Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26500 del 21/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 21/12/2016, (ud. 12/10/2016, dep.21/12/2016),  n. 26500

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24281-2011 proposto da:

FIPA ITALIANA YACHTS SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA COLA DI RIENZO 180,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO FIORILLI, rappresentato e

difeso dagli avvocati FRANCESCO PISTOLESI e MARCO MICCINESI giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 98/2010 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE,

depositata l’08/11/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato ALLENA per delega dell’Avvocato

MICCINESI che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato CASELLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del ricorso rigetto nel resto.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. A seguito di verifica fiscale generale condotta nei confronti della FIPA ITALIANA YACHT s.r.l., compendiata nel processo verbale di constatazione notificato alla predetta società in data 6 aprile 2006, la competente Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento relativamente all’anno di imposta 2003, con il quale procedeva al recupero a tassazione ai fini IVA, IRPEG ed IRAP di una serie di costi ritenuti indeducibili relativi a: 1) acquisto di una imbarcazione da diporto effettuato da una società domiciliata in uno Stato a fiscalità privilegiata; 2) manutenzione su beni di terzi e su beni in leasing; 3) quote di ammortamento di beni strumentali; 4) prestazioni di servizi non di competenza dell’esercizio in verifica; 5) spese di rappresentanza; inoltre, contestava alla predetta società contribuente la violazione ai fini IVA del regime delle operazioni intracomunitarie.

2. Con sentenza n. 98 dells8 novembre 2010 la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, a parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva sia l’appello proposto dalla società contribuente relativamente al recupero dell’IVA per la violazione del regime delle operazioni intracomunitarie, sia l’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, ma limitatamente alle riprese a tassazione dei costi relativi all’acquisto effettuato da società domiciliata in uno Stato incluso nella c.d. black list e di costi di competenza di diverso esercizio contabile.

3. La società contribuente ricorre per la cassazione della sentenza d’appello, deducendo dodici motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui replica l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art. 76, comma 7-ter. (ante riforma del 2004, ora art. 110, comma 11) del TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986) in combinato disposto con la L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303, (Finanziaria 2007).

1.1. In relazione all’acquisto di una imbarcazione da diporto effettuato da una società domiciliata in uno Stato a fiscalità privilegiata (inserita cioè nella c.d. black list) sostiene la società ricorrente che il giudice di appello, nel ritenere che l’abrogazione ad opera dell’art. 1, comma 130 Legge finanziaria 2007. dell’attuale art. 110 TUIR, comma 11, u.p. che prevedeva (in maniera analoga al previgente art. 76, comma 7-ter) che la deduzione delle spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati era “comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti”, non avesse effetto retroattivo, ha errato nell’interpretazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303, il primo dei quali (comma 302) aveva aggiunto al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8 il comma 3-bis, che prevedeva la sola sanzione amministrativa per il caso di omessa o incompleta indicazione in dichiarazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11 TUIR. ed il secondo dei quali (comma 303) aveva esteso retroattivamente gli effetti di detta disposizione a condizione che il contribuente fornisse – come nel caso di specie – la prova “che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione” (art. 110, comma 11 TUIR).

2. Con il secondo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006 (Finanziaria 2007). in combinato con il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8.

2.1. Sostiene la ricorrente che alla deducibilità dei costi relativi a transazioni commerciali con società appartenenti a Paesi ricompresi nella c.d. black list non era di ostacolo l’avvenuta tardiva presentazione della dichiarazione integrativa, che invece i giudici di appello avevano ritenuto irrilevante “in quanto successiva alla verifica fiscale”.

3. Con il terzo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997. art. 8, comma 1, in combinato disposto dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, (Finanziaria 2007) e D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3.

3.1. Sostiene la società ricorrente che la CTR aveva errato nel ritenere dovute le sanzioni applicate, quale quella per infedele dichiarazione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, escludendo la retroattività della disposizione sanzionatoria più favorevole di cui al D.Lgs. citato, art. 8, comma 3-bis introdotto dall’art. 1, comma 303 Legge Finanziaria 2007 ed applicabile nell’ipotesi in cui sia fornita la prova – come nel caso in esame, ancorchè erroneamente esclusa dalla CTR – della sussistenza delle esimenti di cui all’art. 110, comma 11 (previgente art. 76, comma 7-ter) TUIR, e cioè “che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione”.

