Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26508 del 19/10/2018

Cassazione civile sez. II, 19/10/2018, (ud. 05/04/2018, dep. 19/10/2018), n.26508

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24788/2014 proposto da:

M.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CESI

44, presso lo studio dell’avvocato AGOSTINO GESSINI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO SANTONI;

– ricorrente –

contro

AGRICOLA B. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI 119,

presso lo studio dell’avvocato MARIA GRAZIA BATTAGLIA, rappresentata

e difesa dall’avvocato MARIA GRAZIA MARGIACCHI FEROCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1209/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 25/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

05/04/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

Fatto

RILEVATO

che il sig. M.O., a fronte del rifiuto della richiesta di pagamento bonaria di Euro 15,493,17, conveniva in giudizio la Agricola B. s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore per ottenere Euro 22.000,00 (detratti Euro 6.098,74 circa già versati) a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di un contratto d’opera intellettuale avente ad oggetto lo svolgimento di una ricerca storica sulla piccola cappella di (OMISSIS), risultata nella redazione di una relazione denominata “La Chiesa di (OMISSIS) 2”;

che la corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della decisione di prime cure, ha rideterminato il compenso spettante al sig. M. in Euro 13.860,00, riducendo conseguentemente il residuo ancora dovuto dalla Agricola B. s.p.a. da Euro 18.621,26 in Euro 7.761,74 oltre interessi, compensando per 2/3 le spese e condannando la Agricola B. s.p.a. a rifondere integralmente il restante terzo;

che la corte distrettuale, alla luce delle qualità delle parti e delle modalità e circostanze di affidamento dell’incarico, ha ritenuto che i primo giudice avesse errato nell’applicare come parametro del corrispettivo le tabelle dell’ANASTAR (Associazione nazionale storici dell’arte), dal momento che il sig. M. era un giovane laureato occasionalmente presente in loco quale dipendente occupato nella raccolta di frutta e che l’opera gli era stata richiesta per mera finalità pubblicitaria connessa all’attività commerciale;

che quindi, secondo la corte fiorentina, il compenso andava determinato in via equitativa ai sensi dell’art. 2233 cpv. c.c., ben potendosi far riferimento alle predette tabelle, ma dovendosi adeguare all’importanza dell’opera i valori emergenti dalla relativa applicazione;

che avverso la suddetta sentenza il sig. M. ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di quattro motivi;

che la Agricola B. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, ha resistito con controricorso;

che la causa è stata chiamata all’adunanza di Camera di consiglio del 5 aprile 2018, per la quale non sono state depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo di ricorso, promiscuamente formulato, il ricorrente censura la valorizzazione, nella sentenza gravata, della circostanza che l’opera era stata richiesta a fini pubblicitari; il ricorrente argomenta che tale circostanza era stata addotta solamente in sede di gravame e che, dunque, la sua valutazione da parte del giudice di appello costituirebbe violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e violazione dell’art. 2909 c.c. e art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

che il motivo è infondato in tutte le tre articolazioni che lo compongono;

1) la pretesa violazione dell’art. 345 c.p.c., non sussiste, perchè la deduzione che l’opera commissionata aveva una finalità pubblicitaria non costituisce una eccezione in senso stretto (tali essendo soltanto quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte, cfr. Cass. 8602/13), bensì una eccezione in senso lato, come tale deducibile anche in appello (S.S.U.U. 10531/13);

2) la pretesa violazione dell’art. 2909 c.c., deve giudicarsi insussistente, alla stregua del principio che “la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dar luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configura bili come capi completamente autonomi, avendo risolto questioni controverse che, in quanto dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente ad altri, concorrano a formare un capo unico della decisione” (così Cass. 21566/17); per altro nel mezzo di ricorso non si indica alcuna specifica statuizione contenuta nella sentenza di primo grado sulla destinazione dell’opera commissionata al ricorrente, ma si citano solo brani di tale sentenza che richiamano atti o documenti delle parti;

3) la doglianza relativa alla pretesa violazione dell’art. 115 c.p.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa giudicando non contestata la circostanza che l’incarico affidato all’odierno ricorrente avesse una finalità di tipo pubblicitario risulta carente di autosufficienza, perchè nel motivo di ricorso non si deduce se e quando l’argomento della destinazione dell’opera allo scopo pubblicitario, dedotto nell’atto di appello della committente, sia stato contestato dall’odierno ricorrente nella sua comparsa di costituzione in appello. Nè può condividersi l’assunto, enunciato nel penultimo capoverso di pagina 8 del ricorso, secondo cui il principio di non contestazione andrebbe riferito al giudizio di primo grado e non a quello di appello; al contrario, questa Corte ha già chiarito, con la sentenza n. 23142/09, che: “il principio di non contestazione che informa il sistema processuale civile ed è applicabile anche nella fase introduttiva del giudizio di appello, nella quale, ferma la non modificabilità della domanda, la leale collaborazione tra le parti, manifestata con la previa presa di posizione sui fatti dedotti, è funzionale all’operatività del principio di economia processuale”;

