Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26481 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 20/11/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 20/11/2020), n.26481

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7704/2014 R.G. proposto da:

GIGA s.r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso,

dall’Avv. Alfonso Mandara, elettivamente domiciliati presso lo

studio dell’Avvocato FLORANGELA MARANO, in Roma, Piazzale Clodio n.

61;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

-controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania n. 465/07/2013, depositata il 28 ottobre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2020 dal Consigliere Dot. D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della Giga s.r.l, a ristretta base partecipativa, che gestiva un supermercato, per l’anno 2007, ai fini Ires per Euro 171.097,00, Irap per Euro 27.220,00 ed Iva per Euro 49973,00, sulla base di quattro rilievi:1)ricavi omessi per Euro 157.306,00 per violazione del principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, con riferimento all’utilizzo dei buoni pasto da parte dei clienti del supermercato nel corso del 2007, non potendo rilevare il momento della successiva fattura emessa da parte del supermercato alla società emittente dei buoni pasto emessa nel 2008;2)ricavi omessi per Euro 177.965,00 in quanto i finanziamenti dei soci per Euro 335.000, come contabilizzati, in realtà rappresentavano dei ricavi occultati, avendo la società la disponibilità liquida, senza la necessità di un apporto dei soci (Euro 335.000,00 – Euro 157.306,00);3)costi non di competenza per Euro 17.965,00; 4)costi non di competenza per Euro 8.206,00.

2.La Commissione tributaria provinciale di Napoli n. 407/46/2012, depositata il 4-0-2012, rigettava il ricorso in quanto la contabilizzazione dei ricavi doveva seguire il principio della competenza, ossia il tempo della cessione del bene, anche se la fattura veniva emessa successivamente. Inoltre, la società aveva una “cospicua disponibilità finanziaria” che non giustificava i versamenti dei soci a titolo di finanziamento. I soci, poi, non erano in possesso di somme tali da giustificare l’entità dei finanziamenti. La società, poi, aveva indicato tra i costi del 2007 fatture aventi ad oggetto acquisti avvenuti nell’anno precedente (2006) o nell’anno successivo (2008).

3.La Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello della società ritenendo condivisibile la motivazione dei giudici di prime cure, evidenziando in particolare che “la società non ha annotato gli importi di cui alle fatture risultanti dai corrispettivi incassati e le stesse non richiamano i buoni pasto offerti in pagamento alla contribuente società e, pertanto, appare legittimo l’operato dell’Ufficio nell’aver recuperato quanto accertato”.

4.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, depositando anche memoria scritta.

5.Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

6.La Procura Generale depositava conclusioni scritte ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione di legge per erronea e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (per violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, in quanto vi è stata violazione del divieto della doppia tassazione, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163. Infatti, la presunta violazione del principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 1, non ha prodotto alcuna evasione, trattandosi, non di ricavi sottratti a tassazione ma, al contrario, comunque dichiarati in esercizio diverso da quello accertato. In particolare, nel contratto di somministrazione la fattura può essere emessa all’atto del pagamento dei corrispettivi, non rilevando il momento della cessione dei singoli beni, come da risoluzione ministeriale n. 501023 del 28 giugno 1973. Il pagamento del corrispettivo è avvenuto all’epoca di emissione della fattura dal supermercato alla società gestrice dei ticket, successivamente alla cessione dei beni ai consumatori. Trattasi di operazione trilaterale, in cui al venditore certo (supermercato) si contrappongono due soggetti diversi: da un lato il “certo” cessionario dei beni, ossia il consumatore destinatario della merce, e dall’altro il reale pagatore del corrispettivo, ossia la società gestrice del ticket buoni pasto, che non ha ancora assunto l’obbligo del pagamento ed è quindi “incerto”. Ai fini della individuazione dell’esercizio di competenza, dunque, rileva il momento in cui la società gestrice del ticket, autorizzando l’emissione della fattura, per il pagamento degli scontrini ticket, assume di fatto l’impegno per le proprie obbligazioni. Ciò rileva ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, n. 4, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3 e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b) (fattura da emettere all’atto della maturazione del corrispettivo). Il requisito della “certezza” si è manifestato solo in corrispondenza della autorizzazione della società gestrice dei ticket alla emissione della relativa fattura da parte del supermercato. Il totale degli scontrini non riscossi nel 2007 era di Euro 547.269.00. Le fatture del 2007 erano di Euro 384.525,00, cui dovevano essere aggiunte le fatture del 2008 per Euro 54.357,36, con sottrazione di quelle del gennaio 2007 perchè attinenti ad altra annualità (Euro 127.058,00), per la somma complessiva di Euro 311.824,36, con iva del 10 % (Euro 31.182,36), per un totale di Euro 343.006,44, al lordo dello sconto dunque Euro 374.213,50.