4. Con il quarto motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 in combinato disposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7.

4.1. Sostiene la ricorrente che i giudici di appello. ritenendo nella specie “non verificate le circostanze esimenti previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 1” avevano violato le disposizioni censurate dal cui combinato disposto si ricavava il principio che gli atti impositivi, che devono essere motivati “in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche” che li determinano, non possono essere integrati dall’Ufficio successivamente alla loro emanazione, come accaduto nel caso di specie in cui l’Agenzia delle entrate, che aveva proceduto al recupero a tassazione dei costi derivanti da operazione commerciale con Paese ricompreso nella c.d. black list per difetto di “separata indicazione in dichiarazione” di quei costi, soltanto nell’atto di costituzione in primo grado aveva dedotto per la prima volta che la contribuente non aveva fornito la prova nè “dell’interesse economico nè dell’attività commerciale della Società estera”, peraltro contraddicendo quanto affermato nel provvedimento di rigetto della richiesta di annullamento dell’atto impositivo in autotutela, avanzata da essa contribuente, laddove l’Ufficio finanziario dava atto che “la società fornisce le prove ai sensi dell’art. 110, comma 11 TUIR (art. 76, ex comma 7 ter) circa l’effettiva attività commerciale della società estera e la sussistenza di un reale interesse economico”.

5. Con il quinto motivo viene dedotta, ai sensi del’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10.

5.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza impugnata, nel ritenere che nella specie non si erano verificate le circostanze esimenti previste dall’art. 110, comma 11 TUIR. nonostante l’Agenzia delle entrate non avesse mai contestato nella fase amministrativa l’assenza delle stesse, dandone invece espressamente atto nel provvedimento di rigetto dell’istanza di annullamento dell’atto impositivo in autotutela, viola il principio di affidamento e buona fede cui devono essere improntalii rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria.

6. Con il sesto motivo viene dedotta. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 11.

6.1. Sostiene la ricorrente che i giudici di appello non avevano rilevato, traendone le relative conseguenze in ordine all’illegittimità dell’atto impositivo, che l’Agenzia delle entrate nella fase amministrativa aveva omesso il preventivo contraddittorio con essa società contribuente al fine di consentirle di fornire le prove della sussistenza delle esimenti di cui alla disposizione censurata.

7. Con il settimo motivo viene dedotte, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza delle circostanze esimenti di cui all’art. 110. comma 11 TUIR, non avendo i giudici di appello fornito alcuna giustificazione logica all’affermazione secondo cui nel caso di specie non si erano verificate le predette circostanze.

8. Con l’ottavo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art. 74 (ora art. 108), comma 3 TUIR e art. 2426 c.c., comma 1, n. 5, laddove i giudici di appello avevano ritenuto che gli oneri sostenuti dalla società nel corso dell’anno 2003 per lavori strutturali su immobili di terzi, detenuti in leasing, andassero dedotti necessariamente in quote costanti nell’esercizio di sostenimento e nei quattro successivi, nonostante le disposizioni censurate non prevedessero l’obbligatorietà dell’ammortamento quinquennale, stante anche l’irretroattività della modifica apportata all’art. 108 TUIR al D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, art. 11, comma 1, lett. c), che decorre dal 22 marzo 2005 (come previsto dall’art. 14, comma 1 citato).

9. Con il nono motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 67, comma 3 TUIR (ante riforma 2004, poi riprodotto nell’art. 102, comma 3, poi abrogato dalla legge Finanziaria 2008).

9.1. Sostiene la ricorrente che il giudice di appello aveva errato nel ritenere legittima la ripresa a tassazione degli ammortamenti di alcuni beni strumentali (nella specie, stampi per imbarcazioni in vetroresina, motospazzatrice. pressa gigante e rullatrice carrellata) perchè operati in misura maggiore rispetto a quella (del 12,50%) previsto, per la specifica categoria di beni, invece consentita dall’art. 67, comma 3 (ora art. 102) TUIR, in presenza di documentata e non contestata “più intensa utilizzazione dei beni rispetto a quella normale di settore”.

