Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26511 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/11/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 20/11/2020), n.26511

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5380-2016 proposto da:

F.C., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE

37, presso lo studio dell’avvocato LANFRANCO MASSIMI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

INIZIATIVE TURISTICO ALBERGHIERE S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLA GIULIANA 101, presso lo studio dell’avvocato MARIO PISELLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato RICCARDO PACI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 155/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 19/02/2015 R.G.N. 1135/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato MARIA PIA BUCCARELLI, per delega verbale Avvocato

LANFRANCO MASSIMI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza pubblicata in data 19.2.2015, ha accolto parzialmente il gravame interposto dalla S.r.l. Iniziative Turistico Alberghiere, nei confronti di F.C. (direttore di albergo alle dipendenze della società), avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 289/2013, resa il 17.4.2013, nella parte in cui – in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dal lavoratore – è stata disposta la condanna della società datrice al versamento, in favore del primo, della somma di Euro 50.195,00 a titolo di differenze retributive per il lavoro straordinario relativo al periodo intercorrente tra il mese di luglio 2002 ed il 31.3.2005. La Corte di merito, pertanto, in parziale riforma della sentenza del primo giudice, ferma nel resto, ha respinto “la domanda riconvenzionale formulata da F.C. avente ad oggetto il pagamento di differenze retributive per lavoro straordinario” ed ha condannato l’appellato “a restituire la somma a detto titolo percepita in esecuzione della sentenza di primo grado con interessi e rivalutazione monetaria a decorrere dalla percezione fino alla restituzione”.

A sostegno della decisione, i giudici di seconda istanza hanno affermato, per quanto ancora di rilievo in questa sede, che il lavoratore, il quale agisca per ottenere il compenso per il lavoro straordinario, ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro e, ove riconosca di aver ricevuto una retribuzione non sufficiente, è altresì tenuto a provare il numero di ore effettivamente svolto, senza che eventuali – ma non decisive – ammissioni del datore di lavoro siano idonee a determinare una inversione dell’onere della prova (Cass. n. 3714/2009) e la ricostruzione del monte ore di straordinario cui è pervenuta la sentenza impugnata (riducendo ad equità il conteggio risultante dalla ctu contabile acquisita) è indicativa, per contro, di una prova affatto rigorosa quanto al lavoro straordinario preteso dal lavoratore in via riconvenzionale….”; ed altresì che “Tuttavia, nel caso in esame, al fine dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, con conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, si pone, anzitutto, il concetto di “personale direttivo” di cui al R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1, che è comprensivo – come chiarito dal R.D. n. 1955 del 1923, art. 3, n. 2 (regolamento per l’applicazione del citato R.D.L. n. 692 del 1923) – non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì, anche in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, del personale dirigente c.d. minore, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni d’azienda, i capi uffici e i capi reparto, precisando che il personale direttivo, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, ha diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per il medesimo l’orario normale, e tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della prestazione lavorativa ecceda il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e della integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori;….limite che nel caso di specie, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti, non è in questione”.

Per la cassazione della sentenza ricorre F.C. articolando tre motivi, cui resiste con controricorso la S.r.l. Iniziative Turistico Alberghiere.

Sono state comunicate memorie nell’interesse di entrambe le parti, ai sensi dell’art. 378 codice di rito.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento “all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 436-bis c.p.c. in combinazione con gli artt. 342 e 348-bis c.p.c., nonchè con l’art. 112 c.p.c.” e si lamenta che i giudici del gravame avrebbero omesso di pronunciarsi sulle eccezioni di inammissibilità dell’appello sollevate dal lavoratore con l’atto di costituzione in secondo grado.