Dall’importo degli scontrini non riscossi per Euro 547.269,00 è stato, poi, detratto l’importo di Euro 374.213,50 relativo alle fatture del 2007, residuando così la somma di cui al primo rilievo di Euro 173.035,50 (Euro 157.305,00 oltre Iva al 10 per Euro 15.730,50), con duplicazione delle fatture sia del gennaio 2008 che del gennaio 2007. La sentenza della Commissione regionale sarebbe “non sufficientemente motivata”. Inoltre “le argomentazioni della ricorrente non sono state sufficientemente esaminate e valutate dalla CTR adita”. Si aggiunge che, con riferimento ai finanziamenti dei soci, ritenuti non giustificati dalla discreta disponibilità finanziaria di cui godeva la società, non si è tenuto conto della disponibilità dei soci che ammontava negli anni 2003/2007 a complessivi Euro 392.820,33. Non è stata, dunque, “per nulla esaminata la documentazione addotta che al contrario giustifica la corretta disponibilità finanziaria dei soci”.

La determinazione analitica dei ricavi e dei costi, poi, esclude la determinazione presuntiva o induttiva. I finanziamenti dei soci, peraltro, costituiscono solo un indizio non sufficiente ed esaustivo per contestare l’omissione dei ricavi.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione di legge per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, non potendo essere condivisa l’argomentazione per cui la discreta disponibilità finanziaria della società non giustificava i finanziamenti dei soci. Le ulteriori risorse dei soci, infatti, hanno trovato piena giustificazione in quanto destinate al pagamento dei fornitori, per importi adeguati al volume di affari della contribuente (Euro 6.038.576,00). Su tale aspetto non v’è alcuna considerazione.

2.1. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, anche perchè entrambi fondati sia su violazioni di legge che su vizi di motivazione, nonostante la doppia decisione dei giudici di merito “conforme”, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

2.2. Invero, la sentenza della Commissione regionale è stata depositata il 2810-2013, sicchè trova applicazione il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. 83 del 2012, in vigore per le sentenze depositate a decorrere dall’11. settembre 2012.

Pertanto, il vizio della motivazione può essere censurato solo per omesso esame di un fatto decisivo e controverso nel giudizio, ma non per insufficiente motivazione, come adombrato dalla ricorrente in più passaggi del ricorso per cassazione.

Infatti, per questa Corte la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

Pertanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., sez. 3, 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., sez. 6-3, 25 settembre 2018, n. 22598).

2.3.La censura sulla motivazione della sentenza impugnata è consentita solo per omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti. Nella specie, l’intero secondo motivo di impugnazione, tra l’altro, contradittoriamente rubricato come “violazione di legge” per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, non indica alcun fatto il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di appello, limitandosi ad una mera lamentale circa la “ulteriore argomentazione” dell’ufficio sulla “discreta disponibilità finanziaria” di cui godeva la società al momento della concessione dei finanziamenti da parte dei soci. Secondo la ricorrente, invece, il giro di affari della società avrebbe giustificato tali finanziamenti. Non v’è, come si nota, alcun contestazione in ordine alla mancata valutazione di fatti decisivi per il giudizio.

