Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26516 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. III, 20/11/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 20/11/2020), n.26516

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28936-2018 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 30,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GIZZI, rappresentata e

difesa dall’avvocato CARLO ZAULI;

– ricorrente –

contro

MO.NI., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

137, presso lo studio dell’avvocato EDY GUERRINI, che lo rappresenta

e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

M.M., elettivamente domiciliata in. ROMA, VIA OSLAVIA 30,

presso lo studio dell’avvocato CARLO ZAULI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 2215/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 30/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/07/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.M. ricorre, sulla base di nove motivi, per la cassazione della sentenza n. 2215/18, del 30 agosto 2018, della Corte di Appello di Bologna, che – respingendo il gravame principale dalla stessa esperito avverso la sentenza n. 232/09, del 10 ottobre 2009, del Tribunale di Ravenna, sezione distaccata di Faenza, nonchè quello incidentale, in punto spese di lite, proposto da Mo.Ni. – ha confermato il rigetto della domanda di accertamento della responsabilità professionale del predetto Avv. Mo., quanto alla mancata instaurazione di un giudizio civile, in relazione al quale il medesimo aveva ricevuto l’incarico di procedere dall’odierna ricorrente.

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di essersi resa, nel 1998, cessionaria – da tale Ma.Vi. – di un’azienda avente ad oggetto attività di estetista e di commercio al minuto di profumeria, bigiotteria e cosmesi, contratto di cessione aziendale, questo, al quale risultava collegato altro di locazione commerciale. Tuttavia, poco tempo dopo la conclusione dell’operazione negoziale, l’estetista D.A. con la quale la cedente Ma., secondo la prospettazione dell’odierna ricorrente, avrebbe intrattenuto una società di fatto – abbandonava il centro estetico, avviando le pratiche per l’apertura di identica attività in zona limitrofa, così “contravvenendo ai più basilari doveri di buona fede e correttezza”. Inoltre, la medesima M. constatava, pressochè nel contempo, di aver subito un grave danno, per essere divenuta proprietaria, con il trasferimento del complesso aziendale, “di prodotti scaduti e/o non commerciabili e comunque non conformi alla normativa dettata in tema di salute pubblica”.

Interpellato, pertanto, l’Avv. Mo. circa la possibilità di intraprendere iniziative giudiziali nei confronti della Ma. e della D., il predetto legale avrebbe omesso di informarla circa la possibilità di agire contro di esse, incassando, però, la somma di Euro 6.549,00 a titolo di acconto per la causa instauranda (sempre secondo la prospettazione dell’odierna ricorrente), senza tuttavia procedere ad incardinare alcun giudizio.

Su tali basi, quindi, la M. convenne in giudizio il legale, per farne valere la responsabilità professionale in relazione alle omissioni appena descritte, chiedendone la condanna, non solo al risarcimento dei danni, ma anche alla restituzione delle somme ricevute quale acconto del proprio compenso.

Respinta integralmente dall’adito Tribunale la domanda, sul rilievo che – pur provato l’inadempimento del legale – difettasse la prova “di, un danno derivante dalla difettosa prestazione professionale”, anche in ragione del fatto che l’Avv. Mo. era intervenuto “dopo che ormai erano decorsi gli otto giorni dalla scoperta del vizio” della merce (e, comunque, in presenza di una dichiarazione scritta della M. che rinunciava a far valere la garanzia per vizi), il gravame principale dalla stessa esperito veniva rigettato. Esito al quale il giudice di appello perveniva, quantunque avesse rilevato il formarsi di un giudicato – in difetto di impugnazione incidentale sul punto, da parte del Mo. (avendo egli contestato soltanto la disposta compensazione delle spese di lite) – in relazione alla circostanza che la M. avesse “effettivamente conferito mandato professionale non adempiuto”. Anche il giudice di appello, tuttavia, riteneva difettare la prova che, una volta instaurato dal legale il giudizio contro la Ma. e la D., l’odierna ricorrente avrebbe avuto “la possibilità di una concreta ed effettiva occasione di conseguire l’auspicato bene della vita”.