2. Con il secondo motivo si denuncia, in riferimento “all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4; erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (che impone al giudice di pronunciare su tutte le domande delle parti), nonchè erroneità della predetta sentenza (in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’assolvimento dell’onere probatorio”, e si lamenta che la “sentenza impugnata sarebbe nulla a causa del difetto totale di motivazione (art. 132 c.p.c., n. 4) per avere la stessa riformato la pronuncia di primo grado a causa dell’asserito mancato assolvimento dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.”, poichè “La Corte territoriale, censurando…la ricostruzione del monte ore di straordinario liquidato a favore del F., afferma – in maniera del tutto apodittica – che la stessa sia “affatto rigorosa quanto al lavoro straordinario preteso dal lavoratore in via riconvenzionale””.

3. Con il terzo mezzo di impugnazione si denuncia, in riferimento “all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’erroneità della sentenza per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; l’erroneità della sentenza (in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 97 del CCNL Commercio e servizi in relazione all’applicazione delle limitazioni di orario per il personale dirigente”, perchè la Corte di merito, “nell’inquadrare la posizione lavorativa del F. nel profilo dei dirigenti e nel fornire la relativa definizione, rigetta la domanda in virtù della disposizione del CCNL di riferimento che prevede l’impossibilità di applicare al detto personale le limitazioni di orario previste dal contratto collettivo….; e conclude per l’impossibilità di valutare il limite della ragionevolezza della prestazione straordinaria (circostanza che aprirebbe l’adito al riconoscimento della prestazione del lavoro supplementare), “non essendo in questione nella presente controversia, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti””.

1.1.; 2.2. Il primo ed il secondo motivo – da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione – non possono essere accolti, in quanto le doglianze mosse alla sentenza impugnata con i predetti mezzi di impugnazione non colgono nel segno e presentano, altresì, profili di inammissibilità. Ed invero, va premesso che, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità, la denunzia dei vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, “ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione”, con la conseguenza che “è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito” (cfr., tra le molte, Cass. nn. 26831/2014; 15676/2014; 6330/2014). Inoltre, “Il principio della necessaria specificità dei motivi di appello, nella versione novellata”, applicabile alla fattispecie ratione temporis, “prescinde da qualsiasi particolare rigore di forma, ma richiede che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, al giudice siano indicate, oltre ai punti ed ai capi della decisione investiti dal gravame, anche le ragioni correlate ed alternative rispetto a quelle che sorreggono la pronuncia, in base alle quali è richiesta la riforma, così che il quantum appellatum risulti individuato in modo chiaro ed esauriente” (Cass., SS.UU., n. 10878/2015; Cass. nn. 21999/2015; 6294/2015; 22502/2014; 1651/2014).

Ciò premesso, rileva il Collegio che il F., nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza impugnata, non ha indicato, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e di diritto, idonee a giustificare la doglianza e, soprattutto, non ha sottolineato in quali parti dell’atto di gravame della società dovessero configurarsi le carenze mosse con i mezzi di impugnazione in esame. E ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte (v. art. 366, comma 1, n. 6 codice di rito), che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., ex plurimis, Cass. n. 14541/2014).

Del resto, la Corte di merito ha implicitamente disatteso le eccezioni di cui si tratta, passando subito a trattare il merito della causa, senza, per ciò, violare l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, in quanto, deve condivisibilmente ritenersi, appunto, che la decisione della causa nel merito contenga per implicito anche la decisione di rigetto della eccezione di inammissibilità della domanda, anche perchè, proprio dal fatto che i giudici di seconda istanza si siano pronunciati sul merito discende che l’appello interposto dalla società datrice fosse ammissibile, perchè la sua formulazione era stata reputata del tutto rispondente ai requisiti di cui all’art. 342 c.p.c., ed altresì che i motivi posti a fondamento fossero tali da “non appalesare ragionevoli possibilità di non essere accolti”, ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c.. Per la qual cosa, non appare conferente la doglianza relativa alla violazione dell’art. 112 c.p.c., relativa all’interpretazione della domanda, per la quale deve prospettarsi, in concreto, l’omesso esame di una domanda o la pronunzia su una domanda non proposta (cfr., tra le molte, Cass. nn. 13482/2014; 9108/2012; 7932/2012; 20373/2008); ipotesi, queste, rimaste prive di delibazione probatoria. Nè, dunque, appare conferente la censura sollevata in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, secondo la quale la decisione impugnata sarebbe del tutto carente di motivazione. Ed invero, nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia, in concreto, il vizio motivazionale non indica un fatto storico (cfr. Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite n. 8053 del 2014, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della pronunzia per mancanza di motivazione”, non potendosi configurare, nella fattispecie, un caso di motivazione apparente o di mancanza di motivazione, da cui conseguirebbe la non idoneità della sentenza a consentire il controllo delle ragioni poste a fondamento della stessa, dato che la Corte di merito è pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità con argomentazioni analitiche e del tutto condivisibili e scevre da vizi logico-giuridici.