2.4.Va ancora osservato che la disciplina impugnatoria da applicare era quella successiva al D.L. n. 83 del 2012, che ha inserito gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., con l’introduzione del divieto di impugnazione sotto il profilo della motivazione in caso di doppia decisione di merito “conforme”, ossia fondata sui medesimi fatti. Infatti, per questa Corte nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal citato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 1, 22 dicembre 2016, n. 26774; Cass., sez. 5, 11 maggio 2018, n. 11439; Cass., 6 agosto 2019, n. 20994).

Nella specie, l’appello risulta depositato il 20-12-2012, sicchè è sicuramente successivo all’11 settembre 2012, con conseguente applicazione dell’art. 348 ter c.p.c..

La sentenza di prime cure, che è stata integralmente trascritta nel ricorso per cassazione, si fonda su una motivazione completa che richiama sia il principio di competenza di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, facendo riferimento al momento della effettuazione della prestazione (definita in realtà “cessione” del bene), quanto alle fatture emesse per i buoni pasto, sia al mancato possesso di somme sufficienti da parte dei soci per effettuare il finanziamento alla società. La sentenza di appello ha confermato in toto la decisione di primo grado proprio tenendo conto della mancata annotazione degli importi di cui alle fatture al momento della effettuazione della prestazione, mentre la società li aveva indicati solo nell’anno della emissione delle fatture da parte del supermercato.

2.5.Quanto alla deduzione dell’errore di diritto e della prospettata doppia imposizione cui sarebbe stata assoggettata la società, si rileva che il rapporto tra il supermercato e la società che gestisce i ticket è di prestazione di servizi, con conseguente applicabilità del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3. Invero, le aziende emettitrici dei buoni pasti, sono società che producono, controllano e gestiscono la distribuzione di buoni pasto. Le aziende acquistano i buoni pasto dalle aziende emettitrici e li danno ai propri dipendenti per coprire le spese che essi sopportano durante la pausa pranzo. Gli esercizi convenzionati con le società “emettitrici”, come i supermercati, sono disposti ad accettare i ticket dagli utilizzatori, in tal modo fidelizzando la clientela. I supermercati, una volta incassato il buono lo presentano alla società “emettitrice” che rimborsa un corrispettivo che è diverso (inferiore) al valore nominale del buono. Gli esercizi commerciali, dunque, ricevono, sulla base della convenzione, un rimborso del valore del buono pasto, meno una percentuale definita nel contratto di convenzione. Questa percentuale è trattenuta dalle società che emettono i buoni pasto in cambio del servizio di intermediazione reso.

Del resto, nel ricorso per cassazione la società fa riferimento espresso a “contratti di somministrazione,” che mal si conciliano con la mera cessione di beni del supermercato ai propri clienti, ed a contratti “in convenzione con le società gestrici dei ticket” (cfr. pagina 6). Le norme invocate dalla società, poi, attengono proprio alle prestazioni di “servizi” (D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2, lett. b; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, n. 4 – prestazioni di servizi-; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3.

Pertanto, la prestazione è effettuata al momento della accettazione del buono rilasciato dai clienti da parte del supermercato che, in base alla convenzione stipulata con l’azienda che emette i buoni pasto, emette poi fattura nei confronti della stessa per ottenere il rimborso che è, però, decurtato di una determinata percentuale. Con l’accettazione dei buoni pasto il supermercato espleta la propria attività nei termini di cui alla convenzione (dando così esecuzione alla convenzione) e la società che emette i buoni pasto matura la provvigione per il servizio espletato di intermediazione.

2.6.SuI punto deve evidenziarsi che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 prevede che “le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo”.

2.7.Tuttavia, tale disposizione è stata oggetto di esame da parte di questa Corte, a sezioni unite (Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059, che ha superato le precedenti decisioni di cui a Cass., sez. 1, 26 ottobre 1995, n. 11150; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2009, n. 3976; peraltro vedi ancora la recente Cass., sez. 5, 7 settembre 2018, n. 21870 non collimante con le sezioni unite).

