Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26524 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. I, 17/10/2019, (ud. 27/09/2019, dep. 17/10/2019), n.26524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24079/2014 proposto da:

B.P.M.A., B.P.P.,

B.P.F., BR.MA.TE., B.P.R. e

B.P.A., elettivamente domiciliati in Roma, Viale Giulio Cesare n.

14, presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi, che li

rappresenta e difende unitamente agli Avvocati Luigi Cocchi e Silvio

Quaglia, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BUSALLA, in persona del Sindaco p.t., elettivamente

domiciliato in Roma, Viale Liegi 42, presso lo studio dell’avvocato

Prof. Molè Marcello, che lo rappresenta e difende, unitamente

all’avvocato Prof. Luigi Piscitelli, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 966/2013 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 24/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/09/2019 dal cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 966/2013, depositata in data 2/7/2013, – in controversia concernente l’opposizione proposta da P.M.R. nei confronti del Comune di Busalla al fine della corretta determinazione dell’indennità di espropriazione dovutale in relazione ai mappali “(OMISSIS) facenti parte del compendio immobiliare denominato Villa Macciò di cui la stessa era proprietaria per un terzo”, terreni occupati dal Comune, nel 1988, per la realizzazione di un nuovo tratto di strada pubblica a servizio dell’ospedale, e poi espropriati, con decreto del giugno 1989, – in sede di rinvio a seguito di cassazione di pregressa decisione della Corte d’appello, del 1996, cassata con sentenza delle Sezioni Unite n. 173/2001 (pronunciatasi sulla questione, oggetto di contrasto giurisprudenziale, concernente la disciplina urbanistica di riferimento, per la qualificazione edificatoria o meno del suolo, sollevata con il primo motivo del ricorso, questione risolta dalle Sezioni Unite nel senso che le prescrizioni e i vincoli stabiliti dagli strumenti urbanistici di secondo livello, di regola aventi contenuto conformativo, possono in via eccezionale avere anche portata e contenuto direttamente ablatori, così da non incidere sulla liquidazione dell’indennità) e della I sezione civile n. 15469/2001, su riassunzione del giudizio ad opera degli eredi della P., nelle more del giudizio deceduta, ha determinato, all’esito di nuova consulenza tecnica, l’indennità di espropriazione dovuta dal Comune in Euro 13.066,36, ordinando all’Ente il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti della differenza di Euro 12.928,47 (Euro 13.066,36, pari ad un terzo di Euro 39.199,08, detratti Euro 137, già versati dall’amministrazione comunale), con interessi legali dal 7/6/1989 alla data del deposito, oltre l’indennità di occupazione (dal 9/11/1985 al 7/6/1989, data dell’esproprio) nella misura degli interessi legali maturati nel periodo sull’indennità di espropriazione, come sopra determinata.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto, quanto alla edificabilità o meno dell’area espropriata (il cui mappale (OMISSIS) era stato ritenuto, nel 1996, di natura agricola), che la prescrizione di variante al PRG del 1984 (in base alla quale il mappale espropriato (OMISSIS), di maggiore estensione, era stato inserito in zona ospedaliere, inedificabile) aveva, alla luce del principio di diritto dettato dalle Sezioni Unite nella pronuncia del 2001, natura lenticolare o espropriativa, essendo stata l’area stessa, già classificata residenziale, inglobata alla zona servizi destinata all’opera pubblica costituita dall’ospedale, cosicchè doveva attribuirsi al fondo espropriato, sulla base delle previsioni originarie del PDF, natura edificabile; quanto al valore edificabile, doveva confermarsi l’indice di 0,30 a mq, già ritenuto operante (con riguardo, però, al solo mappale (OMISSIS), il solo ritenuto di natura edificabile) nella prima sentenza del 1996 (cassata per insufficiente motivazione, stante l’apodittico recepimento delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio), non condividendosi le conclusioni espresse dal consulente nel nuovo elaborato peritale, in quanto “il maggior indice di 0,50 era ricollegato all’approvazione dello strumento attuativo e non risulta che l’area – di limitate dimensioni e particolare forma e adiacente alla strada, con relativi vincoli conseguenti alla fascia di rispetto avesse le caratteristiche richieste dal piano per rientrare nella SUA”, strumento urbanistico attuativo, nulla essendo stato allegato in proposito dall’attrice. Quanto alla diminuzione di valore della parte non espropriata del compendio immobiliare (parco di una villa ottocentesca), in astratto ipotizzabile, si doveva dissentire dalle conclusioni del consulente tecnico, acriticamente adeguatosi alle indicazioni del consulente di parte attrice, non sussistendo nè il danno da perdita della strada privata di accesso alla villa, ormai raggiungibile più comodamente dalla strada pubblica realizzata, nè il danno da perdita di parcheggi, nè il danno da perdita di pregio architettonico del complesso per l’accesso da via pubblica anzichè privata, mentre risultavano estranei alla causa i profili relativi al danno da perdita di edificabilità per la parte non espropriata del parco (discendendo dalla adozione della variante, che per questa parte non può essere considerata avente finalità espropriativa, mancando il collegamento con la realizzazione della strada, costituente l’opera pubblica) ed al danno da aggravamento dei movimenti franosi, preesistenti, che avevano interessato la collina (suscettibili di risarcimento del danno da fatto illecito, azionabile separatamente). La domanda di risarcimento del maggior danno ex art. 1224 c.c., formulata nel corso del primo grado di giudizio e respinta nella prima decisione della Corte d’appello (per genericità), era inammissibile perchè coperta da giudicato, in difetto di ricorso per cassazione sul punto.

