Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2654 del 04/02/2010
Cassazione civile sez. II, 04/02/2010, (ud. 15/12/2009, dep. 04/02/2010), n.2654
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –
Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –
Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –
Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.P.E. C.F. (OMISSIS), elettivamente
domiciliato in ROMA, CIRVONVALLAZIONE CLODIA 29, presso lo studio
dell’avvocato RINALDI FERRI LUIGI, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato GIANNIOTTI ISABELLA;
– ricorrente –
contro
REGIONE VENETO C.F. (OMISSIS) in persona del Presidente pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,
presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
M.S.I., C.f. (OMISSIS);
– intimata –
avverso la sentenza n. 733/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,
depositata il 10/05/2004;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del
15/12/2009 dal Consigliere Dott. CORRENTI Vincenzo;
udito l’Avvocato LUIGI RINALDI FERRI difensore del ricorrente che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento dei primi
due motivi ed assorbito il terzo motivo del ricorso.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 12.6.1990 D.P.E. esponeva di essere proprietaria di un immobile in (OMISSIS) confinante con altro della Regione Veneta il cui piano terra era locato a M.I., dove esistevano due aperture lucifere, a circa 65 cm dal sottostante cortile di sua proprieta’, munite di rete ed inferriata, che impedivano la “inspectio” e la “prospectio”.
Nel marzo 1986 la locataria aveva rimosso la rete; invitata dopo uno scambio di corrispondenza con la regione Veneto a ripristinare lo status quo ante, aveva sostituito la rete metallica con altra di plastica tipo zanzariera e nel 1989 aveva rimosso nuovamente la rete.
Conveniva la Regione per la regolarizzazione. Quest’ultima chiedeva il rigetto e la chiamata in causa della M. che resisteva, asserendo trattarsi di vedute. Il Tribunale, con sentenza 19.4.2000, rigettava la domanda.
Proponeva appello la D.P., si costituiva la Regione e la Corte di appello di Venezia, con sentenza 733/04 rigettava il gravame, osservando che il possesso di luci irregolari non puo’ condurre all’acquisto per usucapione e che non si ravvisava interesse a chiedere la regolarizzazione delle aperture.
Ricorre la D.P. con tre motivi, resiste la Regione.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo si denunzia violazione dell’art. 901 c.p.c., art. 902 c.c., comma 2 e art. 100 c.p.c. perche’ la Corte di appello, dopo aver qualificato le aperture come luci e non vedute, ha erroneamente escluso l’interesse a promuovere l’azione.
L’art. 901 c.c. indica le caratteristiche delle luci e l’art. 902 c.c. stabilisce che il vicino ha sempre il diritto di esigere la conformita’ alle relative prescrizioni.
Col secondo motivo si lamentano violazioni di norme di diritto e vizi di motivazione per avere la sentenza affermato che l’appellante aveva omesso di dimostrare il danno e per non aver dedotto la violazione dell’art. 901 c.c. in mancanza di grata fissa in metallo.
Col terzo motivo si lamentano vizi di motivazione per non aver rilevato la sentenza (pagine 8 e 9 ctu) che la rete era inserita in un telaio mobile in legno, facilmente rimovibile. Le censure meritano accoglimento.
La sentenza impugnata, pur richiamando la ctu che aveva concluso nel senso che le aperture dovevano considerarsi luci da regolarizzare o chiudere in virtu’ dell’art. 902 c.c., e pur avendo dedotto essere pacifico che detta norma dispone che il vicino ha sempre diritto di esigere che l’apertura non avente carattere di veduta sia resa conforme alle prescrizioni dell’articolo precedente, ha aggiunto che le luci erano munite di inferriate e poste ad una altezza di cm 65 dal suolo, escludendo l’interesse ad agire per non avere la D. P. specificato il danno ricevuto. Ma, la prova del danno e’ richiesta solo ai fini della liquidazione. Si e’, infatti, ritenuto che il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. espressione del piu’ generale potere di cui all’art. 115 del codice del rito, dia luogo non ad un giudizio d’equita’ ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equita’ giudiziale correttiva od integrativa, ond’e’ che non solo e’ subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali, ma non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, anzi, al contrario, presuppone gia’ assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo, l’onere su di essa incombente ex art. 2697 c.c. di dimostrare sia la sussistenza sia l’entita’ materiale del danno, cosi’ come non la esonera dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficolta’, al fine di consentire che l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso.
Inoltre, poiche’ il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione d’un diritto soggettivo non e’ riconosciuto dall’ordinamento con caratteristiche e finalita’ punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso ed, al contempo, lo stesso ordinamento non consente l’arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro (nemo locupletari potest cum aliena iactura), anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilita’ della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e, tanto meno, alla sua entita’ materiale; l’affermazione del danno in re ipsa si riferisce, dunque, esclusivamente all’an debeatur, che presuppone soltanto l’accertamento d’un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilita’ o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit, onde permane la necessita’ della prova d’un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non e’ precluso al giudice il negare la risarcibilita’ stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entita’ non risultino provate. (Cass. 26.2.03 n. 2874, 18.11.02 n. 16202, 7.3.02 n. 3327, 18.2.95 n. 1799).
Nella specie, tuttavia, escludendo la regolarizzazione in mancanza della prova del danno, si e’ dato luogo ad una abrogazione sostanziale della norma pur richiamata, donde la cassazione della sentenza con rinvio per un nuovo esame da parte di altra sezione della Corte di appello di Venezia che provvedera’ anche sulle spese.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame e per le spese ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010