Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26488 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 20/11/2020, (ud. 18/09/2020, dep. 20/11/2020), n.26488

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina M. – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14754/2012 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ADL Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede

in (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 57/20/2011 della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio, depositata in data 20 aprile 2011;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 settembre

2020 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con avviso di accertamento – emesso sulla base di una verifica della Guardia di Finanza, a seguito della quale era stato notificato un processo verbale di constatazione per l’anno di imposta 2005 che aveva riscontrato la deduzione di costi derivanti da operazioni inesistenti poste in essere da cinque società ritenute “cartiere” in quanto avevano omesso la dichiarazione fiscale ed erano prive di struttura organizzativa, di mezzi e di dipendenti – la Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Roma 2 rettificò, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, il reddito imponibile dichiarato dalla Srl ADL ai fini IRES ed in conseguenza il reddito ai fini IRAP e l’IVA indebitamente detratta nelle fatture relative a dette operazioni.

Investita dal ricorso proposto contro l’accertamento dalla Srl ADL, la quale aveva dedotto che il tribunale penale di Roma aveva dichiarato non doversi procedere perchè il fatto non sussiste nei confronti del legale rappresentante della società e che i lavori erano stati in realtà eseguiti, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, con sentenza n. 82/3/2009, annullò l’accertamento ritenendo che la ricorrente avesse dimostrato che le fatture considerate inesistenti si riferivano a lavori realmente effettuati e pagati.

La Agenzia delle Entrate propose appello con cui lamentò che i cinque soggetti che avevano emesso le fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti erano privi di qualsiasi struttura organizzativa, non avevano mai presentato alcuna dichiarazione fiscale, neppure quella dovuta come sostituti di imposta e non avevano alcuna sede reale e che dunque la documentazione prodotta in giudizio dalla società ADL era inidonea a provare la esistenza delle operazioni.

L’appello fu respinto con sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 57/20/2011, depositata in data 20.4.2011, la quale rilevò laconicamente “A parte il rilievo concernente la assoluzione in sede penale del legale rappresentante della società dalla imputazione di falsa fatturazione, perchè il fatto non sussiste, occorre evidenziare che l’Ufficio non ha fornito la documentazione comprovante l’esistenza delle operazioni fosse a sua volta frutto di una attività preordinata all’evasione fiscale cioè operazioni fatte di proposito proprio al fine di supportare le fatture. Si tratta di mera affermazione senza alcun riscontro concreto”.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate, con atto spedito il 5 giugno 2012 e ricevuto il 28 giugno successivo, affidato a quattro motivi.

L’intimata non si è costituta.

L’Agenzia delle Entrate, stante la mancata costituzione della intimata, ha presentato una successiva memoria in data 29 novembre 2019 diretta a provare la regolarità del completamento della notificazione del ricorso per cassazione alla controparte mediante consegna da parte dell’ufficiale giudiziario, in data 28 giugno 2012, al legale rappresentante della società nella sede della stessa in (OMISSIS), risultante la sede amministrativa della società dal 19.6.2009 dal fascicolo storico delle società di capitali della Camera di Commercio di Roma, a mani di D.L.F. quale direttore tecnico della società, ivi rinvenuto ed all’addetta allo studio del difensore commercialista Dott. I.G., in via (OMISSIS), presso il quale la società aveva eletto domicilio nel giudizio di merito, come emerge anche dalla sentenza di appello.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la Agenzia delle Entrate deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su fatti controversi e decisivi prospettati dall’Ufficio con l’atto di appello a supporto della tesi della natura di “cartiere” delle cinque aziende che avevano emesso le fatture relative ad operazioni ritenute inesistenti, fatti che costituivano elementi indiziari idonei a fare ritenere le operazioni inesistenti, ma anche che il contribuente non si era comportato secondo buona fede.

2. Con il secondo motivo lamenta, sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo preso in esame dalla sentenza impugnata quale elemento fondante il proprio convincimento, costituito dalla avvenuta assoluzione del legale rappresentante della Srl ADL in sede penale, pur trattandosi di elemento irrilevante ai fini della legittimità dell’accertamento fondato su operazioni inesistenti in ragione del diverso regime probatorio in sede tributaria e penale in relazione all’onere della prova.

3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1 e art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 109, comma 5 del TUIR e art. 39, comma 1, nonchè degli artt. 2729 e 2697 c.c. e dei principi indicati dalle sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 12.1.2006 (in cause C – 354/03, 355/023 e 484/2003) e 6.7.2006 (in cause c439/04 e 440/04), per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che spettasse all’Ufficio fornire la prova che “l’esistenza delle operazioni fosse a sua volta frutto di una attività preordinata all’evasione fiscale, cioè di operazioni fatte “di proposito” proprio al fine di supportare le fatture”, in contrasto con i principi di derivazione comunitaria per cui, una volta che l’Amministrazione abbia fornito la prova anche presuntiva della inesistenza della operazione, quale quella derivante dalla natura di “cartiere” delle società emittenti le fatture, spetta al contribuente, in base ai principi generali, l’onere della prova della infondatezza della pretesa, senza che abbia alcun rilievo la “partecipazione del contribuente alla dolosa preordinazione con atti aventi lo scopo esclusivo o preminente di realizzare la evasione tributaria”, essendo invece sufficiente la mera consapevolezza – effettiva ovvero colposa, ossia superabile con l’uso della normale diligenza – di entrare in una frode orchestrata da altri.

4. Infine, con il quarto ed ultimo motivo si deduce, in una prospettiva subordinata rispetto al terzo motivo, la insufficienza della motivazione con riguardo ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, non preso in esame dalla sentenza impugnata, costituito dalla natura di “cartiere” delle società emittenti le fatture, come emergente dall’accertamento e dal pvc della Guardia di Finanza, trascritti nel ricorso, da cui emergeva la assenza di strutture, magazzini, mezzi, dipendenti, persino sedi e reperibilità delle suddette società, la loro inesistenza fiscale, la estrema genericità delle fatture e la totale assenza di documenti (quali contratti, lettere o altro), a supporto delle stesse, non rinvenuti in alcun luogo, da cui poteva desumersi la mancanza di buona fede e di diligenza della società contribuente, dovendo il contribuente onesto avvedersi della anomalia delle trattative svolte con società irreperibili e prive di mezzi.

5. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente poichè aggrediscono le due ragioni giustificatrici della decisione della sentenza impugnata – e cioè la assoluzione in sede penale del legale rappresentante della società ricorrente e la mancanza di produzione di documentazione da parte della Agenzia delle Entrate comprovante la preordinazione dolosa delle operazioni alla evasione – e sono fondati.

5.1. Risulta dalla trascrizione dell’atto di appello, contenuta nel ricorso per cassazione (da pag. 5 a pag. 11), al quale è altresì allegato l’atto di appello, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, che la Agenzia delle Entrate, a fronte dell’annullamento dell’accertamento operato dal primo giudice, aveva contestato specificamente la decisione che aveva ritenuto reali le operazioni, non solo sotto il profilo della irrilevanza della sentenza di non doversi procedere in sede penale del legale rappresentante della società dal reato di frode fiscale, ma anche con riguardo alla presentazione, da parte della Amministrazione Finanziaria, in sede di pvc e di accertamento, di una serie rilevante di prove, risultanti dalle complesse indagini svolte dai verificatori, che dimostravano come le cinque società che avevano emesso le fatture relative ad operazioni ritenute inesistenti svolgevano quasi sempre, in base allo statuto, attività diversa da quella edile (cui si riferivano le fatture) ed erano prive di qualsiasi struttura, sede, organizzazione, personale, contabilità, non risultavano avere mai avuto alcun contatto con la ADL, mentre le fatture emesse all’apparenza da tali cinque società erano estremamente generiche, non consentivano di comprendere quale fosse stata la prestazione e non erano accompagnate dal alcun contratto, corrispondenza o altra documentazione giustificativa della prestazione ed, infine, i loro legali rappresentanti, laddove reperiti dopo complesse indagini, avevano dichiarato ai verificatori di non avere emesso le fatture, di non avere effettuato alcuna prestazione in favore della ADL e di non avere ricevuto corrispettivi.

5.2. Orbene, in presenza di tale atto di appello, estremamente complesso ed articolato, ricco di richiami alle indagini svolte, alle prove concrete raccolte ed alle modalità della loro raccolta ed anche alle dichiarazioni rese da terzi, fra cui gli amministratori delle società “fantasma”, ove reperiti dopo complicati accertamenti (che la sentenza di appello ha qualificato, sinteticamente, “non specifico” senza peraltro riportarne in alcun modo il contenuto in alcuna sua parte), la sentenza di appello ha risposto che esisteva la assoluzione in sede penale e che l’Ufficio non aveva prodotto la documentazione comprovante una attività della società ricorrente preordinata alla evasione fiscale e cioè ad operazioni fatte di proposito al fine di evasione.

