivamente per la selezione delle posizioni da sottoporre a controllo con le ordinarie metodologie di accertamento.

2.4.11 giudice di appello, sul punto, ha reso una motivazione congrua affermando, con giudizio di merito non sindacabile in questa sede, che “i ricavi derivanti dall’attività di ristorazione sono di gran lunga superiori a quelli generati dall’attività edilizia”. Peraltro, il giudice di appello ha anche aggiunto che “stesso risultato si ottiene esaminando i costi per i quali non possono essere prese in considerazione le rimanenze perchè non rappresentano…attività dell’anno di imposta posto sotto controllo”.

L’accertamento induttivo, dunque, era giustificato quanto all’attività di ristorazione, stante il rilevante scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore.

2.5.L’irrilevanza delle rimanenze del periodo, nell’ambito della individuazione della concreta attività svolta dalla società cooperativa e della “prevalenza” dello scopo mutualistico, è condivisibile.

Invero, la rilevazione del magazzino consente di rispettare il principio di competenza, in quanto i costi sostenuti per i beni-merce sono posti a confronti solo nel momento in cui si verifica il disinvestimento o ricavo. Trattasi, dunque, di un “costo sospeso”, da cui origina la necessità di “neutralizzare” il costo di acquisto ai fini della formazione del reddito del periodo, fino a quando i beni diventano produttivi di ricavi per effetto della cessione (Cass., sez. 1, 27 dicembre 2013, n. 28667, seppure in relazione alla peculiare fattispecie della individuazione delle soglie di fallibilità, sub specie di “ricavi lordi”, ai sensi dell’art. 11. L. fall.).

Infatti, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono le rimanenze finali dell’esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio (Cass., sez. 5, 10 febbraio 2017, n. 3567; Cass., sez. 5, 30 luglio 2014, n. 17298; Cass., sez. 5, 12 maggio 2008, n. 11748).

3.Con il terzo motivo di impugnazione (sub 2.3. del ricorso per cassazione, a pagina 13) la società deduce l’illegittimità della decisione in ordine alla nozione ed alla natura giuridica dei contributi in conto capitale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, non avendo considerato il giudice di appello che l’intervento di risanamento conservativo realizzato dalla cooperativa nell’ambito dei rioni dei Sassi di Matera costituisce un unicum nel suo genere, ai sensi della L. n. 771 del 1986. Con tale normativa si è superato l’ostacolo derivante dalla “demanialità” del diritto dominicale sugli immobili, che erano di proprietà comunale. Pertanto, con la L. n. 771/1986 si è costituito un diritto di godimento sui generis, costituito dal rapporto di sub-concessione, consentendo al titolare del bene di “ammortizzare”, sia pure in parte, gli ingenti costi affrontati per il riattamento degli immobili. Nonostante, il tenore letterale della L. n. 771 del 1986, artt. 7 e 8, che fanno espresso riferimento ai contributi in conto capitale, quindi tassabili nell’esercizio in cui sono ricevuti (per cassa), in realtà si tratta di contributi in conto impianti. Alla sub concessionaria Sopin, dunque, è riconosciuto un “corrispettivo” per l’obbligazione di effettuare gli interventi di restauro di tutte le parti condominiali previste dai singoli progetti esecutivi. Si è in presenza, allora, di una forma di remunerazione che non attiene a contributi a fondo perduto. Del resto, vi è a monte una “spesa massima ammissibile” per ogni intervento di recupero, sicchè la contribuzione viene parametrata a criteri oggettivi che attengono all’immobile, alla superficie recuperabile a fin abitativi. E’, poi, necessaria l’autorizzazione dei competenti uffici comunali. Inoltre, la società è il soggetto attuatore del programma costruttivo finalizzato al recupero di ventisei alloggi da assegnare in “godimento plueriennale” ai soci titolari dei requisiti soggettivi per l’accesso alla edilizia agevolata. Una volta completato l’intervento, quindi, i soci subentrano alla cooperativa nel rapporto di subconcessione con il Comune di Matera. Il contributo in conto capitale, insomma, di cui alla L. n. 771 del 1986 non è una agevolazione o risorsa finanziaria di pertinenza della cooperativa, nè ha mai concorso a determinarne la capacità reddituale, rappresentando un benefit compensativo riconosciuto esclusivamente in favore dei soci assegnatari. Tale contributo non può, dunque, considerarsi come “sopravvenienza attiva”, nè impingere nelle “rimanenze attive” dell’esercizio precedente, non essendo destinato ad azioni di investimento o arricchimento patrimoniale dell’impresa. La fattispecie risulterebbe, quindi, assimilabile all’ipotesi del contributo per l’acquisto di beni ammortizzabili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88.