10. Con il decimo motivo (erroneamente rubricato come nono) viene dedotto. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla circostanza dell’uso intensivo e massiccio di alcuni beni strumentali, che è circostanza che legittima un loro ammortamento anticipato, ex art. art. 67, comma 3 TUIR (ante riforma 2004, poi riprodotto nell’art. 102, comma 3 TUIR e, quindi, definitivamente abrogato dalla legge Finanziaria 2008).

10.1. Lamenta la società ricorrente l’inadeguatezza e la contraddittorietà della motivazione della sentenza gravata, laddove i giudici di appello, pur dando atto che la perizia prodotta dalla società attestava l’uso massiccio ed intensivo dei cespiti ammortizzabili, hanno di poi affermato che “il testo unico prevede per particolari casi l’ammortamento anticipato o l’ammortamento intensivo se opportunamente documentato”, cosicchè non era chiaro se abbiano ritenuto dirimente, ai fini del disconoscimento dell’ammortamento anticipato così come operato dalla società contribuente, la corretta individuazione da parte dell’Amministrazione finanziaria della categoria dei beni in cui ricomprendere quelli oggetto di ammortamento e del relativo coefficiente, oppure il difetto di prova della più intensa utilizzazione dei beni rispetto a quella normale del settore. come previsto dalla sopra citata disposizione.

11. Con l’undicesimo motivo viene dedotto. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine all’imputazione temporale di alcuni costi per prestazioni di servizi.

11.1. Lamenta la società ricorrente che i giudici di appello non avevano adeguatamente spiegato le ragioni che li avevano indotti a disattendere le argomentazioni svolte per giustificare la corretta imputazione nell’esercizio in verifica di alcuni componenti negativi di reddito relative a varie prestazioni di servizi rese in favore della contribuente.

12. Con il dodicesimo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del previgente art. 74 (ora art. 108), comma 2 TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986) in ordine alla riconducibilità a spese di rappresentanza degli oneri sostenuti per ospitare alcuni potenziali clienti, da considerarsi invece spese di pubblicità.

12.1. In relazione a tale motivo la difesa erariale ne eccepisce l’inammissibilità perchè erroneamente denunciato come vizio di violazione di legge anzichè come vizio motivazionale, essendo stato contestata la qualificazione dei costi, come di pubblicità piuttosto che di rappresentanza.

13. I primi due motivi, che vanno esaminati congiuntamente stante la stretta connessione logica in quanto entrambi riconducibili alla questione della deducibilità dei costi c.d. black list (ovverosia di quelli derivanti da operazioni commerciali intercorse con imprese domiciliate fiscalmente in Stati aventi regimi fiscali privilegiati), sono fondati e vanno accolti.

13.1. Invero. questa Corte è ormai ferma nel ritenere che “in tema di reddito d’impresa, all’esito delle modifiche retroattive introdotte dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303 e prima di quelle di cui alla L. n. 208 del 2015. applicabili a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015” la separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi delle spese e degli altri componenti negativi inerenti ad operazioni commerciali intercorse con fornitori aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi “black list”) è un mero obbligo formale, che non ne condiziona la deducibilità e la cui violazione espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 8, comma 3 bis, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all’entrata in vigore della L. n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1, a ciò non ostando la presentazione della dichiarazione integrativa di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8, ove operata dal contribuente dopo l’avvio dei controlli” (Cass. n. 11933 del 2016; conf. Cass. n. 4030, n. 6205, n. 20635 e n. 21955 del 2015, nonchè n. 6338 e n. 6651 del 2016).

13.2. Orbene. a questo principio non si sono attenuti i giudici di appello che. confermando la legittimità della pretesa impositiva in quanto riferita a componenti negativi di reddito derivanti da operazioni c.d. “black list” non hanno fatto corretta applicazione nè dei principi giurisprudenziali sopra citati, nè – a fortiori – del quadro normativo di riferimento in base al quale non è di ostacolo alla deducibilità dei costi c.d. “black list” nè l’omessa separata indicazione dei medesimi nella dichiarazione dei redditi, nè la presentazione della dichiarazione integrativa, che, peraltro, se presentata – come nel caso di specie – una volta avviata la verifica fiscale, non impedisce l’applicazione delle previste sanzioni in forza della riserva contenuta nel D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8 il quale, nel consentire a determinate condizioni ed entro dati termini l’emenda di errori ed omissioni a mezzo dichiarazione integrativa, fa tuttavia espressamente “salva l’applicazione di sanzioni” (in termini, Cass. n. 6651 del 2016).

