Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26513 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/11/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 20/11/2020), n.26513

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9840-2017 proposto da:

R.L., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ROBERTO MARTELLI;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore,

FONDO PENSIONI PER IL PERSONALE DELLA EX CASSA RISPARMIO DI TORINO –

BANCA CRT S.P.A., già FONDO PENSIONI PER IL PERSONALE DELLA CASSA

DI RISPARMIO DI TORINO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, CORSO FRANCIA 197,

presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LOTTI, che le rappresenta e

difende unitamente agli avvocati MAURIZIO BERTOLA, SALVATORE FLORIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 490/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 03/10/2016 R.G.N. 727/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DORIANA CONSERVA, per delega verbale Avvocati

MASSIMO LOTTI e MAURIZIO BERTOLA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

R.L. proponeva ricorso, dinanzi il Tribunale di Torino, nei confronti di Unicredit S.p.A. e del Fondo Pensioni per il Personale della ex Cassa di Risparmio di Torino-Banca CRT S.p.A., chiedendo che venisse accertata la condotta asseritamente illegittima che la Banca CRT S.p.A. (oggi Unicredit S.p.A.) avrebbe tenuto nei suoi confronti, privandola dapprima delle sue mansioni, poi del luogo di lavoro, e,ponendola, successivamente, in malattia a causa del suo stato ansioso-depressivo, con la finalità di farle superare il periodo di comporto per potere, poi, in tal modo, risolvere il rapporto di lavoro; ed inoltre che fosse dichiarato che la CRT S.p.A. le aveva illegittimamente attribuito, per l’anno 1994, una “nota di qualifica” con valutazione “insufficiente” – come statuito dalla sentenza n. 862/2000 del Tribunale di Torino, passata in giudicato, con la quale le era stato riconosciuto il diritto di ottenere per quell’anno una “nota di qualifica” con valutazione “ottimo” -, con la conseguente indebita trattenuta, nel corso del 1995, della somma di Lire 10.531.670, pari ad Euro 5.439,15; che fosse accertato che, anche per gli anni 1995 e 1996, alla stessa sarebbe spettato il trattamento retributivo derivante dalle “note di qualifica” di “ottimo”, con il conseguente versamento delle differenze retributive; che la Unicredit S.p.A. fosse condannata al pagamento di una somma pari ad Euro 40.962,36 per TFR (già dedotto il titolo vantato dalla Banca per titoli diversi), nonchè di Euro 12.647,25 a titolo di indennità di mancato preavviso e di Euro 15.527,07 per FIP; ed altresì al pagamento del danno patrimoniale di Euro 41.547,00 per avere recuperato, nell’ambito di una procedura di esecuzione attivata nei confronti della dipendente, la somma di Euro 62.205,75 a fronte di un credito di Euro 20.658,28; nonchè al pagamento di ulteriori danni patrimoniali subiti a causa della illegittima privazione della retribuzione e del posto di lavoro, ed infine al pagamento del danno biologico pari ad Euro 545.000,00 per insorgenza di malattia professionale che le avrebbe lasciato postumi invalidanti nella misura del 75%.

Il Tribunale adito, con la sentenza n. 765/2015, resa il 21.4.2015, in parziale accoglimento del ricorso, condannava la Unicredit S.p.A. al versamento, in favore della R., di Euro 6.085,89 a titolo di accessori sull’importo già corrisposto per la nota di qualifica di ottimo per l’anno 1994, oltre accessori di legge; di Euro 4.652,75 a titolo di differenze retributive per la nota di qualifica di ottimo spettante anche per l’anno 1995, oltre accessori di legge; di Euro 9.652,05 a titolo di accessori sull’importo corrisposto nel corso del giudizio per contributi versati al FIP, oltre accessori; di Euro 33.390,39 per accessori sull’importo corrisposto nel corso del giudizio per TFR, oltre ulteriori accessori di legge; ed il Fondo Pensioni per il Personale della ex Cassa di Risparmio di Torino-Banca CRT S.p.A. al pagamento, in favore della ricorrente, di Euro 13.596,29, oltre accessori, come per legge.

