Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26499 del 21/12/2016


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. trib., 21/12/2016, (ud. 10/10/2016, dep.21/12/2016),  n. 26499

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6605-2014 proposto da:

GENIAL SRL. in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA C/0 STUDIO LICCARDO VIA OVIDIO 20,

presso lo studio dell’avvocato TOMMASO MAGLIONE, che lo rappresenta

e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 367/2012 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 19/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2016 dal Consigliere Dott. LUCIO LUCIOTTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAGLIONE che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 367 del 19 dicembre 2012 la Commissione tributaria regionale della Campania accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli che aveva accolto il ricorso con cui la contribuente GENIAL s.r.l. aveva impugnato l’avviso di accertamento ai fini IVA, IRES ed IRAP relativamente all’anno di imposta 2005, con cui l’Amministrazione finanziaria, sulla scorta delle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F. in data 18 marzo 2008, da cui era emerso l’indebito utilizzo di un deposito fiscale gestito virtualmente dalla Saima Avandero s.p.a., recuperava a tassazione l’IVA indebitamente detratta dalla società contribuente in relazione alle fatture emesse per spese di magazzinaggio dalla società che gestiva il deposito IVA ed alle autofatture emesse dalla società contribuente a seguito dell’estrazione dal predetto deposito delle merci di provenienza extracomunitaria.

1.1. Il giudice di appello, ritenuto tempestivo il gravame erariale, lo accoglieva nel merito, facendo leva sulla prova offerta dall’amministrazione in ordine alla mancata introduzione fisica delle merci nel deposito, perchè basata, in fatto, sulle dichiarazioni rese alla polizia tributaria da chi la trasportava e, in diritto, sulla considerazione che, nonostante la norma interpretativa del “decreto armonizzazione” (D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 4, convertito con modificazioni dalla L. n. 427 del 1993, dovuta al D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5-bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 2 del 2009), il differimento dell’obbligo di corrispondere l’imposta sul valore aggiunto, correlato all’introduzione della merce nel deposito IVA, implicava sempre che l’introduzione fosse fisica, essendosi limitato il legislatore del 2008 a definire solo taluni aspetti e servizi accessori.

2. Avverso tale statuizione la società contribuente propone ricorso per cassazione con otto motivi di censura, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

3. La causa perviene all’odierna udienza a seguito di ordinanza interlocutoria emessa ai sensi dell’art. 291 c.p.c. sul rilievo che il ricorso per cassazione risultava notificato solo presso l’Avvocatura Generale dello Stato e l’intimata non si era costituita.

4. L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata a seguito di detta ordinanza, replica con controdeduzioni.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce, cumulativamente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 38 e 51 e art. 324 c.p.c. e segg. nonchè l’omessa o carente motivazione sull’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate perchè tardivamente proposto.

1.1. Lamenta che il giudice di appello, violando le disposizioni del processo tributario in materia di notifica della sentenza e di termini per le impugnazioni, aveva erroneamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello per tardività della notifica, sia per aver attribuito rilevanza al timbro tondo dell’Ufficio postale apposto in calce all’elenco delle raccomandate consegnate dall’Agenzia appellante all’ufficio postale in data 28.10.2011, piuttosto che alla successiva data di accettazione della singola raccomandata, come risultante dal sito web di Poste Italiane, sia per avere erroneamente escluso che la consegna della copia della sentenza allegata all’istanza di sgravio delle iscrizioni a ruolo emesse a titolo provvisorio, effettuata in data 29.9.2010 direttamente all’Agenzia delle entrate, costituisse valida notifica in quanto non seguita dal deposito nella segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di copia della sentenza in quel modo notificata.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente prospetta, anche in questo caso cumulativamente, “sotto il profilo della violazione di legge e sotto quello della commissione di errores in procedendo” (pag. 8 del ricorso), e quindi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 32 D.Lgs.n. 546 del 1992, anche in relazione all’art. 111 Cost.