3.1. Tale motivo è infondato.

3.2. Invero, la peculiarità della L. n. 771 del 1986 è proprio quella di consentire l’erogazione di contributi “in conto capitale” per la conservazione ed il recupero dei rioni Sassi di Matera, che sono caratterizzati dalla “demanialità” dei beni.

Ai sensi della L. n. 771 del 1986, art. 4 tra i soggetti “attuatori” figurano anche le imprese cooperative ed i loro consorzi (oltre al Comune di Matera ed ai privati). Il comune può affidare in sub-concessione quota parte degli interventi alle cooperative (art. 4, comma 2).

La L. n. 771 del 1986, art. 6, comma 1, lett. c), della dispone che il Comune di Matera provveda alla concessione di contributi ai proprietari ed ai sub-concessionari per la esecuzione delle opere previste nel programma biennale. La L. n. 771 del 1986, art. 7, comma 1, prevede che “sono assistititi da contributi in conto capitale nella misura massima del quaranta per cento della spesa ritenuta ammissibile dal comune…gli interventi realizzati ai sensi dell’art. 4 a cura dei proprietari”.

La L. n. 771 del 1986, art. 8, comma 1, poi, dispone che “sono assistiti da contributo in conto capitale nella misura massima del cinquanta per cento, elevabile al settanta per cento per le cooperative di abitazione, della spesa ritenuta ammissibile dal comune…gli interventi…realizzati ai sensi dell’art. 4 a cura dei soggetti sub-concessionari…”. La concessione dei contributi è subordinata alla stipula di una convenzione che deve prevedere: le prescrizioni relative alle caratteristiche dell’intervento; l’impegno ad abitare direttamente gli immobili per un periodo non inferiore a dieci anni; il canone di locazione da corrispondere al comune; l’impegno ad assicurare la manutenzione degli immobili.

3.3.La distinzione tra contributi in conto capitale, in conto impianti e contributi di esercizio è ormai stratificata nella giurisprudenza di questa Corte.

3.4.Ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 3, lett. b) “si considerano sopravvenienze attive: …i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui all’art- 85, comma 1, lett. g) ed h) e quelli per l’acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”.

Per il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85, poi, “sono considerati ricavi…g) i contributi in denaro, o il valore normale di quelli, in natura, spettanti sotto qualsiasi denominazione in base a contratto; h)i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge”. I contributi in conto esercizio in genere sono destinati a ridurre l’incidenza dei costi aziendali e ad integrare i ricavi e devono essere rilevati in contabilità per competenza e non per cassa, nell’esercizio in cui sorge il diritto a percepirli (Cass., sez. 5, 23 luglio 2020, n. 15754).

Va, poi, evidenziato che la L. 27 dicembre 1997 n. 449 ha eliminato dall’art. 76 Tuir, comma 1, lett. a, la locuzione “al lordo … degli eventuali contributi” riferita alla determinazione del “costo fiscale” dei beni ammortizzabili. Pertanto, poichè nel sistema previgente si considerava il costo fiscale dei beni come quello assunto al lordo di eventuali contributi, una volta intervenuta la suddetta abrogazione, si è sancito che il “costo fiscale” dei beni ammortizzabili deve essere considerato “al netto dei contributi ad esso afferenti”.

3.5.Va premesso che sia i contributi in conto capitale che quelli in conto impianti sono “elementi positivi di reddito”. Inoltre, entrambi hanno natura di componenti del conto economico, che alla sezione A, sub n. 5, indica gli “altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio” (Cass., sez. 5, 21 marzo 2019, n. 7950). Entrambi i contributi sono apporti destinati generalmente ad integrare i ricavi e/o a ridurre i costi della gestione caratteristica dell’impresa (Cass., sez. 5, 21 marzo 2019, n. 7950).