14. Il terzo motivo è fondato.

14.1. In relazione al motivo in esame, proposto con riferimento alle sanzioni applicate dall’Amministrazione finanziaria, vengono in rilievo la L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303 (Legge finanziaria 2007) che prevedono il primo (comma 302), che “Al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, commi 302 e 303 dopo il comma 3 è aggiunto il seguente: “3-bis. Quando l’omissione o incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi di cui all’art. 110, comma 11 testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si applica una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di Euro 500 ed un massimo di Euro 50.000″”; il secondo (comma 303), che “La disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo citato testo unico delle imposte sui redditi. Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 8, comma 1”.

14.2. Orbene, le pronunce di legittimità adottate con riferimento alla questione delle sanzioni applicabili ai casi di omessa separata indicazione dei componenti negativi di reddito scaturenti da operazioni commerciali con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (c.d. Paesi “black list”) sono assolutamente conformi nel ritenere, peraltro in ossequio alle disposizioni normative sopra riportate (che non pongono particolari problemi interpretativi), che la violazione di detto obbligo – di carattere meramente formale, come tale non incidente sulla deducibilità dei predetti costi – è passibile della sola sanzione amministrativa pecuniaria di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3-bis, anche se commessa in epoca precedente all’entrata in vigore della citata legge finanziaria 2007 (come prevede espressamente il comma 303). In tal caso, però, detta sanzione va cumulata con quella di cui all’art. 8, comma 1 D.Lgs. citato (si è detto “in ragione dell’estensione della portata retroattiva dell’abolizione del previgente regime d’indeducibilità” – Cass. n. 4030 del 2015 ed altre successive) e sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11 TUIR (ovvero, che le imprese estere svolgano prevalentemente attività commerciale effettiva o che le operazioni poste in essere corrispondano ad un effettivo interesse economico ed abbiano avuto concreta esecuzione).

14.3. Precisato che quella della sussistenza sub specie delle circostanze esimenti di cui al citato art. 110, comma 11 TUIR, quale presupposto per l’applicazione o meno alla società ricorrente anche della sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, prevista dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, è questione posta nei successivi motivi di ricorso, deve osservarsi che la CTR è sicuramente incorsa nella dedotta violazione di legge laddove ha ritenuto legittimamente applicate alla società contribuente da parte dell’Amministrazione finanziaria sanzioni diverse da quelle previste dalle disposizioni sopra riportate e, precisamente, quella per infedele dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, (come ammesso anche dalla difesa erariale a pag. 5 del controricorso).

15. Come anticipato nell’esame del precedente mezzo di impugnazione, nei motivi da quattro a sette, seppur sotto diverso angolo prospettico, viene in rilievo la questione della sussistenza sub specie delle circostanze esimenti di cui all’art. 110, comma 11 TUIR. Va, quindi, esaminato con priorità il settimo motivo che risulta connotato di decisività, in applicazione del principio della “ragione più liquida” (Cass. S.U. n. 9936 del 2014 Sez. 6^-L, n. 12002 del 2014, Sez. 5^, n. 16462 del 2016).

15.1. Il predetto motivo, con cui la ricorrente deduce un vizio di motivazione della sentenza impugnata, è fondato e va accolto.

15.2. Invero, i giudici di appello hanno escluso l’applicabilità retroattiva della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, affermando (testualmente) che “non si ritiene si siano verificate le circostanze esimenti previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 11 “.

15.3. La laconica affermazione della sentenza impugnata rende inidonea la motivazione, invero del tutto assente, a giustificare la decisione specie se si considera che sul punto la contribuente aveva dedotto che l’Amministrazione finanziaria soltanto nell’atto di costituzione in primo grado aveva per la prima volta contestato alla contribuente di non aver fornito la prova nè “dell’interesse economico nè dell’attività commerciale della Società estera”, peraltro contraddicendo quanto affermato nel provvedimento di rigetto della richiesta di annullamento dell’atto impositivo in autotutela, avanzata dalla contribuente, in cui aveva dato atto che “la società fornisce le prove ai sensi dell’art. 110, comma 11 TUIR (art. 76, ex comma 7 ter) circa l’effettiva attività commerciale della società estera e la sussistenza di un reale interesse economico”. Circostanze, queste, che avrebbe dovuto costituire oggetto di analitica considerazione da parte del giudice di merito.