3. Avverso la sentenza della Corte felsinea ricorre per cassazione la M., sulla base – come detto – di nove motivi.

3.1. Con il primo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “vulnerazione” degli artt. 132,183 e 184 c.p.c., nonchè dell’art. 2724 c.c., comma 1, n. 2).

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la prova del danno derivante dall’inadempimento del legale, con specifico riferimento alla mancata proposizione dell’azione risarcitoria, contro la cedente l’azienda, per vizi della merce trasferita, avendo il giudice di appello dato rilievo ad una produzione documentale – ovvero lo scritto con cui la M. manlevava la Ma. da qualsiasi responsabilità sulle merci in magazzino – che sarebbe da ritenere “ultratardiva”, giacchè avvenuta in violazione dell’art. 184 c.p.c., nel testo applicabile nel regime processuale di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353.

3.2. Con il secondo motivo è denunciata – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione di legge, per non avere la Corte territoriale “ritenuto inesaminabile una deposizione de relato”.

In questo caso, si contesta la sentenza impugnata per aver dato rilievo ad una prova testimoniale, che si assume essere “de relato actoris”, dal momento che la conoscenza, in capo all’avvocato Mo., dell’esistenza del già indicato documento di manleva, sarebbe stata tratta dalla deposizione di un teste che ha riferito di aver appreso tale circostanza dalla convenuta.

3.3. Con il terzo motivo è denunciata – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), errore nella qualificazione del documento, ex art. 1362 c.c., relativo ai rapporti tra M.M. e Ma.Vi..

Si assume che, dal contenuto letterale del documento in questione, si desumeva che la volontà dell’odierna ricorrente fosse solo quella di escludere controversie riguardanti “il valore del magazzino”, non di manlevare la cedente da responsabilità per vizi della merce.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia – nuovamentè ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “vulnerazione” degli artt. 132 e 112 c.p.c., nonchè degli artt. 2555,2558 e 2247 c.c., oltre che della L. Fall., art. 147.

Assume la ricorrente che la Corte felsinea avrebbe affermato che, nel caso di specie, “non solo vi era società, ma era applicabile certamente l’art. 2558” c.c., sicchè, essendo tale fatto “non contestato ed ormai cristallizzato nella sentenza di merito”, una corretta applicazione del principio di diritto avrebbe dovuto condurre ad un “risultato opposto a quello al quale si perviene in sentenza”. Ed invero, il solo fatto, per la M. e la D., “di esercitare in comune un’attività economica unica, concettualmente riconducibile alla stessa categoria, costituita dalla cura del corpo, costituisce un chiaro indizio della comune sopportazione del rischio di impresa e della condivisione dell’attrezzatura, dei clienti, dell’attività lavorativa”, ovvero, “in una parola, dell’organizzazione imprenditoriale”. Ricorrendo, pertanto, una società di fatto già tra la Ma. e la D., e potendo il cessionario d’azienda agire “contro entrambi i soci di fatto, sia quello occulto che quello, formalmente, titolare dell’impresa individuale ex 2557 c.c.”, se ne deduce che, in un’eventuale controversia giudiziaria colpevolmente non avviata dall’Avv. Mo. – il legale “avrebbe potuto estendere il contraddittorio” verso la D., “per violazione dell’obbligo di non agire in concorrenza”.

3.5. Con il quinto motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione di legge, “in particolare dell’art. 132 c.p.c.”, in relazione agli artt. 1176 e 1453 c.c.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui esclude secondo la ricorrente – “il ricorso a criteri di probabilità giuridica nell’applicazione del nesso causale all’ipotesi della responsabilità dell’avvocato”, e ciò “sulla base dell’esclusione di probabilità, nel caso concreto, di poter ragionevolmente attendere un risultato positivo” dalla causa da instaurarsi. Il vizio, secondo la ricorrente, sarebbe ancor più palese, visto il rilievo che si è attribuito alla testimonianza “de relato actoris”, e considerato che la sentenza “riconosce come effettivamente avvenuto il conferimento del mandato e l’inadempimento da parte dello stesso avvocato”.

