Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26498 del 19/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 19/10/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 19/10/2018), n.26498

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10939-2017 proposto da:

I.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PASSEGGIATA DI

RIPETTA, 25, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA IAPICHINO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MARINELLI

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.S. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI, presso lo

studio dell’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati GIORGIO MOLTENI, PAOLO ZUCCHINALI,

ANTONIO CAZZELLA giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 119/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 13/02/2017 R.G.N. 1000/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2018 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GONNELLA GIULIO per delega verbale IAPICHINO

LUCILLA;

udito l’Avvocato CAZZELLA ANTONIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza n. 119 pubblicata il 13.2.17, ha respinto il reclamo della sig.ra I. avverso la sentenza di primo grado che, all’esito della fase di opposizione, aveva confermato l’ordinanza di rigetto dell’impugnativa del licenziamento intimato il 13.10.14 dalla società L.S. s.p.a. per superamento del periodo di comporto.

2. La Corte territoriale ha premesso, in fatto, come la I., in seguito all’infortunio sul lavoro occorso il (OMISSIS), fosse rimasta assente per oltre 180 giorni.

3. Ha argomentato come le assenze per infortunio sul lavoro o malattia professionale rientrassero nella disciplina di cui all’art. 2110 c.c., e fossero computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro, la cui determinazione è rimessa, dalla citata disposizione, alla legge, alle norme collettive, agli usi o all’equità.

4. Ha rilevato come l’art. 177 del c.c.n.l. rinviasse, per la disciplina di conservazione del posto in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale, all’art. 175, che fissa il periodo di comporto in 180 giorni.

5. Ha escluso che l’infortunio occorso alla I. avesse avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque presenti nell’ambiente di lavoro oppure in inadempienze del datore di lavoro agli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c..

6. Ha sottolineato come la scala su cui si era verificato l’incidente fosse conforme alle prescrizioni di sicurezza in quanto dotata di dispositivi antiscivolo e di corrimano e fosse sgombra da ostacoli; ha ritenuto irrilevante la mancata previsione nel documento di valutazione dei rischi del pericolo di caduta dall’alto, atteso che la dipendente risultava caduta “a livello”, ipotesi questa contemplata nel citato documento; ha considerato non dimostrato il dedotto stress da superlavoro.

7. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la sig.ra I., affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso la società datoriale.

8. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso la lavoratrice ha censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. e dell’art. 177 del c.c.n.l. Terziario, Distribuzione e Commercio del 2008, per aver ritenuto computabili nel periodo di comporto anche le assenze dovute a infortunio sul lavoro o malattia professionale e le stesse accomunate, nella disciplina contrattuale, alle assenze per malattia comune ai fini del periodo di conservazione del posto di lavoro.

2. Il motivo è infondato.

3. Questa Corte ha più volte statuito come la fattispecie di recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore si inquadri nello schema previsto e sia soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (Cass. n. 5413 del 2003).

4. Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinchè l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 5413 del 2003 cit.).

5. Più esattamente, la computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 7037 del 2011).

6. Si è anche sottolineato come nessuna norma imperativa vieti che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto, cui fa riferimento l’art. 2110 c.c., quelle dovute a infortuni sul lavoro, nè tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione, che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi (Cass. n. 14377 del 2012; Cass. n. 9187 del 1997; Cass. n. 6080 del 1985; Cass. n. 889 del 1983).

7. Nel caso di specie, la Corte di merito, nel ritenere le assenze conseguenti all’infortunio sul lavoro occorso alla dipendente computabili ai fini del comporto, ha correttamente interpretato e applicato la disciplina collettiva, cui l’art. 2110 c.c., rinvia, in coerenza con i principi sopra richiamati.

7. Questa Corte (Cass. n. 26005 del 2015) ha già chiarito, proprio in relazione al c.c.n.l. del settore terziario, come l’art. 175 c.c.n.l. preveda che il lavoratore durante la malattia abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare, trascorso il quale, perdurando la malattia, il datore di lavoro potrà procede al licenziamento; che l’art. 177 dello stesso c.c.n.l. prevede a sua volta, con riferimento all’ipotesi di infortunio, che per la conservazione del posto di lavoro valgono le stesse norme di cui all’art. 175; che la dichiarazione a verbale che segue l’art. 177 c.c.n.l. citato precisa che i periodi di comporto per malattia e per infortunio agli effetti del raggiungimento del termine massimo di conservazione del posto di lavoro sono distinti e hanno la durata di centottanta giorni cadauno.

8. A conclusioni diverse non possono condurre i precedenti di legittimità richiamati nel ricorso in esame e relativi alla disciplina dettata da contratti collettivi diversi da quello applicato al rapporto di lavoro della ricorrente; in particolare le sentenze n. 14377 del 2012 e n. 14756 del 2012 riguardano il c.c.n.l. servizi di pulizia e servizi integrati/multi servizi.

9. Col secondo motivo la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., e art. 116 c.p.c., ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la sentenza escluso che l’infortunio fosse causalmente collegato alla violazione delle prescrizioni imposte a parte datoriale dall’art. 2087 c.c.; per avere ritenuto irrilevante la mancata previsione, nel documento di valutazione dei rischi, del pericolo di caduta dall’alto e per avere escluso tale dinamica dell’infortunio senza tener conto della consulenza tecnica prodotta dalla lavoratrice.

10. Il motivo appare inammissibile in quanto si sostanza, anche laddove denuncia la violazione di norme di diritto, in un vizio di motivazione formulato in modo non coerente allo schema legale del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

11. Come più volte precisato da questa Corte, il vizio di violazione di legge coincide con l’errore interpretativo, cioè con l’erronea individuazione della norma regolatrice della fattispecie o con la comprensione errata della sua portata precettiva; la falsa applicazione di norme di diritto ricorre quando la disposizione normativa, interpretata correttamente, sia applicata ad una fattispecie concreta in essa erroneamente sussunta. Al contrario, l’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 26272 del 2017; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; n. 26307 del 2014). Solo quest’ultima censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

12. Nel caso di specie, le censure investono tutte la valutazione delle prove come operata dalla Corte di merito, e si sostanziano, attraverso il richiamo al contenuto dei documenti prodotti e della consulenza tecnica di parte, in una richiesta di rivisitazione del materiale istruttorio (quanto alla dinamica dell’infortunio come caduta dall’alto e non a livello) non consentita in questa sede di legittimità, a maggior ragione in virtù del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

13. Al rigetto del ricorso segue la condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite liquidate come in dispositivo.

14. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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