2.1. Sostiene che la CTR campana con ordinanza interlocutoria aveva invitato l’Agenzia delle entrate appellante, che non era comparsa all’udienza di trattazione, a produrre la distinta di spedizione del ricorso in appello e a controdedurre specificamente in ordine all’eccezione di tardività del gravame, così violando il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che a seguito dell’abrogazione del comma 3 della citata disposizione ad opera del D.L. n. 203 del 2005, art. 3 bis, comma 5, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2005, non prevede più l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, e così disponendo aveva finito per consentire alla parte di depositare documenti oltre il termine di cui all’art. 32 legge sul processo tributario. Lamenta, altresì, la ricorrente che l’ordinanza in esame era stata emessa in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 34, per avere la Commissione di appello disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo in difetto dei presupposti indicati dalla citata disposizione ed in violazione anche del principio del giudice naturale precostituito per legge, essendo diversa la composizione della Commissione di appello che aveva pronunciato sentenza rispetto a quella che aveva emesso l’ordinanza sopra indicata.

3. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi involgenti la questione dell’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, sono inammissibili.

3.1. Deve, infatti, osservarsi che il giudizio di inammissibilità dell’appello per violazione del termine per la sua proposizione, previsto dal combinato disposto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 38 e 53 e art. 327 c.p.c. non attiene al merito della decisione, ma al rito, atteso che la corrispondente questione rileva ai fini dell’accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi; ne consegue che, quando venga dedotta, in sede di legittimità, l’erroneità della dichiarazione di ammissibilità dell’appello e denunciata la violazione delle corrispondenti norme processuali, la censura deve essere formulata mediante la denuncia del pertinente “error in procedendo”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. n. 22912 del 2012). Nella specie la ricorrente deduce, peraltro cumulativamente (Cass. n. 2299 del 2012, n. 24781 del 2015, n. 6235 del 2015 e giurisprudenza ivi citata), e con argomentazioni tra loro inestricabili (Cass. n. 9793 del 2013 e S.U. n. 9100 del 2015), quindi inammissibilmente, vizi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, ma non ai sensi del n. 4 citata disposizione, con la conseguenza che il motivo non si sottrae alla rilevata inammissibilità.

4. Precisato che, al pari di quanto rilevato esaminando il primo motivo di ricorso, la mescolanza dei vizi denunciati in relazione alla medesima doglianza rende inammissibile anche il secondo mezzo di impugnazione, deve osservarsi che quest’ultimo è ancor prima assorbito dalla dichiarazione di inammissibilità del primo, apparendo comunque necessario ricordare, con riferimento alla violazione del termine di deposito di documenti di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32 pure dedotta dalla ricorrente, il principio giurisprudenziale (cfr. Cass. n. 26831 del 2014) secondo cui “la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione” con la conseguenza “che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito” e, con riferimento invece alla lamentata violazione del principio del giudice naturale “precostituito per legge” (Cost. art. 25), il principio giurisprudenziale in base al quale “la garanzia posta dall’art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, va riferita alla competenza dell’organo giudiziario nel suo complesso, impersonalmente considerato, e non incide sulla concreta composizione dell’organo giudicante” (Cass. n. 12969 del 2004).

5. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 6 e 163, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, carente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

5.1. Muovendo dal presupposto che l’Amministrazione finanziaria aveva accertato l’indeducibilità dei costi risultanti dalle autofatture emesse all’atto dell’estrazione della merce dal deposito fiscale, in quanto “relativi a fatti, atti o attività qualificabili come reato, invocando specificamente, quale unica fonte legislativa applicata (…)la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis” (pag. 14 del ricorso), la ricorrente sostiene che il giudice di appello, nel ritenere legittimo l’operato dell’Ufficio finanziario, ha violato il disposto di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, (aggiunto dalla L. n. 289 del 2002, art. 2, comma 8) che, nella versione risultante dalla modifica apportata dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 44 del 2012, applicabile, ai sensi del comma 3 disposizione da ultimo citata, anche ai “fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli”, consente la deducibilità di quei costi con rimborso al contribuente delle maggiori imposte versate nell’ipotesi – ricorrente nella specie – di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. con sentenza definitiva.

5.2. Muovendo, poi, dall’ulteriore presupposto che la società contribuente aveva effettivamente acquistato le merci che, secondo l’assunto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria, non erano passate per il deposito fiscale, e che le autofatture erano state emesse per neutralizzare l’imposta applicata sulla successiva cessione a terzi di quelle merci, sostiene che il giudice di appello, laddove ha ritenuto indeducibili i costi risultanti dalle predette autofatture, ha violato le disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163, che vietano la doppia imposizione.

6. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 112 c.p.c. sostenendo che il giudice di appello è andato ultra petita laddove ha confermato l’avviso di accertamento per la ritenuta irregolarità del passaggio delle merci per il deposito IVA, nonostante l’Amministrazione finanziaria avesse emesso l’avviso sul solo presupposto della indeducibilità dei costi in quanto provenienti da reato.

7. Con il quinto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, artt. 50 bis convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993, e D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 2 del 2009, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, carente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

7.1. Premessa la differenza tra deposito doganale e deposito IVA, precisato che in tali depositi può essere introdotto soltanto merce nazionale o estera che sia stata però “immessa in libera pratica” a seguito dell’assolvimento del dazio doganale, e richiamata la disciplina di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993, nonchè il D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 2 del 2009 (norma di interpretazione autentica della disposizione di cui all’art. 50 bis sopra citato, comma 4, lett. “h”), la società ricorrente sostiene che il giudice di appello aveva errato nel ritenere necessaria l’introduzione fisica della merce nel deposito IVA, anche alla stregua dello ius superveniens (L. n. 2 del 2009 cit.), sollecitando una riconsiderazione del principio espresso da questa Corte nella sentenza n. 12262 del 2010 e fatto proprio dalla CTR, sul rilievo che, in ogni caso, il beneficio che derivava dalla mancata introduzione della merce nel deposito IVA non consentiva “salti di imposta” ma soltanto la mera sospensione del pagamento dell’IVA nelle more della consegna della merce ai terzi acquirenti.

8. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “l’illegittimità assoluta, radicale ed insanabile della sentenza impugnata per illogica e contraddittoria motivazione sul punto della controversia inerente l’assoluzione del legale rappresentante della società dai reati contestati” (così testualmente nella rubrica del mezzo di impugnazione).

8.1. Sostiene la ricorrente che nel caso di specie, diversamente che nei precedenti richiamati dalla CTR per riaffermare la non vincolatività in ambito tributario del giudicato penale, “è l’accertamento fiscale a dipendere, solo ed esclusivamente dalla qualificazione penale dei fatti” con la conseguente vincolatività di quel giudicato, erroneamente esclusa dalla CTR, giacchè una volta che l’Autorità giudiziaria penale abbia statuito che il reato non sussiste – come avvenuto nel caso di specie, con sentenza irrevocabile (di cui la ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, ha allegato al medesimo copia del primo foglio, contenente l’annotazione di irrevocabilità, e dell’ultimo, contenente il dispositivo) – i costi recuperati sulla sola base della loro relazione con il reato contestato devono essere ammessi in deduzione.

9. Con il settimo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, “l’illegittimità assoluta, radicale ed insanabile della sentenza impugnata per carenza di prova e/o per essere fondata su mezzi di prova inammissibili nel processo tributario, con violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, motivazione carente e contraddittoria” (così testualmente nella rubrica del mezzo di impugnazione), sostenendo che “la sentenza trascura l’assoluta carenza probatoria degli assunti dell’Ufficio e, utilizzando solo ed esclusivamente (ed imprecisamente come rilevato) alcune dichiarazioni del T.”, legale rappresentante della società che aveva effettuato il trasporto delle merci per conto della società che gestiva il deposito IVA, “ignorandone immotivatamente altre, conferma illegittimamente la (inesistente) fondatezza dell’accertamento”.

10. Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione e falsa interpretazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56 nonchè la contraddittorietà della motivazione e l’omessa lettura degli atti processuali da parte dei giudici di appello, sostenendo che questi avevano erroneamente escluso che la società aveva riproposto in sede di gravame tutti i motivi di impugnazione dedotti in prime cure avverso l’avviso di accertamento.

1. Così sunteggiati i motivi di ricorso proposti dalla società ricorrente, questa Corte ritiene che il quinto motivo debba essere esaminato prioritariamente risultando connotato di decisività, in applicazione del principio della “ragione più liquida” (Cass. S.U. n. 9936 del 2014, Sez. 6A-L, n.12002 del 2014, Sez. 5^, n. 16462 del 2016) che, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre.

