Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26524 del 21/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 21/12/2016, (ud. 01/12/2016, dep.21/12/2016),  n. 26524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15851-2010 proposto da:

PES SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA C.SO VITTORIO EMANUELE II 187,

presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA LICATA, rappresentato e

difeso dall’avvocato CLAUDIO DI TONNO giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso lo studio

dell’avvocato ANGELA RAIMONDO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FIAMMETTA LORENZETTI giusta delega a

margine;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI ROMA DIPARTIMENTO 8^ì SERVIZIO AFFISSIONI PUBBLICITA’;

– intimato –

avverso la sentenza n. 221/2009 della COMM.TRIB.REG. di ROMA,

depositata il 01/12/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. LUCA SOLAINI;

udito per il controricorrente l’Avvocato RAIMONDO che si riporta agli

atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La controversia concerne l’impugnazione di 46 avvisi di accertamento per il recupero coattivo d’imposta di pubblicità per l’anno 2000, con i quali il Comune recuperava a tassazione l’imposta (con sanzioni e interessi) per affissione diretta di manifesti e simili su apposite strutture site in varie vie di Roma, apposte in modo abusivo. Il contribuente, in primo luogo, ha contestato la regolarità formale degli avvisi, in quanto privi a suo dire di motivazione, mentre nel merito, attraverso l’allegazione di documentazione rilasciata dal Comune, ha cercato di evidenziare che nella vicenda oggetto di controversia non esisteva alcuna abusività, in quanto gli impianti erano tutti assistiti da concessione, essendo inseriti nella procedura di riordino di cui alla Delib. Comune n. 245 del 1995.

La CTP rigettava il ricorso della contribuente, e la CTR confermava la sentenza di primo grado per genericità della domanda.

Avverso quest’ultima pronuncia, la società ha proposto ricorso davanti a questa Corte di Cassazione sulla base di tre motivi, mentre il Comune ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente di data 14.9.2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, in particolare, della L. n. 212 del 2000, art. 7 nonchè omessa e insufficiente motivazione sul medesimo profilo, in quanto, benchè gli atti impositivi impugnati fossero stati emanati dopo l’entrata in vigore dello Statuto del contribuente (L. n. 212 del 2000), tuttavia non contenevano alcuna indicazione circa i motivi dell’accertamento, profilandosi, pertanto, anche la violazione dell’art. 24 Cost.

Il motivo è inammissibile sotto diversi profili.

La censura è, in primo luogo, inammissibile per difetto di specificità, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto è rivolta nei confronti dell’avviso d’accertamento e non nei confronti della sentenza impugnata, della quale non aggredisce l’effettiva ratio decidendi, relativa all’affermazione che gli avvisi opposti non facessero alcun riferimento al carattere abusivo degli impianti pubblicitari e alla circostanza, secondo la CTR, che la società appellante avesse inserito in un’unica indifferenziata doglianza varie tipologie d’accertamento, senza consentire una puntuale e concreta disamina degli effettivi motivi d’appello. E’, infatti, insegnamento di questa Corte, quello secondo cui “Il ricorso per cassazione che contenga mere enunciazioni di violazioni di legge o di vizi di motivazione, senza consentire, nemmeno attraverso una sua lettura globale, di individuare il collegamento di tali enunciazioni con la sentenza impugnata e le argomentazioni che la sostengono, nè quindi di cogliere le ragioni per le quali se ne chieda l’annullamento, non soddisfa i requisiti di contenuto fissati dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, e, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile” (Cass. ord. n. 187/14, 17125/07, ord. n. 19959/14, 25332/14). Il motivo di censura, pertanto, non ha un’efficacia causale determinante, tale che se accolto, sovvertirebbe l’esito della decisione.

In ogni caso, il ricorrente propone, in maniera inammissibile, v. Cass. n. 21165/13, censure aventi ad oggetto sia violazioni di legge che vizi di motivazione, con pregiudizio della regola della chiarezza proprio di un mezzo di impugnazione “a critica vincolata”, nel senso che ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa, ovvero l’enucleazione delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, ovvero l’indicazione della regula iuris asseritamente violata, mentre nella presente vicenda si affida all’esame della Corte di Cassazione un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, i quali debbono invece, presentare una autonoma e distinta collocazione (Cass. ord. n. 9470/2008, ord. n. 19959/14).

Il superiore motivo di ricorso difetta, altresì, di autosufficienza, in quanto non vengono riportati in ricorso, nè indicata la collocazione topografica, nell’ambito della documentazione afferente ai giudizi di merito, degli avvisi d’accertamento impugnati, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; è, infatti, insegnamento di questa Corte che “”Il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (Cass. n. 26174/14, sez. un. 28547/08, sez. un. 23019/07, sez. un. ord. n. 7161/10). Nella presente vicenda, pertanto, il ricorrente non ha messo in condizione questa Corte di esaminare la censura sollevata.