Avverso la suddetta pronuncia, B.P.M.A., B.P.P., B.P.F., Br.Ma.Te., B.P.R., B.P.A., in qualità di eredi di P.M.R. in Br., propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, nei confronti del Comune di Busalla (che resiste con controricorso). Il P.G. ha depositato conclusioni scritte. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I ricorrenti lamentano: 1) con il primo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 2359 del 1865, artt. 39 e 40 in combinato disposto con l’art. 10 – Zone C – zone di espansione del PDF di Busalla (contemplante la previsione, previa approvazione di S.U.A., di un maggior indice di 0,5 mc/mq), nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’indice di fabbricabilità ritenuto dalla Corte d’appello operante (0,30 al mq anzichè 0,50 al mq), a fronte della richiesta attrice di dare rilievo alla massima potenzialità edificatoria dell’area ai fini dell’individuazione del valore venale dell’immobile espropriato, essendo stato l’intero compendio immobiliare, in comproprietà della dante causa dei ricorrenti, ricompreso nel PDF di Busalla nell’ambito di zona di espansione residenziale C3, cosicchè tutte le aree avevano le caratteristiche per rientrare nello strumento urbanistico attuativo ed alcun onere della prova specifico gravava sull’attrice, dovendosi inoltre, quanto al requisito richiesto, per l’approvazione del SUA, della superficie minima di mq 10.000, tener conto dell’intera superficie di proprietà dell’attrice, di mq 13.380, solo in parte espropriata, per 2.530 mq, superficie che era pertanto ampiamente superiore a quella minima richiesta dal PDF per l’approvazione del S.U.A. e dell’indice di 0,50; 2) con il secondo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 2359 del 1865, artt. 40 e 46, art. 112 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione al mancato riconoscimento del danno da perdita di valore dei beni rimasti in proprietà privata determinata dall’espropriazione parziale; 3) con il terzo motivo, si invoca la caducazione ex art. 336 c.p.c., delle statuizioni correlate alla determinazione degli interessi relativi all’indennità di esproprio, dell’indennità di occupazione temporanea nonchè degli interessi su quest’ultima; 4) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 112, 324, 336 e 394 c.p.c., in relazione alla statuizione di inammissibilità della domanda di risarcimento del maggior danno ex art. 1224 c.c.; 5) con il quinto motivo, si invoca ancora la caducazione ex art. 336 c.p.c., delle statuizioni in punto di quantificazione delle spese processuali a carico del soccombente Comune, di importo modesto in relazione al ridotto ammontare delle indennità riconosciute agli attori in riassunzione.

2. La prima censura è inammissibile per difetto di specificità.

Invero, pacifico che l’art. 10 del programma di fabbricazione del Comune subordinava la possibilità di approvazione dello strumento urbanistico attuativo, con il maggior indice dello 0,50, ad una estensione minima di 10.000 mq, i ricorrenti avrebbero dovuto allegare che, nel merito, era stato dimostrato che la zona C3 nella quale, al momento dell’esproprio, ricadeva l’area espropriata (di soli 2.530 mq), avesse una tale estensione, vale a dire che la loro dante causa fosse proprietaria d almeno 10.000 mq ricadenti tutti in zona C3; i ricorrenti si sono invece limitati a confutare la statuizione di merito (in punto di carenza dei requisiti per l’approvazione del SUA, per difetto della superficie minima richiesta dal PDF, avuto riguardo ai soli mappati espropriati), deducendo che l’area di proprietà della de cuius aveva una superficie di oltre 13.000 mq.