12. Ciò posto, deve ancora preliminarmente osservarsi che il motivo, benchè abbia carattere plurimo, denunciandosi contestualmente la violazione di norme di legge e vizi logici di motivazione, peraltro prospettato in tutte le sue differenti ipotesi e, quindi, sotto profili tra loro incompatibili (ex multis, Cass. 2299 del 2012), deve ritenersi ammissibile sul rilievo che nel motivo viene di fatto illustrato soltanto la violazione delle norme indicate nella rubrica (cfr. Cass. n. 9793 del 2013 e S.U. n. 9100 del 2015).

13. Nel merito il motivo è fondato e va accolto.

13.1. Al riguardo deve osservarsi che con l’atto impositivo l’Agenzia delle entrate mirava a recuperare l’IVA all’importazione a seguito di disconoscimento della detrazione operata dalla società contribuente mediante autofatturazione al momento dell’estrazione della merce da un deposito fiscale ritenuto “virtuale”, perchè illecitamente gestito da altra società (la Saima Avandero s.p.a.) che non introduceva “fisicamente” le merci nel predetto deposito.

13.2. Orbene, i depositi IVA disciplinati dal D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis convertito, con modificazioni, dalla L. n. 427 del 1993, introdotto dalla L. 18 febbraio 1997, n. 28, in linea con i principi comunitari contenuti nell’art. 154 e ss. della direttiva 2006/112/CE, sono luoghi fisici situati nel territorio dello Stato italiano, non doganali (se riferiti a beni già immessi in libera pratica), che consentono di differire l’assolvimento dell’IVA all’importazione con il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge) al momento in cui le merci, ivi introdotte e già immesse in libera pratica, saranno estratte per essere commercializzate nel territorio nazionale (c.d. immissione al consumo). Non vanno quindi confusi con i depositi doganali (di beni nazionali o comunitari introducibili in base alle disposizioni doganali) ed i depositi fiscali (di beni soggetti ad accisa) considerati anch’essi depositi IVA, ma che si distinguono anche per la specifica finalità dei depositi IVA disciplinati dal citato art. 50 bis, che è quello di evitare che ai beni comunitari venga riservato un trattamento fiscale meno favorevole rispetto a quello previsto per i beni provenienti da Paesi terzi, che possono essere introdotti in depositi appositamente costituiti ai fini doganali senza pagamento dell’imposta fino al momento della loro importazione.

13.3. Precisato ulteriormente che nella fattispecie non si fa questione di pagamento di dazi all’importazione, la circostanza, assolutamente pacifica, che la società contribuente abbia assolto l’IVA all’importazione mediante il sistema dell’inversione contabile comporta, alla stregua del principio affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C272/13, Equoland (in epoca, quindi, successiva alla sentenza di questa Corte n. 12262 del 2010, i cui principi la CTR ha richiamato in motivazione), secondo cui “la sesta direttiva dev’essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante un’autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo” (punto 49 e punto 2 del dispositivo), che l’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’IVA all’importazione da parte del soggetto passivo che, pur non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale e quindi si sia illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui al D.L. n. 331 del 1993, n. 331, art. 50 bis, comma 4, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 427 del 1993, abbia comunque provveduto, seppur tardivamente, all’adempimento dell’obbligazione tributaria mediante autofatturazione, trattandosi di violazione meramente formale che, pertanto, non può mettere in discussione il diritto alla detrazione, residuando soltanto i profili sanzionatori connessi alla tardività dell’adempimento tributario (Cass. n. 16109 del 2015 nonchè Cass. n. 15988, n. 17814, n. 17815 del 2015 e n. 19749 del 2014), che è questione che però non viene in rilievo nel presente giudizio (v. da ultimo, Cass. n. 18643 e n. 18005 del 2016; n. 17814, n. 17815, n. 16109 e 15988 del 2015, nonchè 19749 del 2014).

14. Il motivo è quindi fondato e va accolto.

15. L’accoglimento del motivo di ricorso in esame spoglia di decisività tutti gli altri che, pertanto, devono ritenersi assorbiti.

16. Alla cassazione della sentenza impugnata consegue il rinvio della causa alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, che riesaminerà la vicenda alla stregua dei suesposti principi e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il quinto, assorbiti tutti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione quinta civile, il 10 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA