Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26498 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. II, 17/10/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 17/10/2019), n.26498

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7874-2018 proposto da:

P.G., D.M.G., PR.GR.,

I.R., G.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

LUNGOTEVERE DEI MELLINI 17, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO

VIGLIONE, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

01/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/06/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Viglione.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.D., D.M.G., G.G., I.R., P.G. e Pr.Gr. hanno proposto ricorso articolato in un unico motivo avverso il decreto della Corte di appello di Roma n. 7088/2017, depositato in data 1 agosto 2017.

L’intimato Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensive.

Con ricorso recante numero RG 50068/2016 dinanzi alla Corte di appello di Roma, C.D., D.M.G., G.G., I.R., P.G. e Pr.Gr. chiesero la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze all’equa riparazione per la irragionevole durata di un giudizio amministrativo iniziato il 19 marzo 2002 presso il T.A.R. del Lazio e dichiarato perento il 9 dicembre 2014 ai sensi dell’art. 1 dell’Allegato 3 (norma transitorie), D.Lgs. n. 2 luglio 2010, n. 104.

Con decreto n. 4315 del 30 maggio 2016 il magistrato designato della Corte di appello di Roma respinse il ricorso per l’equa riparazione. Gli istanti proposero opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5 ter che venne rigettata dinanzi alla Corte di appello di Roma con decreto 1 agosto 2017, assumendosi che, in forza di “interpretazione estensiva della previsione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 sexies, lett. d”, e ritenuta l’identità di ratio tra gli artt. 81 e 82 c.p.a. e l’art. 1 dell’Allegato 3 (norma transitorie), D.Lgs. n. 2 luglio 2010, n. 104, dovesse desumersi l’insussistenza di un interesse dei ricorrenti alla definizione del giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

L’unico motivo di ricorso censura la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6, par. 1 C.E.D.U., per avere la Corte di appello di Roma erroneamente interpretato estensivamente la stessa L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett. d, avendo la perenzione D.Lgs. n. 104 del 2010, ex art. 1, all. 3, presupposti, natura, finalità e disciplina diversi rispetto alla perenzione “ordinaria”, di cui agli artt. 81 e 82 c.p.a.

Il ricorso va rigettato.

Il giudizio presupposto, pendente dal 2002 davanti al TAR Lazio, era stato dichiarato perento con decreto del 9 dicembre 2014, ai sensi della norma transitoria contenuta nel D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 1, all. 3 recante il codice del processo amministrativo, che per i ricorsi ultraquinquennali onera le parti di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice. Siffatti ipotesi di “perenzione transitoria” costituì, effettivamente, una novità del Codice del processo amministrativo, giacchè, mediante essa, venivano sottoposti a verifica di persistenza di interesse, dipendente da apposita manifestazione proveniente da almeno una della parti costituite, i ricorsi pendenti da oltre cinque anni alla data del 16 settembre 2010 e per i quali non fosse stata ancora fissata l’udienza di discussione. Tale perenzione transitoria D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ex art. 1, all. 3 è del tutto assimilabile alla perenzione del ricorso ai sensi degli artt. 81 e 82 codice del processo amministrativo, essendo comune la ratio di sollecitare l’istante a richiedere che il giudizio perduri e non cada, appunto, in perenzione.

E’ indubbio che l’accertamento della sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo costituisce apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformato dal D.L. n. 83 del 2012, o altrimenti nei casi di “mancanza assoluta di motivi”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

Nel decreto impugnato, la Corte d’Appello ha tuttavia tratto il proprio convincimento di insussistenza del danno per disinteresse delle parti ricorrenti a coltivare il processo amministrativo pendente dal 2002 in via esclusiva dalla dichiarazione di perenzione dello stesso intervenuta soltanto nel dicembre 2014.

Si tratta di deduzione la cui correttezza, nella disciplina antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, era stata più volte smentita da questa Corte (da ultimo, cfr. Cass. Sez. 6 – 2, 09/07/2015, n. 14386), affermandosi, al contrario, che la dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse delle parte a coltivare il processo, in quanto, altrimenti, verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Al riguardo, i ricorrenti evidenziano di aver presentato un’istanza di prelievo nel 2007 e tre istanze di fissazione udienza nel 2011. Piuttosto, l’esistenza di un danno non patrimoniale per violazione del termine ragionevole di durata del processo – la cui prova si intende di regola insita nello stesso accertamento della violazione – può essere esclusa in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che tale danno non sia stato subito dal ricorrente. La perenzione del giudizio amministrativo presupposto rappresenterebbe, così, indizio su cui fondare l’inconfigurabilità di un pregiudizio morale delle parti correlato all’incertezza ed alla connessa sofferenza per l’attesa della definizione della lite, ove la stessa sia espressiva dell’inerzia assoluta dei contendenti, mantenuta sin dall’iniziale pendenza della domanda, di tal che il protrarsi del procedimento non sia percepito dagli stessi come idoneo a produrre conseguenze sfavorevoli.