3.6. Con il sesto motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – “nullità della sentenza per omessa motivazione sulla questione dell’invocata applicazione degli artt. 1494 e 1495 c.c.”.

Si censura la sentenza per non essersi pronunciata sulla questione relativa al fatto “che i termini necessari ad agire ex art. 1495 c.c. non fossero spirati” e che, comunque, “la prova impeditiva dell’azione incombeva sulla controparte”.

3.7. Con il settimo motivo è denunciata – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione di legge perchè il riconosciuto inadempimento ha determinato una perdita di chance”, evenienza risultante “per tabulas”, essendo stato “ammesso e confessato” l’inadempimento del legale.

3.8. Con l’ottavo motivo è denunciata “nullità della sentenza” – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – perchè “il riconosciuto inadempimento ha determinato una perdita di chance ex artt. 1223 e 1454 c.c.”, e ciò in quanto, dedotto l’inadempimento, “si può chiedere in ogni sede la perdita di chance”.

3.9. Infine, il nono motivo denuncia “nullità della sentenza” – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – per omesso esame della domanda di restituzione delle somme pagate al legale processo non celebrato ex artt. 1225,1453,1458 e 2033 c.c.”.

– 4. Il Mo. ha resistito all’avversaria impugnazione, proponendo anche ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.

4.1. In via preliminare, il controricorrente eccepisce l’assenza di valida procura speciale, giacchè essa “non è posta in calce all’atto, bensì allegata”, essendo, in particolare “collocata a margine di un foglio bianco privo di data”.

Inoltre, il ricorso sarebbe inammissibile perchè, oltre a ripetere le doglianze di merito già oggetto dell’appello, non rispetterebbe neppure il principio di autosufficienza.

Quanto, poi, ai singoli motivi del ricorso principale, l’infondatezza del primo discenderebbe dal fatto che non fu esso Mo. ad introdurre in giudizio il documento del quale si assume la tardiva produzione, bensì la Ma. a portarlo con sè, in occasione della sua deposizione testimoniale, tanto che il giudice nè dispose dapprima l’esibizione e poi l’acquisizione, con ordinanza mai contestata dalla M.. In relazione, invece, al secondo motivo, si sottolinea come quella resa dal teste non sia una dichiarazione “de relato”, avendo costui riferito quanto appreso per conoscenza diretta. Nessuna errata interpretazione del documento di manleva, come ipotizzato dal terzo motivo, sussisterebbe, poi, nel caso che occupa, visto il tenore di tale scrittura: “mi impegno e rinuncio fin d’ora ad eccepire qualsiasi discussione, azione o controversia nei confronti della Sig.ra Ma.Vi.”, al netto del rilievo che, in ogni caso, i vizi della merce riguarderebbero solo quella presente in uno dei sessantesi colli presenti in magazzino. L’infondatezza del quarto motivo è argomentata sul rilievo che, secondo la sentenza impugnata, “è emerso dalle risultanze istruttorie che il rapporto che si era instaurato tra Ma. e D. era di semplice collaborazione, senza vincoli di durata”. Il quinto motivo, per parte propria, sarebbe non fondato, alla stregua del principio secondo cui la responsabilità professionale dell’avvocato non può affermarsi per il sol fatto del non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se un danno si sia verificato. Risulterebbe, invece, proposto per la prima volta in appello il tema della violazione degli artt. 1494 e 1495 c.c., sicchè la Corte territoriale non l’avrebbe esaminato perchè nuovo. Inoltre, quanto ai motivi sesto, settimo e ottavo, il controricorrente sottolinea come la sentenza impugnata abbia escluso qualsiasi danno, ivi compreso quello di perdita di chance, quale conseguenza del comportamento del legale, donde la loro infondatezza. Quanto, infine, al nono motivo, il controricorrente sottolinea come la circostanza relativa all’anticipazione dei compensi non solo sia rimasta sfornita di prova, ma non abbia neppure costituito oggetto di domanda, ponendosi, dunque, in questa sede quale questione nuova.