L’affermazione sopra riportata risulta, pertanto, viziata sul piano motivazionale.

15.4. Si rammenti al riguardo che, secondo costante affermazione di questa Corte, ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr., ex multis, Cass. n. 9113 del 2012; n. 23812 del 2016).

Ed è quanto accaduto nel caso di specie, in cui i giudici di appello hanno omesso di illustrare i motivi che li avevano indotti a ritenere indimostrata la sussistenza delle predette esimenti, così da non consentire di comprendere come siano giunti alla formazione di quel giudizio.

16. L’accoglimento del profilo di censura esaminato comporta l’assorbimento del quarto, quinto e sesto mezzo di impugnazione, con i quali la ricorrente aveva rispettivamente dedotto la violazione del principio del divieto di integrazione degli atti impositivi successivamente alla loro emanazione (come aveva fatto l’Agenzia delle entrate nell’eccepire l’insussistenza delle esimenti in esame solo nelle controdeduzioni di primo grado), la violazione del principio di affidamento e buona fede (non avendo l’Ufficio finanziario mai contestato nella fase amministrativa l’assenza di quelle circostanze esimenti) ed infine la violazione del preventivo contraddittorio sulla questione in esame.

17. L’ottavo motivo, al cui esame deve quindi passarsi, è fondato e merita di essere accolto.

17.1. L’affermazione dei giudici di appello, secondo cui gli oneri sostenuti dalla società nel corso dell’anno 2003 per lavori strutturali su immobili di terzi, detenuti in leasing, andassero dedotti necessariamente in quote costanti nell’esercizio di sostenimento e nei quattro successivi, è errata in diritto in quanto si pone in contrasto con l’art. 2465 c.c., comma 1, n. 5, e con il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74 (ora art. 108), comma 3, applicabile ratione temporis, dai quali era ricavabile la facoltatività dell’ammortamento quinquennale di detti costi e non la sua obbligatorietà, invece prevista con decorrenza dal 22 marzo 2005 per effetto della modifica apportata dal D.Lgs. 28 febbraio 2005, n. 381, art. 11, comma 1, lett. e), che ha introdotto al citato art. 108, comma 3 TUIR la disposizione secondo cui “Le medesime spese” – cioè quelle relative a più esercizi, diverse da quelle considerate nei commi 1 (studi e ricerche) e 2 (pubblicità e propaganda) – “non capitalizzabili per effetto dei principi contabili internazionali. sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi”.

17.2. Non vi era alcunchè che consentisse di attribuire effetto retroattivo alla suddetta disposizione innovatrice che, invece. per espressa previsione contenuta nell’art. 14 citato D.Lgs., ha efficacia a decorrere dal 22 marzo 2005.

18. Il nono motivo e decimo motivo, in quanto entrambi dedotti con riferimento alla questione dell’ammortamento anticipato dei beni strumentali, vanno esaminati congiuntamente.

18.1. Al riguardo deve osservarsi che la società ricorrente aveva operato l’ammortamento di alcuni beni strumentali (quali stampi per imbarcazioni in vetroresina, motospazzatrice, pressa gigante e rullatrice carrellata) in misura maggiore rispetto a quella (del 12,50%) prevista per la specifica categoria di beni avvalendosi del disposto di cui all’art. 67, comma 3 (art. 102 post riforma 2004) TUIR, e cioè sul presupposto della documentata e non contestata “più intensa utilizzazione dei beni rispetto a quella normale di settore”.