I contributi in conto capitale sono erogati per aumentare i mezzi patrimoniali dei soggetti beneficiari, senza per ciò che la loro concessione si correli all’onere all’effettuazione di uno specifico investimento. In particolare, si è ritenuto che sono contributi in conto capitale e, quindi, “sopravvenienze attive”, che concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono incassati (criterio di cassa) oppure in quote costanti nell’esercizio in cui sono incassati ed in quelli successivi, non oltre il quarto, quelli erogati per incrementare i mezzi patrimoniali del beneficiario, senza che la loro concessione si correli all’onere di uno specifico investimento in beni strumentali; sono, invece, contributi in conto impianti, che confluiscono nel reddito sotto forma di quote di ammortamento deducibili, quelli destinati all’acquisto di beni (materiali o immateriali) strumentali – in applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito ha configurato come contributi in conto capitale le somme erogate per la ristrutturazione di un immobile già esistente, da adibire ad azienda agricola – (Cass., sez. 5, 18 novembre 2015, n. 23555; Cass. Sez. 5, 6 luglio 2016, n. 13734).

Ciò che caratterizza in contributi in conto impianti è il loro stretto collegamento con i costi. Infatti, tali contributi devono essere collegati all'”acquisto di beni ammortizzabili”, sì da rendere operativo il criterio di “competenza” e non di “cassa”. Essi concorrono a formare il reddito di impresa nello stesso modo in cui concorrono a formare il risultato economico civilistico e devono essere ripartiti in base alla vita utile del bene per il quale sono stati concessi, sotto forma di quote di ammortamento deducibili.

I contributi che non hanno tale caratteristica, invece, o perchè relativi all’acquisto di beni non ammortizzabili o per interventi su beni già ammortizzati, sono considerati contributi “in conto capitale”, e quindi costituiscono “plusvalenze”, tassabili con il criterio di cassa; ciò è conforme alla ratio economica della norma che si incentra, appunto, sullo stretto collegamento con i costi, in questo caso assente.

Il collegamento con l’acquisti di beni ammortizzabili è, dunque, il presupposto indefettibile per riconoscere ai contributi pubblici la natura di contributi “in conto impianti”.

Del resto, quella di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88 è norma di carattere agevolativo, quindi eccezionale e di stretta interpretazione, insuscettibile di estensione.

3.6.Va anche osservato che, proprio in relazione alla determinazione del costo fiscale di un bene ammortizzabile si deve fare riferimento, come detto, al costo “al netto dei contributi ad esso afferenti”.

Ciò implica una duplice modalità di contabilizzazione dei contributi in conto impianti, come previsto dall’OIC 16, paragrafo F della versione del 13 luglio.

Può, infatti, utilizzarsi il metodo “diretto” o “patrimoniale” per l’ammortamento dei beni acquistati con i contributi pubblici in conto impianti. In tal modo i beni vengono contabilizzati al netto dei contributi, sicchè il contributo partecipa alla formazione dell’utile attraverso le minori quote di ammortamento calcolate sul costo di acquisto del cespite al netto dei contributi (Cass., sez. 5, 23 luglio 2020, n. 15754, ove si richiama la Risoluzione della Agenzia delle entrate n. 2/E del 22 gennaio 2010).

Il metodo “indiretto” o “reddituale”, invece, comporta l’utilizzo dei risconti passivi, mediante imputazione graduale a conto economico pari alla stessa misura adottata per gli ammortamenti del cespite agevolato. In tal modo, il contributo, imputato a conto economico tra gli “altri ricavi e proventi” (voce A5) per l’intero ammontare riconosciuto, viene rinviato per competenza agli esercizi successivi attraverso l’iscrizione in bilancio di risconti passivi. Pertanto, i maggiori ammortamenti, calcolati sul costo lordo del cespite, vengono “compensati” dalle rispettive quote di contributo di competenza di ciascun esercizio. Con tale metodo, quindi, il contributo è imputato al conto economico nel suo intero ammontare secondo il criterio di competenza; il suo concorso alla formazione del reddito avviene non per l’intero ammontare nell’esercizio di competenza, ma in quest’ultimo e nei successivi in misura proporzionale alle quote di ammortamento fiscale del cespite, rinviando ogni anno l’eccedenza rispetto a detta misura agli esercizi successivi attraverso un “risconto passivo” (IAS 20).