4.2. Il motivo di ricorso incidentale concerne, invece, il rigetto dell’appello incidentale esperito dal Mo. in relazione alla disposta compensazione delle spese del primo grado di giudizio, essendo stata confermata, anche sul punto, la decisione del primo giudice “in ragione dell’accertato” (e “non contestato” in appello) “conferimento dell’incarico e conseguente inadempimento” del professionista. Assume, per contro, il ricorrente incidentale di aver sempre contestato la circostanza relativa al conferimento dell’incarico, come, del resto, la possibilità di ravvisare, nella specie, taluno di quei giusti motivi idonei a consentire la compensazione, decisione che peraltro richiede – si sottolinea – una congrua motivazione.

5. Con controricorso al ricorso incidentale, per parte propria, la M. evidenzia come il supposto motivo sulle spese di lite difetti di specificità.

6. La ricorrente principale ha ribadito, con memoria, le proprie doglianze.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Entrambi ricorsi vanno rigettati.

8. In via preliminare, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale, basata – dal controricorrente – sul rilievo di una (pretesa) inidoneità della procura speciale, in quanto non “posta in calce all’atto, bensì allegata”, risultando, in particolare “collocata a margine di un foglio bianco privo di data”.

L’eccezione, come detto, non può essere accolta, trovando applicazione il principio secondo cui in “caso di procura rilasciata su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto cui si riferisce, la mancanza di data non produce nullità della procura, dovendo essere apprezzata con riguardo al foglio che la contiene, alla stregua di qualsiasi procura apposta in calce al ricorso, per cui la posteriorità del rilascio della procura rispetto alla sentenza impugnata si desume dall’intima connessione con il ricorso cui accede e nel quale la sentenza è menzionata, mentre l’anteriorità rispetto alla notifica risulta dal contenuto della copia notificata del ricorso” (Cass. Sez. 5, ord. 21 dicembre 2019, n. 34259, Rv. 656419-01).

9. Ciò premesso, il ricorso principale va rigettato.

9.1. I primi tre motivi – che concernono tutti, da vari angoli visuali, l’affermazione della Corte felsinea circa l’impossibilità, per l’odierna ricorrente, di agire contro la Ma. (cessionaria d’azienda) per far valere asseriti vizi della merce presente in magazzino – risultano inammissibili.

9.1.1. In particolare, il primo motivo di ricorso, censura il mancato rilievo – da parte del giudice di appello – della tardività della produzione in giudizio della scrittura con cui la cessionaria dell’azienda avrebbe manlevato la cedente dalla responsabilità per vizi della merce trasferita.

Il secondo e il terzo motivo, invece, contestano, rispettivamente, la deposizione con cui il teste G. riferì che l’Avv. Mo. era conoscenza di tale manleva (assumendo, in particolare, la ricorrente che quelle rese dal testimone sarebbero dichiarazioni “de relato actoris”), nonchè l’interpretazione di quella scrittura quale espressione della volontà di manlevare, effettivamente, la cedente.

Senonchè, l’impossibilità per la M. di far valere i vizi della merce ricevuta si fonda su di una duplice “ratio decidendi”, ovvero, oltre che sull’esistenza di tale dichiarazione di manleva, pure sull’intervenuta decadenza dall’azione, ai sensi dell’art. 1495 c.c.