Con il secondo motivo di censura, la società ricorrente denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12 in quanto, il Comune di Roma non avrebbe considerato validi i pagamenti effettuati dal ricorrente, nonostante gli impianti pubblicitari fossero inseriti in una “procedura di riordino” delle affissioni pubblicitarie, secondo la quale, gli impianti pubblicitari utilizzati dovevano considerarsi temporaneamente regolari con la conseguente sospensione delle sanzioni tributarie previste dal regolamento comunale; inoltre, ai fini del pagamento dell’imposta la società ricorrente ha dedotto che il presupposto del tributo risiederebbe nella diffusione del messaggio pubblicitario (e non nella mera disponibilità del mezzo di diffusione), pertanto, nella specie, la temporanea regolarità degli impianti avrebbe dovuto implicare che i pagamenti eseguiti per periodi espositivi – cioè, di concreta utilizzazione dell’impianto “fisso” -inferiori ai tre mesi, dovevano considerarsi corretti.

Il motivo è, in via preliminare, inammissibile, per difetto di specificità, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto non ha alcuna attinenza con i motivi della sentenza impugnata (ma è rivolto a lamentarsi dell’attività illegittima dell’ente locale in subiecta materia), della quale non aggredisce l’effettiva ratio decidendi, relativa all’affermazione che gli avvisi opposti non facessero alcun riferimento al carattere abusivo degli impianti pubblicitari e alla circostanza, secondo la CTR, che la società appellante avesse inserito in un’unica indifferenziata doglianza varie tipologie d’accertamento, senza consentire una puntuale e concreta disamina degli effettivi motivi d’appello, e ciò sulla base degli orientamenti di questa Corte, più sopra, già analiticamente indicati. Il motivo di censura, pertanto, non ha un’efficacia causale determinante, tale che se accolto, sovvertirebbe l’esito della decisione.

Nel merito, il motivo sarebbe, comunque, infondato, infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, “In tema di imposta comunale sulla pubblicità e con riferimento al caso di pubblicità per affissione diretta effettuata da società su impianti di proprietà e per conto terzi, la modifica al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 12, comma 3, disposta dalla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 145, comma 56, che ha introdotto, a far data dall’1 gennaio 2001, la possibilità di determinare l’imposta anche nella misura e con le modalità di cui al citato art. 12, comma 2 ha portata innovativa e, quindi, è priva di efficacia retroattiva (così come la delibera n. 42 in data 27 gennaio 2001, con cui il consiglio comunale di Roma ha dato attuazione – ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 3 – alla suddetta disposizione innovativa), per cui, in relazione alle fattispecie impositive di data anteriore, non è consentito tener conto delle singole esposizioni nel corso dell’anno solare, al fine di applicare la tariffa commisurata alla durata non superiore a tre mesi del messaggio pubblicitario, ma deve applicarsi il precedente sistema di calcolo del tributo, riferito all’anno solare” (Cass. n. 9635/12). Pertanto, nella specie, per la tipologia pubblicitaria che ci occupa (affissioni dirette di manifesti e simili adibite alla esposizione di tali mezzi, su apposite strutture), non è prevista la riduzione dell’imposta correlata all’effettivo utilizzo dello strumento pubblicitario (nella disciplina vigente ratione temporis) e ciò, in quanto la disciplina aveva inteso stabilire una durata prestabilita connaturale al tipo di impianti in esame, indipendentemente dal loro sfruttamento, per garantire un gettito certo e preventivabile per le casse comunali, slegate dalle scelte di concreto utilizzo del mezzo pubblicitario, da parte di ogni singolo operatore economico; infine, nella presente vicenda, non risulta che sia stata presentata la dichiarazione di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 12 e il rilascio della correlata concessione e/o autorizzazione amministrativa, pertanto, in virtù del D.Lgs. n. 507 cit., art. 8, comma 4 si presume che tale dichiarazione sia stata effettuata con decorrenza dal 1^ gennaio in cui l’infrazione è stata accertata.

Con il terzo motivo di censura, la società ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 7 nonchè errata ed omessa motivazione su un punto decisivo, in quanto, i giudici d’appello non si sarebbero pronunciati sull’errore di calcolo del comune, nella determinazione della superficie espositiva, con particolare riferimento al fatto che anche le cornici degli impianti erano state tassate.

Il motivo è inammissibile, per erronea sussunzione del vizio denunciato (Cass. n. 21165/13), in quanto viene dedotto come violazione di legge ovvero come vizio di motivazione l’omessa pronuncia su alcuni motivi d’appello, che integrando una violazione dell’art. 112 c.p.c., deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 22759/14).

Al rigetto del ricorso consegue la soccombenza per le spese di lite.

PQM

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Rigetta il ricorso.

Condanna la parte contribuente a pagare al Comune di Roma, in persona del Sindaco in carica, le spese di lite del presente giudizio, che liquida nell’importo di Euro 7.000,00, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

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