5.3. In proposito, premesso che si tratta di vizio dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione precedente alla modifica introdotta per effetto del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. n. 143 del 2012, per cui può essere dedotta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e che quindi il vizio di motivazione, secondo la interpretazione che ne dato questa Corte, deve riguardare un fatto inteso in senso storico – naturalistico e deve consistere in motivazione inesistente o quanto meno obiettivamente carente in ordine all'”iter” logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata, nella specie vengono in effetti dedotte carenze motivazionali, al limite della assenza della motivazione anche in senso grafico, con riguardo alle due ragioni giustificatrici della pronuncia di annullamento dell’accertamento impugnato, considerato che la sentenza impugnata indica la assoluzione penale e la mancanza di documentazione da parte dell’Ufficio, ma non viene spiegato in alcun modo quale potrebbe essere la rilevanza e la incidenza del provvedimento penale di improcedibilità nei confronti del legale rappresentante della società per il reato di frode fiscale e quale documentazione sarebbe stata attesa da parte della Agenzia delle Entrate, in assenza, pure, di qualsiasi esame dell’elaborato atto di appello e della documentazione prodotta dalla Agenzia delle entrate ed in particolare del pvc che indicava le numerose ed articolate prove raccolte in sede procedimentale, trascritte dettagliatamente nell’atto di appello.

5.4. In particolare, poi, a fronte della deduzione dell’Ufficio per cui la assoluzione penale era irrilevante, la sentenza impugnata niente la dedotto con riguardo al principio consolidato per cui, in effetti, “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste” (e, nella specie, secondo quanto riportato dalla sentenza impugnata, si sarebbe trattato di pronuncia di improcedibilità e, non, invece, di sentenza penale definitiva di assoluzione), non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare” (v., per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17258 del 27/06/2019 Rv. 654693 – 01), limitandosi a richiamare tale pronuncia, senza dedurne il contenuto e la valenza ai fini dell’accertamento tributario; e niente ha dedotto neppure con riguardo al fatto che l’accertamento era basato sul fatto storico che le fatture contestate erano state emesse da società “cartiere”, delle quali non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata che neppure indica, in alcuna sua parte, quale fosse stato il fatto storico da cui scaturiva l’accertamento. E ciò pur in presenza di una giurisprudenza ugualmente consolidata di questa Corte, richiamata specificamente nell’appello, al quale la sentenza avrebbe dovuto dare risposta, per cui una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma”) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17619 del 05/07/2018 Rv. 649610 – 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 27554 del 30/10/2018 Rv. 651216 – 01).

5.5. Sussiste quindi il vizio di motivazione, dedotto nella specie, ratione temporis, essendo stata la sentenza di appello pubblicata in data 20 aprile 2011, sulla base della formulazione previgente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poichè la sentenza impugnata non si è confrontata in alcun modo con i fatti storici dedotti dall’Ufficio, come sopra indicati, ma di cui non ha tenuto alcun conto ai fini della decisione ed in particolare del fatto che le società emittenti la fatture erano società “fantasma”, essendo inesistenti nella sede dichiarata ed in qualsiasi altra sede ed essendo altresì prive di qualsiasi struttura, organizzazione o dipendenti ed anche fiscalmente, non avendo presentato alcuna dichiarazione fiscale e tanto meno versato alcuna imposta, il che era un fatto rilevante e decisivo per il giudizio ai fini della prova della circostanza che la società emittente era una società “fantasma” e quindi della qualificazione come inesistente della operazione, sulla base della consolidata giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata.

5.6. Pur con riferimento alla giurisprudenza più rigorosa per cui il vizio motivazionale previsto dal n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nella formulazione previgente della norma, richiede che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, nel caso in esame si è, infatti, in presenza, non già di una motivazione meramente insufficiente, bensì di una motivazione pretermessa ed anche di motivazione “perplessa” ed “obiettivamente incomprensibile” con riguardo alla mancata prova, da parte dell’Ufficio, della preordinazione delle operazioni fiscali, ad opera della contribuente, alla evasione fiscale, circostanza non richiesta dalla legge e che non risulta essere stata neppure oggetto del dibattito processuale, trattandosi piuttosto di una “osservazione” della sentenza del tutto anomala ed estranea all’oggetto del contendere.

6. Anche il terzo motivo è fondato -il che assorbe l’esame del quarto motivo proposto in via subordinata – poichè la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che spettasse all’Ufficio dimostrare che si trattava di una attività preordinata alla evasione fiscale e cioè di operazioni fatte “di proposito” proprio al fine di supportare le fatture, ha violato i principi giuridici che presiedano la materia delle operazioni inesistenti, nonchè le regole sull’onere della prova, pretendendo dall’Ufficio la prova della preordinazione dolosa, da parte della ricorrente, delle operazioni inesistenti alla evasione fiscale, che invece non è prevista dalla norma interna e che non ha trovato supporto neppure nella normativa comunitaria.

6.1. Appare in primo luogo, anche in tal caso, corretta la deduzione del vizio per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè, in tema di ricorso per cassazione, tale vizio consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017 Rv. 646811 – 01; Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/07/2010 Rv. 614588 – 01), come avvenuto nella specie, considerato che il motivo di ricorso pone proprio una questione di erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta, relativa a operazioni ritenute inesistenti dall’Ufficio ai fini fiscali e della interpretazione della regola che ne disciplina la prova, ancor prima ed indipendentemente dalla ricostruzione della fattispecie concreta che spetta esclusivamente al giudice di merito e su cui comunque la Agenzia ricorrente si è soffermata solo ai fini della ricognizione dei fatti della causa strumentali rispetto alle doglianze relative alla erroneità dei principi giuridici applicati dalla sentenza impugnata, in assenza, quindi, della mediazione derivante dalla valutazione delle risultanze di causa.

6.2. Il vizio di violazione di legge è stato correttamente posto dalla Agenzia ricorrente anche con riguardo alla violazione dell’art. 2697 c.c. che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01), poichè, trattandosi della prova della inesistenza oggettiva della operazione, l’onere di dimostrare la inesistenza della operazione spettava certamente all’Ufficio, come dallo stesso riconosciuto in sede di appello ed anche in sede di ricorso per cassazione, però alla stregua dei criteri indicati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, propri dell’accertamento adottato nel caso in esame, che sono quelli presuntivi, di fronte ai quali incombeva al contribuente, proprio ex art. 2697 c.c., offrire la prova contraria.

6.3. Alla luce di tali principi il giudice di merito ha nella sostanza operato una inversione di tale onere laddove ha ritenuto, attraverso la frase: “l’Ufficio non ha fornito la documentazione comprovante l’esistenza delle operazioni fosse a sua volta frutto di una attività preordinata alla evasione” (il che sembra evocare, nonostante la scarsa tecnicità della espressione, di per sè scarsamente comprensibile secondo il proprio tenore letterale e grammaticamente scorretta nell’insieme, la necessità della prova di un proposito diretto alla evasione) che spettasse all’Ufficio provare che le operazioni inesistenti fossero state preordinate dalla contribuente alla evasione fiscale, nell’ambito, quindi, di una sorta di prova vincolata di cui non vi è traccia nella normativa in esame.

6.3. E’ infatti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, al quale si ritiene di dare continuità in questa sede, per cui, in tema di IVA, ma anche di imposte sui redditi, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasmà) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17619 del 05/07/2018 Rv. 649610 – 01; Sez. 5 Ordinanza n. 27554 del 30/10/2018 Rv. 651216 – 01). E’ stato altresì chiarito che l’onere della Amministrazione Finanziaria di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere è assolto con la indicazione dei relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18118 del 14/09/2016 Rv. 641109 – 01), che il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente (v. Sez. 5, Sentenza n. 17977 del 24/07/2013 Rv. 628292 – 01); dal che risulta evidente l’errore in cui è incorsa la sentenza impugnata laddove ha preteso dall’Ufficio, che aveva dimostrato la natura di società “cartiere” delle emittenti delle fatture, una prova ulteriore che sarebbe invece spettata al contribuente.

6.4. E pure con riguardo alla pretesa che spettasse all’Ufficio dimostrare la attività preordinata alla evasione la sentenza impugnata è incorsa in violazione di legge. Anche nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è infatti onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode. La dimostrazione può però essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto (nella specie di leasing immobiliare), il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (v., Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019 Rv. 653071 – 01; Cass. N. 21953 del 2007 Rv. 599228 – 01; N. 27566 del 2018 Rv. 651269 – 01; N. 9108 del 2012 Rv. 622994 – 01); null’altro richiedendosi se non la dimostrazione, anche presuntiva, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente, per cui, ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269 – 01).

6.5. Tali principi, applicabili in base alla normativa interna, trovano poi conforto ulteriore nella interpretazione comunitaria, per cui, in tema di IVA, il diritto del contribuente alla relativa detrazione costituisce principio fondamentale del sistema comune Europeo – come ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (sentenze 6 luglio 2006, in C-439/04 e C-440/04, 6 dicembre 2012, in C-285/11, 31 gennaio 2013, in C642/11) – e non è suscettibile, in linea di principio, di limitazioni. Ne consegue che l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga che il diritto debba essere negato attenendo la fatturazione ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che le operazioni non sono state effettuate o, nella seconda ipotesi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24426 del 30/10/2013 Rv. 629419 -01).

7. Ai principi di diritto sopra indicati, discendenti anche da una giurisprudenza consolidata di questa Corte e della Corte di Giustizia, non si è attenuta la sentenza impugnata, che deve essere quindi cassata, con rinvio della causa per nuovo esame a diversa sezione della CTR del Lazio che dovrà prendere in esame i motivi di appello proposti dalla Agenzia delle Entrate e decidere sugli stessi alla luce di principi di diritto sopra enunciati con riguardo alla divisione dell’onere della prova in materia di operazioni inesistenti provenienti da società “fantasma” e della prova del fatto che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della Commissione Tributaria Regionale del Lazio.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

 

 

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