Orbene, poichè – come si dirà immediatamente di seguito – il motivo di ricorso (il sesto) che censura la seconda di tali “rationes” è da ritenere inammissibile, in relazione ai motivi di impugnazione che qui si esaminano (e che investono, invece, sotto vari angoli visuali, la prima “ratio”) va dato seguito al principio secondo cui ove la sentenza impugnata risulti “sorretta da due diverse “rationes decidendi”, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’inammissibilità del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile” (Cass. Sez. 3, ord. 13 giugno 2018, n. 15399, Rv. 649408-01).

9.2. Inammissibile è, d’altra parte, anche il motivo – come detto, il sesto – che censura una supposta omessa pronuncia, da parte del giudice di appello, sulla questione relativa al mancato decorso dei termini di cui agli artt. 1494 e 1495 c.c., motivo da scrutinare immediatamente dopo i primi tre, per le ragioni già illustrate.

9.2.1. Il motivo, infatti, difetta di autosufficienza, giacchè il ricorso avrebbe dovuto riprodurre – sia pure nella misura idonea a garantire l’osservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – l’atto introduttivo del giudizio e, soprattutto, l’atto di appello, onde consentire la verifica del se, e in che termini, la questione relativa al mancato decorso dei termini, di cui alle suddette norme del codice civile, era stata posta. Nè, d’altra parte, ad escludere la necessità di tale incombente potrebbe valere la constatazione che il motivo in esame – denunciando un’omissione di pronuncia – si sostanzia nella deduzione di un “error in procedendo” (rispetto ai quali la Corte è anche giudice del “fatto processuale”, con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio; da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 6-5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01). Se è vero, infatti, che – nel caso.in cui il ricorso per cassazione denunci una nullità del procedimento o della sentenza – “il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda”, resta, nondimeno, inteso che l’ammissibilità del sindacato demandato a questa Corte è comunque subordinata alla condizione che “la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4” (Cass. Sez. Un., sent. n. 8077 del 2012, cit.).

Ancora di recente, infatti, è stato affermato da questa Corte che la “deduzione con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

Si tratta, peraltro, di un’esigenza – come è stato icasticamente osservato – che “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

Va, dunque, data continuità al principio secondo cui è “inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01).

9.3. Il quarto motivo – che concerne il tema dell’utile esperibilità (a giudizio della ricorrente) dell’azione risarcitoria verso l’estetista D., sul presupposto che la stessa fosse legata alla Ma. in una “società di fatto” – è, nuovamente, inammissibile.

9.3.1. Quello prospettato non è, infatti, un vizio neppure astrattamente riconducibile alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), visto che il “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (“ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03), e ciò in quanto “la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

Nella specie, la circostanza che tra la Ma. e l’estetista D. vi fosse una società non si pone – a dispetto di quanto assume la ricorrente – come un fatto “non contestato ed ormai cristallizzato nella sentenza di merito”, giacchè, all’opposto, la sentenza sottolinea come “l’attività svolta liberamente dall’estetista all’interno della profumeria” si atteggiasse “in maniera indipendente ed autonoma”, sicchè la stessa “godeva dell’uso gratuito di alcuni locali nella sede della profumeria”, senza che alcun contratto fosse stato “stipulato al fine di garantire la presenza dell’estetista nella profumeria”.

Il motivo in esame, dunque, attraverso la deduzione di un vizio di violazione di legge tende, surrettiziamente, a contestare tale accertamento di fatto.

9.4. I motivi quinto, settimo ed ottavo – in tema di nesso causale – sono, invece, non fondati.

9.4.1. Sul punto, invero, va ribadito che “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa” (tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 24 ottobre 2017, n. 25112, Rv. 646451-01).

Ciò premesso, la sentenza impugnata non ha disatteso tale principio, avendo affermato che “la vicenda dedotta in atti non appare riconducibile neanche a un ipotesi probabilistica cui dovrebbe conseguire il risarcimento richiesto sotto il profilo della perdita di chance, difettando, nel caso di specie, la prova circa una concreta ed effettiva occasione di conseguire l’auspicato bene della vita”.

