Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26471 del 19/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 19/10/2018, (ud. 07/02/2018, dep. 19/10/2018), n.26471

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16356-2013 proposto da:

R.G., (OMISSIS), domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato PIERGIACOMO LA VIA, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

G.M., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

COSTABELLA 23, presso l’avvocato IRENE GIUSEPPA BELLAVIA (Studio

legale Lavitola), rappresentata e difesa dall’avvocato CONCETTO

FERRAROTTO, giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 660/2012 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 02/01/2013 r.g. n. 672/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MICHELE VENTURIELLO per delega verbale Avvocato

PIERGIACOMO LA VIA.

Fatto

FATTI di CAUSA

Con ricorso in data 8 luglio 2006 R.G. esponeva di aver lavorato su incarico e alle dipendenze del defunto sacerdote R.L., svolgendo mansioni di pulizia della casa, di cura e assistenza dell’intera famiglia e successivamente dopo la morte dei genitori di R.L., occupandosi dell’assistenza di quest’ultimo; che detta attività si era svolta dal 1986 sino al decesso dello stesso R.L.; che aveva percepito una retribuzione non adeguata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto, nonchè inferiore a quanto previsto dai contratti collettivi di categoria; che con testamento olografo del 24 febbraio 2003, pubblicato il 25 maggio 2004, R.L. aveva nominato suoi eredi G.M. ed altri; tanto premesso, R.G. conveniva in giudizio davanti al giudice del lavoro di Nicosia la suddetta G. e gli altri coeredi, chiedendone la condanna in solido al pagamento della complessiva somma di Euro 234.880,760 oltre accessori.

Instauratosi il contraddittorio, G.M. resisteva alle pretese avversarie ed eccepiva, inoltre, nel corso del giudizio, all’udienza del 1 luglio 2009 per la prima volta il fatto di essere legataria, e non già erede del dante causa.

Il giudice adito con sentenza del 17 marzo – 22 aprile 2010 condannava la convenuta G. al pagamento della somma di Euro 137.401,83 oltre accessori, nonchè al rimborso delle spese di lite, mentre rigettava la domanda nei confronti degli altri convenuti.

Tale pronuncia veniva impugnata dalla G. e la Corte d’Appello di Caltanissetta con sentenza n. 660 in data 28 novembre 2012 – 2 gennaio 2013 riformava la gravata decisione, rigettando la domanda proposta dall’attrice Ragusa nei confronti dell’appellante “per difetto di legittimazione passiva di quest’ultima”, dichiarando peraltro interamente compensate tra le parti le spese relative ad entrambi i gradi del giudizio.

La Corte territoriale richiamava, in particolare, la citata giurisprudenza di legittimità, secondo cui nella controversia promossa dal lavoratore contro gli eredi del datore di lavoro, per il conseguimento di compensi relativi al suo progresso rapporto, la negazione da parte di uno dei convenuti della propria qualità di erede non configura un’eccezione in senso proprio, bensì una mera deduzione difensiva (attinente ad un fatto integrativo della pretesa creditoria, con relativo onere a cura di parte attrice), la quale pertanto non soggiace in primo grado alle preclusioni di cui all’art. 416 c.p.c. e in appello a quelle di cui all’art. 437 cit. codice. Anche la più recente giurisprudenza (Cass. n. 28141 del 2005, che richiamava tra l’altro la pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte in data 3 febbraio 1998 numero 1009) aveva ribadito il principio, condiviso quindi dalla Corte distrettuale, secondo cui la deduzione di non essere eredi, ma soltanto legatari, non integra un’eccezione in senso proprio. Pertanto, nel caso di specie “l’eccezione di difetto di legittimazione passiva proposta in primo grado dall’appellante non può (poteva) essere considerata tardiva e deve (doveva) essere, pertanto, esaminata nel merito”. In proposito, dunque, richiamato l’art. 588 c.c. (Disposizioni a titolo universale e a titolo particolare. – 1. Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario. 2. L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio), con riferimento alla institutio ex re certa, nella specie alla stregua del riportato testamento olografo del 24 febbraio 2003, il collegio giudicante – con varie dettagliate considerazioni in punto di fatto – riteneva che la volontà genuina ed intima del de cuius, quale risultante dal testamento, sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, fosse quella di attribuire soltanto un mero legato a favore della G., non emergendo alcuna istituzione di erede per l’appellante. Peraltro, la medesima statuizione era stata adottata dal giudice di primo grado nei confronti della parrocchia di (OMISSIS), parimenti convenuta in giudizio dalla R., in quanto beneficiarla di analoga disposizione testamentaria (biblioteca) e detta statuizione non era stata impugnata da parte attrice, la quale aveva così condiviso la qualifica di legataria riconosciuta alla parrocchia.