Infine, per quanto, più specificamente attiene alle censure sollevate con il secondo motivo, si rileva che la valutazione delle prove, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014; 6023/2009), è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità del relativo apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, congrua, condivisibile e scevra da vizi logici). E, del resto, nel caso di specie, la contestazione sulla pretesa errata valutazione delle emersioni probatorie non specifica i punti ritenuti fondamentali al fine di consentire il vaglio di decisività, che avrebbe eventualmente dovuto condurre i giudici ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione ai documenti relativamente ai quali si denunzia il vizio; la stessa si risolve, dunque, in una inammissibile richiesta di riesame di elementi di fatto e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione sarebbe mancata o sarebbe stata illogica (cfr. Cass. nn. 24958/2016; 4056/2009), finalizzata ad ottenere una nuova pronunzia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014).

3.3. Il terzo motivo non è fondato. Ed invero – anche prescindendo dalla violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per la mancata produzione del CCNL Commercio e Servizi, di cui si denuncia la falsa applicazione relativamente all’art. 97 (neppure indicato nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), nè trascritto) -, va rilevato che la Corte territoriale è pervenuta alla decisione oggetto del presente giudizio, uniformandosi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., in particolare e tra le molte, Cass. nn. 21253/2014; 16050/2004; 1491/2000; 604/1986) -, secondo cui “Nei confronti del personale direttivo – categoria comprensiva non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì, anche in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, del personale dirigente c.d. minore, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni d’azienda, i capi uffici e i capi reparto – escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, il diritto al compenso per lavoro straordinario può sorgere nel caso in cui la normativa collettiva (o la prassi aziendale o il contratto individuale) delimiti anche per essi un orario normale di lavoro, che risulti nel caso concreto superato, ovvero, in mancanza di tale delimitazione, quando la durata della prestazione lavorativa ecceda i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute”. Ebbene, dopo aver sottolineato, altresì, il rigore probatorio che la giurisprudenza di legittimità richiede al lavoratore che assuma di aver prestato ore di lavoro straordinario (cfr., tra le altre, Cass. n. 3714/2009), i giudici di seconda istanza, ritenuti non provati, nella fattispecie, gli assunti del F. in merito allo svolgimento dello straordinario pretesamente effettuato, hanno sottolineato che “il limite della ragionevolezza della prestazione straordinaria non è in questione nella presente controversia, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti”. E, dunque, non ha costituito un punto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti, sulla quale la Corte avrebbe omesso di motivare, in quanto il ricorrente non ha fatto cenno – nè ha provato attraverso la produzione degli atti a sostegno della doglianza – alla circostanza del “superamento dei limiti di ragionevolezza”, dalla quale sarebbe, eventualmente derivato un lavoro “usurante”.

Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

4. Le spese – liquidate come in dispositivo, in misura inferiore rispetto a quelle richieste con la nota spese depositata, in quanto il giudizio attiene a questioni involgenti principi noti, sui quali gli arresti giurisprudenziali di legittimità sono consolidati – seguono la soccombenza.

5. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

 

 

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