In tal modo “l’imputabilità del contributo a fattori di produzione ad utilità ripetuta fa sì che la determinazione dell’obbligazione tributaria non è istantanea e coincidente con l’incasso del contributo stesso – come avviene per quelli concessi in conto capitale – ma prolungata a più periodi di imposta, in quanto collegata agli ammortamenti o, comunque, alle vicende che determinano la rilevanza fiscale del costo del cespite” (cfr. anche Risoluzione n. 2/E del 22 gennaio 2010).

La modifica di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, recata dalla L. n. 449 del 1997, è stata intesa dalla dottrina, come funzionale a facilitare l’applicazione delle regole sulla contabilizzazione dei contributi in conto impianti, escludendo così in toto l’incidenza dei contributi sul costo fiscale dei beni cui ineriscono. Pertanto, per i contributi in conto impianti non contabilizzati a diretta riduzione del costo del bene, l’obbligo di far concorrere dette componenti alla formazione del reddito d’impresa imponibile in stretta correlazione con il relativo processo di ammortamento discende direttamente dalle regole generali in tema di determinazione del reddito, quindi dai principi di “derivazione” e di “competenza”, ma non dalle regole sulla formazione del costo fiscale di cui all’art. 110.

3.7.Nella specie, i contributi pubblici erogati dallo Stato o dal Comune di Matera risultano espressamente indicati come contributi “in conto capitale” e non “in conto impianti” nella L. n. 771 del 1986, art. 7 e 8, oltre che nella convenzione tra il Comune e la Sopin (convenzione del 6 marzo 1996, registrata a Matera in data 8 marzo 1996 al n. 398, come risulta dal controricorso).

Risulta, poi che il contributo sia stato versato in favore della contribuente e non in favore dei soci assegnatari (determinazione n. S3/25 del 26 febbraio 2002, riportata in parte nel controricorso).

Inoltre, tali contributi non ineriscono all’acquisto di beni ammortizzabili. Infatti i contributi vengono erogati per la conservazione ed il recupero architettonico dei rioni Sassi di Matera, quindi sulla base di programmi biennali di attuazione che attengono al “demanio”. Tali contributi afferiscono a beni demaniali, che poi il Comune affida in sub-concessione alle cooperative edilizie, con specifiche modalità di utilizzo indicate in apposite convenzioni.

I privati, in base alla convenzione o sulla scorta di un atto unilaterale d’obbligo, devono impegnarsi a rispettare le prescrizioni relative alle caratteristiche d’intervento (L. n. 771 del 1986, art. 7, comma 5, lett. a), ad abitare o ad utilizzare gli immobili interessati per un periodo non inferiore a dieci anni, a partire dalla data di ultimazione dei lavori, ad assicurare la manutenzione degli immobili. Se gli interventi sono realizzati dai sub-concessionari, con la stipulazione di una convenzione si prevedono le prescrizioni relative alle caratteristiche dell’intervento, l’impegno ad abitare direttamente gli immobili per un periodo non inferiore a dieci anni a partire dalla data di ultimazione dell’intervento, il canone di locazione da corrispondere al comune, l’impegno ad assicurare la manutenzione degli immobili. In particolare, il pagamento del canone al comune manifesta plasticamente la divergenza rispetto all’acquisto effettivo di beni ammortizzabili.

Proprio l’assenza di un acquisto di beni (mobili o immobili) non rende possibile il collegamento tra i contributi pubblici ed i beni ammortizzabili, che è invece necessario per procedere all’ammortamento dei beni secondo la duplice modalità prima indicata.

Si è, peraltro, in presenza di una norma di agevolazione, che ha natura eccezionale e non può essere oggetto di estensione a casi non previsti dalla legge.

Come detto, la cooperativa, secondo la ricostruzione del giudice di appello, che risulta congrua e persuasiva, non è a mutualità prevalente, svolgendo invece in prevalenza attività commerciale di ristorazione, con impossibilità di avvalersi delle norme di agevolazione ai sensi dell’art. 223-duodecies disp. att. c.c..

La somma relativa ai contributi in conto impianti erogata doveva, allora, essere inserita nel conto economico dell’anno 2002 ed assoggettata a tassazione.

4.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, in base al principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessi Euro 6.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 1, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2020

 

 

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