Questa Corte ha, del resto, costantemente affermato pure che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 già nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dapprima dalla L. n. 134 del 2012 e poi dalla L. n. 208 del 2015, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicchè, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale, a meno che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dall’interessato (cfr. ad esempio, Cass. Sez. 1, 26/09/2008, n. 24269; Cass. Sez. 1, 16/12/2010, n. 25519).

Si rivela dunque decisiva, nel ragionamento adottato nel decreto impugnato, l’incidenza dell’applicabilità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), nel testo introdotto dalla L. n. 208 del 2015, il quale dispone che si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria, nel caso di: “(…) perenzione del ricorso ai sensi degli artt. 81 e 82 codice del processo amministrativo, di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104”.

Le ipotesi considerate nell’elenco di presunzioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, costituiscono prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, salvo pur sempre il limite della motivazione del proprio convincimento, nonchè quello dell’esame degli eventuali elementi indiziari contrari al fatto ignoto dell’inesistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, che si pretende legislativamente di desumere tramite l’allestita presunzione.

Al riguardo, peraltro, questa Corte ha messo in evidenza come la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 777, non contemplasse, per le modifiche introdotte dalla sua lett. d, ovvero appunto per l’art. 2-sexies, alcun regime transitorio, come invece stabilito dalla lett. m), intervenendo sulla L. n. 89 del 2001, art. 6 (cfr. in tal senso Cass., Sez. 6 -2, 26/01/2017, n. 2026).

La norma in esame è dunque entrata in vigore il 1 gennaio 2016 (L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 999).

Secondo consolidati principi giurisprudenziali (a far tempo quanto meno da Cass. Sez. U, 12/12/1967, n. 2926) il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso. Lo stesso principio implica, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi completamente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore.

La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), ha inciso, in particolare, sulla disciplina del riparto dell’onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio: da irragionevole durata del processo, nel senso di contemplare una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il processo in caso di perenzione del ricorso ai sensi degli artt. 81 e 82 codice del processo amministrativo (ovvero, come avvenuto nella specie, agli effetti del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 1 all. 3). E’ stata così posta, in favore dell’Amministrazione, in vista della statuizione giudiziale, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro legislativo previgente, che non può trovare applicazione unicamente nei processi di equa riparazione già iniziati al momento dell’entrata in vigore della nuova regolamentazione.

Le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introdotte dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, sono, invero, idonee ad influire sul diritto della parte a dimostrare l’effettività del patema d’animo da riparare. L’applicazione di tali disposizioni a domande di equa riparazione proposte prima del 1 gennaio 2016, e cioè prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, avrebbe ripercussioni in ordine al regime delle prove richieste nel procedimento di cui alla L. n. 89 del 2001, destando sospetti di irrazionalità e di illegittimità costituzionale sotto il profilo del principio di difesa ex art. 24 Cost. Si osserva in dottrina come ogni disposizione legislativa sopravvenuta, che introduca nuovi oneri probatori, oppure ripartisca diversamente tali oneri tra le parti del rapporto sostanziale, non può operare nell’ambito dei processi in corso, in quanto chiama l’uno o l’altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa, la quale implica anche la garanzia di poter fornire la prova e di “difendersi provando”. L’illegittimità dell’applicazione retroattiva dalla norma che introduca una presunzione discende, in definitiva, dalla considerazione dall’effetto sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento del promovimento della lite, non costituivano oggetto dell’onere della parte.

Contenendo la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), introdotto dalla L. n. 208 del 2015, una presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, esso pone, dunque, una nuova disciplina della formazione e della valutazione della prova nel processo. In assenza di norme che diversamente dispongano, e perciò proprio in forza dell’art. 11 preleggi, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), senza che rilevi la natura sostanziale o processuale della disposizione, dando luogo a ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione (e, quindi, anche nella fattispecie in esame, essendo stata la domanda presentata dopo il 1 gennaio 2016).

Il ricorso va quindi rigettato. Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Ministero non ha svolto attività difensive.

Essendo il procedimento in esame esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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