E’ stata sconfessata, infatti, la tesi per cui vi sarebbe stata, per le prestazioni di servizi, una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione di servizi. Per la contribuente, infatti, il verificarsi del presupposto oggettivo dell’imposizione Iva coincide di regola, non con il momento della relativa materiale esecuzione, ma con quello del pagamento totale o parziale del corrispettivo. Tale lettura del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 3, però, secondo questa Corte confligge con la disciplina comunitaria dell’Iva. Infatti, sia la sesta direttiva Iva 77/388/CEE (art. 10, primo e comma 2), sia l’attuale direttiva Iva 2006/112/CE (artt. 62, 63 e 66) chiariscono che il fatto generatore dell’imposta si identifica con l’effettuazione della cessione dei beni ovvero con quella della prestazione dei servizi, il cui verificarsi determina anche l’esigibilità dell’imposta. Deve farsi, allora, riferimento al dato del materiale espletamento dell’operazione, e non a quello del pagamento del corrispettivo (Corte UE, 19 dicembre 2012, in causa c-549/11, proprio in relazione alla prestazione di servizi). Pertanto, tale disciplina unionale osta a che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6 sia letto nel senso che, per le prestazioni di servizi, il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità a fini Iva, si verificano, non con l’esecuzione della prestazione, bensì, successivamente, con il pagamento del corrispettivo correlativamente pattuito. 2.8.Inoltre, si rileva che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., sez. 5, 2 febbraio 2007, n. 2272).

Nella specie, la società chiede una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, già compiuta dal giudice di merito in modo congruo, non consentita in questa sede.

Peraltro, l’Ufficio ben può utilizzare il metodo analitico per determinare alcune voci dei ricavi ed il metodo induttivo per accertarne delle altre, senza che vi sia alcuna inconciliabilità logica al riguardo.

2.9.Quanto alla dedotta violazione del divieto di doppia imposizione, anche sotto il profilo della violazione della regola sulla individuazione dell’esercizio di competenza, in relazione ai finanziamenti asseritamente effettuati dai soci, il motivo è infondato nel merito.

Infatti, per questa Corte grava sul contribuente la prova in ordine alla effettiva sussistenza dell’avvenuto finanziamento dei soci (Cass., sez. 5, 7 giugno 2017, n. 14066; Cass., sez. 5, 27 aprile 2018, n. 10228), mentre il finanziamento esposto in bilancio non ha il requisito della certezza, non risultando l’adozione di una specifica delibera assembleare (in questo senso cfr. Cass. 27 ottobre 2017, n. 25578, che ha evidenziato anche che il finanziamento contabilizzato non risultava essere stato impiegato in occasione della copertura di perdita o debiti della società).

Inoltre, si è anche affermato che l’effettività di un finanziamento dei soci non può desumersi solo dalla affermata capacità di spesa (e quindi da un fatto solo potenzialmente idoneo allo stesso), non essendo sufficiente la asserita disponibilità di liquidità a dimostrare l’effettività del finanziamento (Cass., sez. 5, 19 giugno 2015, n. 12764).

Tra l’altro, i finanziamenti infruttiferi, ove non giustificati, possono essere considerati ricavi in nero, senza che occorrano ulteriori indizi (Cass., 7 giugno 2017, n. 14066).

Uno solo indizio, se grave e preciso, può dimostrare la sussistenza di ricavi occultati.

2.10.Quanto alla deduzione in ordine alla violazione del divieto di doppia imposizione, per questa Corte, in tema di reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109), sono inderogabili, non essendo consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, così da alterare il risultato della dichiarazione; nè l’applicazione di detto criterio implica di per sè la conseguenza, parimenti vietata, della doppia imposizione, che è evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 c.c., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (Cass., sez. 5, 10 marzo 2008, n. 6331; Cass., sez. 5, 24 gennaio 2013, n. 1648).

3.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della società, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

 

 

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