18.2. I motivi sono fondati e vanno accolti.

18.3. Invero, la sentenza impugnata è davvero di difficile comprensibilità laddove conferma la legittimità della ripresa a tassazione degli ammortamenti perchè operata per percentuale maggiore di quella prevista per la specifica categoria di beni affermando che “la perizia allegata parla di cespiti sottoposti ad uso massiccio e intensivo ma non contesta l’attribuzione del settore di appartenenza: tra l’altro il testo unico prevede per particolari casi l’ammortamento anticipato o l’ammortamento intensivo se opportunamente documentato”. Non è quindi chiaro se la CTR abbia ritenuto dirimente, ai fini del disconoscimento dell’ammortamento anticipato così come operato dalla società contribuente, la corretta individuazione da parte dell’Amministrazione finanziaria della categoria dei beni in cui ricomprendere quelli oggetto di ammortamento e del relativo coefficiente, oppure il difetto di prova della più intensa utilizzazione dei beni rispetto a quella normale del settore, come previsto dalla disposizione censurata.

18.4 Oltre all’evidente contraddittorietà delle argomentazioni spese dalla CTR nella sentenza impugnata, deve rilevarsi che in presenza di una perizia che attesti l’uso massiccio ed intensivo cui sono sottoposti i cespiti oggetto di ammortamento, la mancata contestazione dell’inclusione di quei beni nella categoria con quota di ammortamento del 12.50% diventa del tutto irrilevante, mentre è insufficiente a dimostrare il percorso logico seguito dai giudici di appello l’affermazione che la perizia non sarebbe idonea ad “opportunamente” documentare la sussistenza sub specie del presupposto per accedere all’ammortamento anticipato.

19. L’undicesimo motivo, con cui la ricorrente lamenta il vizio di motivazione della sentenza gravata in ordine all’imputazione temporale di alcuni componenti negativi di reddito relative a varie prestazioni di servizi rese in favore della contribuente, è infondato.

19.1. Infatti, le affermazioni rinvenibili in sentenza sulla questione oggetto di esame. e cioè: a) che la società era a conoscenza delle lavorazioni effettuate nel 2002 riferibili di fatto a servizi prestati nell’anno di competenza; b) che tali lavorazioni erano, pertanto, determinabili nel valore anche se la fatturazione era postuma, costituiscono risposta, peraltro adeguata e sufficiente, alle deduzioni difensive svolte sul punto dalla società contribuente, così come riprodotte a pag. 42 del ricorso, circa l’incertezza e l’indeterminabilità dei costi nell’esercizio 2002, circa il fatto che nell’esercizio 2004 le condizioni richieste dall’art. 109 TUIR si erano già verificate e circa il fatto che si trattava di costi documentati da fatture emesse nel 2003.

20. Il motivo in esame va quindi rigettato.

21. In relazione al dodicesimo motivo, proposto con riferimento alla riconducibilità a spese di pubblicità, piuttosto che a quelle di rappresentanza, degli oneri sostenuti dalla società ricorrente per ospitare alcuni potenziali clienti, è fondata l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa erariale sul presupposto dell’erronea denuncia del vizio come violazione di legge anzichè come vizio motivazionale, costituendo causa di inammissibilità del ricorso per cassazione l’erronea sussunzione del vizio, che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità, nell’una o nell’altra fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. n. 21165 del 2013, n. 1615 del 2015).

21.1. Invero, la sentenza impugnata, laddove afferma che le spese in esame “sono caratterizzate dall’essere a titolo gratuito, non sono direttamente collegate con gli scopi commerciali dell’azienda, e quindi connesse con dei potenziali ricavi. ma piuttosto sono connesse con l’immagine di forza economica dell’azienda presso i clienti”, contiene un accertamento in fatto che avrebbe dovuto essere censurato con il corrispondente vizio motivazionale. Dal che l’inammissibilità del motivo dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

22. In estrema sintesi, quindi, vanno accolti il primo, secondo, terzo, settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso, assorbiti il quarto, quinto e sesto motivo, va dichiarato infondato l’undicesimo ed inammissibile il dodicesimo, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, che provvederà a riesaminare la vicenda processuale alla stregua dei principi sopra enunciati, provvedendo alla rideterminazione delle sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi del principio enunciato nell’esame del terzo motivo di ricorso e alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il primo, secondo, terzo, settimo, ottavo, nono e decimo motivo di ricorso, assorbiti il quarto, quinto e sesto motivo, dichiara infondato l’undicesimo motivo ed inammissibile il dodicesimo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5^ sezione civile, il 12 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

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