La R. interponeva appello avverso la predetta pronunzia, chiedendone la parziale riforma, con la condanna di Unicredit S.p.A. al pagamento della somma di Euro 41.547,00 per il danno patrimoniale conseguente all’azione esecutiva immobiliare intrapresa dalla Banca, e della indennità di preavviso pretesamente spettante a fronte del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, nonchè al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti in conseguenza dei comportamenti illegittimi assunti dalla Banca che avevano aggravato lo stato di salute della ricorrente.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza pubblicata il 3.10.2016, respingeva il gravame.

Per la cassazione della sentenza R.L. ha proposto ricorso affidato a due motivi, il primo dei quali ulteriormente suddiviso in più censure, rispettivamente elencate sub a) e b).

La Unicredit S.p.A. ed il Fondo Pensioni per il Personale della ex Cassa di Risparmio di Torino-Banca CRT S.p.A. hanno resistito con controricorso ed hanno comunicato memorie.

La causa, inizialmente fissata all’adunanza camerale dell’8.1.2019, è stata rinviata a nuovo ruolo – e, successivamente, fissata alla pubblica udienza del 3.12.2019 -, avendo il Collegio ritenuto che non sussistessero i presupposti per la trattazione della stessa in camera di consiglio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, in ordine al quale si specifica che attiene alla domanda relativa al risarcimento del danno patrimoniale, si deduce, sub a), “ex art. c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c. principi di buona fede e correttezza nell’ambito del rapporto di lavoro e nella esecuzione dei contratti”, e, sub b), “360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 1241 e 1243 c.c. e segg.ti, errata interpretazione e applicazione del principio della compensazione parziale”. In particolare, si assume che, cessato il rapporto di lavoro con la Banca in data 12.10.1996, a seguito di licenziamento, era maturato il diritto della ricorrente alla corresponsione, da parte della società datrice, del TFR, del FIP (dalla Banca e dal Fondo), e delle altre spettanze di fine rapporto, oltre alle differenze retributive derivanti dalle note di qualifica annuali, non corrisposte. Ed anzi, con lettera dell’8.4.1997, la società aveva comunicato alla lavoratrice che, “dovendosi procedere alla liquidazione in favore della Dott.ssa R.L. delle spettanze di fine rapporto e dei ratei arretrati di pensione, si coglie l’occasione per fornire un prospetto riepilogativo dei crediti maturati e degli impegni di pagamento tempo per tempo assunti dalla dipendente, al fine di consentire alla stessa una valutazione di opportunità circa la possibile estinzione dell’esposizione in essere, in occasione della liquidazione delle competenze in suo favore…. Crediti Lire 83.361.709 lorde a titolo di TFR, Lire 2.914.080 lorde per residui di retribuzione, eventuali conguagli; esposizioni che saranno oggetto di compensazione automatica da parte della Banca CRT in sede di liquidazione dei crediti….”, ciò, in quanto la Banca era creditrice della somma di circa 40.000.000 di lire, a seguito del contratto di mutuo stipulato con la R., le cui rate quest’ultima non riusciva a pagare, perchè priva di mezzi economici, poichè la datrice di lavoro, violando gli obblighi di buona fede e correttezza, non le aveva corrisposto le somme dovute. Pertanto, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di esaminare le argomentazioni inerenti alla dedotta violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. da parte della datrice di lavoro ed abbia errato nel motivare la propria decisione “riducendo il punto ad una problematica di sola compensazione tra i crediti della lavoratrice e quelli della banca, sostenendo che “La compensazione non poteva avere luogo sia in mancanza di accordo transattivo, non avendo l’appellante aderito alla proposta formulata dalla Banca con la missiva in data 8.4.1997 (doc. 10 Unicredit), sia in quanto non sussisteva la coesistenza di due crediti liquidi ed esigibili” (pag. 13 della sentenza)”; secondo la prospettazione della ricorrente, la Corte di Appello avrebbe, inoltre, violato le norme di cui agli artt. 1241 e 1243 c.c., per non avere considerato che “la maggior parte del credito della R. nei confronti della banca era liquido, trattandosi di un credito per accantonamento del TFR maturato ed esigibile al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