3. Il secondo motivo è inammissibile.

La Corte di merito ha ritenuto anzitutto ammissibile la domanda di determinazione dell’indennità anche con considerazione del decremento di valore della parte non espropriata del compendio (ancorchè non esaminata dalla prima sentenza cassata), interpretando la domanda attorea nel senso della necessità di una pronuncia unitaria, pur se il proprietario abbia chiesto, per la parte espropriata e per quella residua, il pagamento di somme distinte a titolo indennitario. Questa Corte (Cass. 15696/2018; Cass. 11504/2014) ha chiarito che “il deprezzamento subito dalle parti residue del bene espropriato rientra nell’unica indennità di espropriazione, che, per definizione, riguarda l’intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione rimanente derivata dalla parziale ablazione del fondo, sia essa agricola o edificabile, non essendo concepibili, in presenza di un’unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l’una a titolo di indennità di espropriazione e l’altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni”, cosicchè “la domanda del proprietario che lamenti il deprezzamento delle porzioni residue del fondo espropriato va interpretata dalla corte di appello, competente in unico grado ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 19 come diretta al pagamento di un’unica indennità, da determinare tenendo conto della diminuzione di valore della parte non espropriata, a norma della L. n. 2359 del 1865, art. 40 ancorchè il proprietario chieda, per la parte espropriata e per quella residua, il pagamento di somme distinte a titolo indennitario”.

La Corte di merito ha, tuttavia, poi, con ampia ed esaustiva motivazione, ritenuto di dissentire dalle conclusioni del consulente tecnico nel supplemento peritale, dovendo escludersi, nel concreto, la sussistenza di pregiudizi che determinassero una diminuzione patrimoniale causalmente ricollegabile all’esproprio e rilevante ai fini dell’indennità richiesta.

Con la censura, i ricorrenti, prospettando violazione o falsa applicazione di norme di diritto, vogliono sostanzialmente capovolgere le valutazioni di merito espresse dalla Corte.

4. Il terzo motivo (che si risolve nell’invocazione dell’effetto espansivo interno della cassazione, ex art. 336 c.p.c., conseguente all’auspicato accoglimento dei primi due motivi di ricorso) è, di conseguenza, assorbito.

5. Il quarto motivo è infondato.

La Corte di merito ha ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento del maggior danno, per effetto della preclusione derivante dal giudicato sul punto, essendo stata la domanda risarcitoria (accolta, sia pure in misura ridotta rispetto alla richiesta attorea, quella di liquidazione dell’indennità di espropriazione e di occupazione) respinta nella decisione del 1996 (perchè del tutto generica quanto al suo fondamento) e non avendo i ricorrenti proposto ricorso per cassazione al riguardo.

I ricorrenti deducono che la cassazione della sentenza del 1996 avrebbe comunque comportato la necessità di procedere ad una nuova quantificazione delle somme dovute a titolo di capitale ed anche di quelle dovute a titolo di accessori, essendo anche tale parte della sentenza caducata, ex art. 336 c.p.c..

Come si evince dalla sentenza di questa Corte n. 15469/2001, che ha dato luogo al giudizio di rinvio, il ricorso per cassazione era stato accolto (oltre che sul primo motivo, deciso dalle Sezioni Unite) sul secondo e sul terzo motivo, mentre i restanti motivi (“relativi, rispettivamente, al ricalcolo (in relazione all’accoglimento del due primi motivi del ricorso) dell’indennità di occupazione in base al tasso di interesse sul valore venale, e alla riliquidazione delle spese giudiziarie”) erano stati ritenuti assorbiti. Ora il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., secondo cui la riforma o la cassazione parziale della sentenza ha effetto anche sui capi della stessa dipendenti dalla parte riformata o cassata, trova applicazione rispetto ai capi non impugnati autonomamente, ma necessariamente collegati ad altro che sia stato impugnato, ma la pronuncia sulla domanda di risarcimento del maggior danno, ex art. 1224 c.c., essendo l’obbligazione indennitaria un debito di valuta (Cass. 25662/2006; Cass. 3794/2015), non può ritenersi meramente dipendente dai capi della sentenza cassati, ai fini degli effetti di cui all’art. 336 c.p.c., costituendo un capo autonomo in quanto fondata su un titolo diverso da quello della domanda principale (cfr. Cass. 24858/2005: ” In tema di inadempimento di obbligazioni pecuniarie, la svalutazione monetarla verificatasi durante la mora del debitore non giustifica di per sè il risarcimento automatico, sicchè, a prescindere dagli oneri probatori posti a carico della parte istante, il maggior danno rispetto a quello coperto dalla misura degli interessi legali non può essere riconosciuto dal giudice in difetto di una specifica domanda; pertanto,tale richiesta non solo non può essere formulata per la prima volta in grado di appello, stante il divieto di cui all’art. 345 c.p.c., ma, non può neanche essere proposta nel giudizio di rinvio al fine di ottenere un danno di maggiore entità o per una maggiore estensione temporale rispetto a quello riconosciuto dalla sentenza annullata; d’altra parte, l’autonomia della domanda comporta che la statuizione attributiva del maggior danno,se non specificamente impugnata, è suscettibile di passaggio in giudicato sia sull”an” che sul “quantum debeatur”).

6. Anche il quinto motivo, al pari del terzo, (risolvendosi sempre nell’invocazione dell’effetto espansivo interno della cassazione, ex art. 336 c.p.c., conseguente all’auspicato accoglimento dei primi due motivi di ricorso), risulta assorbito.

7. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 7.000,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori di legge e rimborso forfetario spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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