Nè, d’altra parte, a miglior sorte è destinata la doglianza (formulata, in particolare, con il quinto motivo di ricorso) nella parte in cui risulta indirizzata – come suggerisce l’espresso tenore del motivo a censurare “l’esclusione di probabilità, nel caso concreto, di poter ragionevolmente attendere il risultato positivo” dalla controversia giudiziale che il professionista avrebbe dovuto incardinare.

Difatti, mentre “l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, resta, invece, inteso che “l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata” (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01).

Peraltro, i medesimi rilievi, e segnatamente il fatto che la Corte territoriale abbia escluso – con accertamento di fatto, non sindacabile in questa sede – anche l’esistenza di una perdita di chance comportano il rigetto dei motivi settimo e ottavo.

9.5. Infine, il nono motivo – relativo alla domanda di restituzione degli anticipi, asseritamente corrisposti al legale sul compenso per l’incarico conferitogli – appare inammissibile.

9.5. La questione non risulta esaminata dalla sentenza impugnata, di conseguenza, va richiamato il principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02).

Nel caso di specie, poi, i motivi di appello – come ricostruiti al punto E) del presente ricorso, che reca un’elencazione puntuale degli stessi, contrassegnandoli con le lettere a), b), c) e d) – non risultano includere la questione relativa dalla restituzione dei (supposti) acconti, ciò che conferma l’esito dell’inammissibilità del motivo, (anche) ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Nè, d’altra parte, a soddisfare l’osservanza della previsione normativa appena richiamata (e, dunque, a dimostrare la non novità della questione oggetto del presente motivo) potrebbe ritenersi sufficiente quanto si legge nel paragrafo IX, “sub” punto L), del ricorso in esame. Difatti, il passaggio dell’atto di appello, qui riprodotto, relativo all’obbligo del difensore di “informare tempestivamente il cliente, comunicandogli di non voler agire più nell’interesse della parte, restituendo quanto erogato in acconto”, non vale, certo, a dimostrare che l’odierna ricorrente avesse inteso gravare sul punto – nel rispetto del requisito della specificità del motivo di appello, ex art. 342 c.p.c. – la decisione del primo giudice.

10. Anche il ricorso incidentale va rigettato, non risultando fondato il solo motivo in cui esso si articola.

10.1. Va data, infatti, continuità al principio secondo cui, in tema di spese processuali, “il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01).

Inoltre, essendo stato instaurato il giudizio di primo grado con citazione del 5 luglio 2005, trova applicazione, “ratione temporis”, il testo originario dell’art. 92 c.p.c., che subordinava la compensazione alla mera ricorrenza di “giusti motivi”, senza richiederne la specifica indicazione da parte del giudice, limitandosi detta norma a stabilire, nel testo applicabile “ratione temporis”, che la loro enunciazione trovasse “un adeguato supporto motivazionale” (Cass. Sez. 6-3, ord. 4 aprile 2018, n. 8346, Rv. 648700-01).

Che un supporto motivazionale, nel presente caso, sussista e non sia implausibile, è conclusione che deriva dalla constatazione che la Corte territoriale ha dato rilievo alla circostanza che l’inadempimento del professionista, prima ancora che “non contestato” dallo stesso Avvocato Mo., attraverso apposito appello incidentale, fosse stato “accertato” dal primo giudice, ciò che rende, pertanto, superfluo interrogarsi sulla sua avvenuta contestazione, o meno, da parte dell’interessato (e ciò al netto, peraltro, del rilievo che una simile questione, per poter essere esaminata da questa Corte, avrebbe dovuto essere proposta – ciò che non si evince dal contenuto dell’atto, al di là della mancata evocazione di tale norma – “sub specie” di violazione dell’art. 115 c.p.c., o comunque di falsa applicazione del principio di “non contestazione”).

11. In ragione della soccombenza reciproca va disposta la compensazione integrale, tra le parti, delle spese del presente giudizio.

12. A carico della ricorrente principale e di quello incidentale sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando integralmente, tra le parti, le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

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