2. Con il secondo motivo, circa il quale si precisa che attiene all’indennità di preavviso: “ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2010 e 2018 c.c.”, si deduce che la lettera in data 18.10.1996, con la quale la società ha comunicato e disposto la risoluzione del rapporto di lavoro, contenesse, in sostanza, due distinti provvedimenti di recesso, coevi, uno per licenziamento per giusta causa, con effetto dal momento della ricezione della lettera – il 25.10.1996 -, ed uno per superamento del periodo di comporto, con effetto dal 12.10.1996, data di esaurimento di tale periodo, non essendo lo stesso atto datoriale recettizio; e che, pertanto, il licenziamento per superamento del periodo di comporto avrebbe avuto efficacia prima di quello di destituzione, non essendo, appunto il primo un atto recettizio, a differenza del secondo. E, dunque, a parere della ricorrente, la circostanza che la risoluzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto sia antecedente al licenziamento per giusta causa implica che per quel motivo si sia estinto il rapporto di lavoro tra le parti, a nulla rilevando il successivo licenziamento intimato per giusta causa, con la conseguenza che la lavoratrice avrebbe diritto a percepire l’indennità di preavviso che la norma contrattuale prevede a favore dei soggetti licenziati per superamento del periodo di comporto.

1.1. Il primo motivo non può essere accolto relativamente ad alcuna delle due censure sollevate sub a) e b), in quanto le doglianze mosse alla sentenza impugnata non colgono nel segno e presentano, altresì, profili di inammissibilità, laddove, in particolare sub b), si prospetta esclusivamente una diversa valutazione dei fatti rispetto alla (peraltro esaustiva e condivisibile) ricostruzione operata dalla Corte di merito, senza, peraltro, provare gli assunti sui quali le doglianze si fondano. Ed invero, la R., nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza impugnata, non ha indicato, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e di diritto, idonee a giustificare le censure, nè sotto quale profilo, le disposizioni censurate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma, altresì, con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009).

Peraltro, come innanzi osservato, dalla puntuale ricostruzione della fattispecie operata dai giudici di seconda istanza, si evince che il comportamento della datrice di lavoro non può ritenersi violativo dei principi di correttezza e buona fede che devono essere osservati nell’attuazione del rapporto obbligatorio, poichè non è neppure rimasto delibato che la R. abbia risposto affermativamente alla proposta che la Banca le aveva fatto in merito alla possibile estinzione del suo debito in occasione della liquidazione delle sue competenze di fine rapporto, specificando che, in tal modo, alcune delle voci di debito avrebbero potuto essere oggetto di compensazione automatica (al riguardo, si rileva, ancora, che la R., in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, non ha prodotto alcun documento che potesse dimostrare il contrario), mentre per altre voci di debito, quali, ad esempio, i ratei arretrati del mutuo contratto per l’acquisto della prima casa, la debitrice avrebbe dovuto fornire indicazioni sul modo in cui potessero essere estinte; la qual cosa non è avvenuta. Da ciò, discende, altresì, la legittimità dell’azione esecutiva iniziata dalla Banca relativamente al recupero di tali ultime partite di debito, data la non facile individuazione delle somme da portare in compensazione, non avendo la dipendente – ripetesi – fornito indicazioni al riguardo.

2.2. Il terzo motivo non è fondato, dovendosi osservare che, correttamente, la Corte di Appello ha affermato che, nella fattispecie, “trattasi di un unico provvedimento di licenziamento con due causali” e che, “non essendo stato impugnato giudizialmente, il recesso per giusta causa è divenuto definitivo ed esclude la corresponsione del preavviso”. Ed infatti, secondo quanto risulta dagli atti sui quali la Corte di merito ha fondato la decisione impugnata, il licenziamento per giusta causa è stato impugnato solo stragiudizialmente; e, comunque, il provvedimento di risoluzione del rapporto è unico quello intimato con la lettera del 16.10.1996, con efficacia dal giorno in cui la dipendente ha ultimato il periodo di comporto normativamente previsto (12.10.1996) – e la stessa R. lo ha impugnato, stragiudizialmente, appunto, con un’unica lettera. Pertanto, alla lavoratrice non spetta la dedotta indennità di preavviso.

Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

3. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

4. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

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