che con il secondo motivo di ricorso il sig. M. censura la valutazione della CTU operata dal giudice del gravame sotto forma di vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 e come violazione degli artt. 116 e 132 c.p.c., ex n. 4; secondo il ricorrente la corte di appello avrebbe disatteso le conclusioni del CTU senza adeguata motivazione;

che il secondo motivo va disatteso, perchè risulta formulato in difformità dal canone imposto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5 (la giurisprudenza citata alla fine di pagina 11 e all’inizio di pagina 12 del ricorso è tutta anteriore alla riforma di tale articolo introdotta dal D.L. n. 83 del 2012): esso non indica alcun fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso nella sentenza gravata, ma si duole della valutazione della corte territoriale di inadeguatezza dell’opus alla destinazione pubblicitaria del medesimo, risolvendosi nella sollecitazione alla Corte di cassazione a procedere ad un riesame delle risultanze istruttorie che non può avere luogo in sede di legittimità;

che con il terzo motivo di ricorso si lamenta l’inesatta interpretazione della volontà contrattuale emergente dalla lettera di conferimento dell’incarico e dalle lettere inviate dal sig. M. alla società per informarla dell’andamento dei lavori, dai quali documenti si desumerebbe la serietà e complessità del lavoro di ricerca condotto; il ricorrente argomenta inoltre che il suo stile redazionale era già noto alla società, alla luce della prima relazione da lui redatta, e doveva dunque considerarsi accettato per assenza di qualsivoglia doglianza in merito; conseguentemente si denuncia il difetto di motivazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 5 e la violazione dell’art. 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, artt. 1362, 1366 c.c. e art. 2233 c.c., ex n. 3;

che il motivo è inammissibile perchè mescola promiscuamente ed inestricabilmente vizi di violazione di legge e vizi motivazionali; la Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti chiarito che, in materia di ricorso per cassazione, per poter ritenere ammissibile un motivo articolato in più profili di doglianza, è necessario che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (sent. n. 9100/15); in ogni caso, si può aggiungere che la doglianza sulla interpretazione della lettera di affidamento dell’incarico e della successiva corrispondenza tra le parti tende a censurare la statuizione relativa alla destinazione dell’opus a fini pubblicitari e risulta quindi, in definitiva, inammissibile per carenza di interesse, giacchè tale statuizione si fonda non sull’esame di detti documenti ma sull’affermazione (che resiste all’impugnazione portatale con il primo motivo di ricorso) della non contestazione di tale destinazione;

che con il quarto motivo di ricorso, riferito al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè alla violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 92 c.p.c. e del D.M. n. 140 del 2012, art. 41, il ricorrente censura la regolazione delle spese di lite contenuta nella sentenza gravata sotto un triplice profilo:

a) in primo luogo, lamenta che la corte fiorentina, riliquidando le spese del primo grado di giudizio, abbia applicato le tariffe di cui al D.M. n. 140 del 2012, invece che quelle di cui al D.M. n. 127 del 2004, ancora vigenti nel momento del deposito della sentenza del tribunale di Arezzo;

b) in secondo luogo deduce che la sentenza gravata, liquidando le spese del primo grado secondo tariffe di cui esso ricorrente non aveva mai chiesto l’applicazione (quelle di cui al D.M. n. 140 del 2012) sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione;

c) in terzo luogo contesta – sia sotto il profilo della violazione dell’art. 92 c.p.c., sia sotto il profilo del vizio e dell’assoluta carenza di motivazione – la parziale compensazione delle spese, nella misura di due terzi, disposta dalla corte territoriale in ragione del “ridimensionamento” della pretesa dell’attore;

che la censura sub a) va disattesa perchè la sentenza gravata risulta allineata all’insegnamento di questa Corte che: “In tema di spese processuali, agli effetti del D.M. n. 140 del 2012, art. 41, il quale ha dato attuazione del D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2, conv. con modif. dalla L. n. 27 del 2012, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle precedenti tariffe professionali, sono applicabili ogni volta che la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, benchè questa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando vigevano le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicornprensiva di “compenso” la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata, operante anche con riferimento all’attività svolta nei gradi di giudizio conclusi con sentenza prima dell’entrata in vigore del decreto e anche nel successivo giudizio di rinvio” (Cass. 30529/17);

che la censura sub b) va giudicata infondata perchè l’individuazione del parametro normativo a cui ancorare la liquidazione delle spese legali compete al giudice, per il principio jura novit curia;

che la censura sub c) va disattesa, alla stregua del principio che “La regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91 c.p.c.), ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92 c.p.c., comma 2); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorchè quest’ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento” (Cass. 3438/16);

che quindi in definitiva il ricorso va rigettato in relazione a tutti i motivi in cui esso si articola;

che le spese seguono la soccombenza;

che deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere alla società contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.500, oltre Euro 200 per esborsi ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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