Pertanto, a giudizio della Corte territoriale, G.M., in quanto mera legataria non era tenuta ai sensi dell’art. 756 c.c. a pagare i debiti ereditari, sicchè in riforma dell’impugnata sentenza la domanda di parte attrice contro l’appellante andava rigettata “per difetto di legittimazione passiva”.

Avverso la pronuncia della Corte d’Appello ha proposto ricorso per cassazione R.G. come da atto notificato il 29 giugno 2013, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la G. mediante controricorso in data 8 agosto 2013. La sola ricorrente, infine, ha da ultimo depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso possono sintetizzarsi nei seguenti termini:

1^ motivo – omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio che aveva formato oggetto di discussione – art. 360 c.p.c., n. 5 – violazione e o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) ed in particolare degli artt. 81 e 100 c.p.c. – “rapporto sostanziale” e non “carenza di legittimazione passiva”. Infatti, nell’impugnata pronuncia non era stata affrontata la questione, sollevata dalla R., giusta la memoria difensiva di costituzione in appello, sulla circostanza che l’eccezione avversaria non riguardava la “carenza di legittimazione passiva” sulla “veste” di legataria e non già di erede, bensì il “merito” e la “titolarità del rapporto sostanziale” controverso. Non si trattava, dunque, secondo la ricorrente, di eccezione procedurale attinente alla legitimatio ad causam, come tale rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, ma di eccezione di merito, perciò soggetta al potere dispositivo delle parti ed alle conseguenti preclusioni di rito, di guisa che andava opposta a pena di decadenza con la memoria difensiva in primo grado;

2 motivo – violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3), in particolare dell’art. 416 c.p.c. – erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui era stata accolta l’eccezione erroneamente qualificata come “carenza di legittimazione passiva”. La giurisprudenza richiamata nell’impugnata sentenza riguardava il caso del convenuto contumace in primo grado, costituitosi poi soltanto in sede di gravame, ben diverso dall’ipotesi in cui, come nella specie verificatosi, la parte convenuta si costituisca in giudizio, non contestando la propria qualità di erede con la memoria di cui all’art. 416 c.p.c., anzi accettando il contraddittorio sul punto e sollevando questioni di altra natura. Di conseguenza, nella decisione di secondo grado andava posto a fondamento il fatto, costituto dalla qualità di erede della convenuta, non specificamente contestato. Il comportamento processuale osservato dalla convenuta, oltre che contraddittorio, risultava assolutamente incompatibile con la successiva contestazione della qualità di erede, laddove tenuto altresì conto dell’art. 115 c.p.c., parte convenuta nemmeno avrebbe potuto sottrarsi al c.d. onere di contestazione. Del resto, il primo giudicante aveva applicato l’orientamento giurisprudenziale (Cass. Sez. 2, sentenza n. 4381 del 23/02/2009) secondo cui l’onere di provare la qualità di erede, incombente su colui che agisce in tale qualità, viene meno quando la controparte abbia tardivamente sollevato eccezioni in proposito, dopo aver accettato il contraddittorio senza alcuna contestazione al riguardo;

3 motivo – ulteriore violazione di norme di diritto ed in particolare degli articoli 588 e 647 (istituzione di erede gravato da onere accessorio) c.c. ex art. 360 c.p.c., n. 3, contestandosi sul punto quanto ritenuto dalla Corte di merito a proposito dell’anzidetto testamento olografo, per cui era stata ritenuta la natura di legato circa la disposizione testamentaria a favore della G., laddove, secondo la ricorrente, avuto riguardo a parte della scheda testamentaria non presa in considerazione dai giudici di appello, risultava evidente l’istituzione di eredità a favore della G. in ordine alla quota del patrimonio del de cuius, peraltro della maggior parte della quota dell’intero asse ereditario, atteso che proprio la manifestazione di volontà di cui al testamento olografo il dante causa aveva inteso disporre dei suoi beni. Pertanto, la G. era identificabile come vero e proprio successore a titolo universale, al più come erede gravata da onere accessorio, norma di legge anch’essa violata dai giudici di appello, laddove occorreva ad ogni modo aver riguardo alle previsioni di cui all’art. 588 c.c., comma 2 sicchè occorreva esaminare la scheda testamentaria nel suo complesso al fine d individuare la reale intenzione del de cuius, rilevando sul punto che la G. risultava beneficiaria e destinataria della maggior consistenza immobiliare, nonchè di una rendita annua perpetua, perciò occorrendo un’indagine di carattere oggettivo riferita al contenuto dell’atto ed una di carattere soggettivo, riguardante l’intenzione del testatore. Per giunta, la G. aveva accettato pure l’eredità, visto che con l’intervenuta costituzione in giudizio vi era stata accettazione tacita ex art. 476 c.c.. Sussistevano, invero, atti e comportamenti che presupponevano necessariamente la volontà di accettare l’eredità, di fatto quindi accettata. Dunque, la sentenza impugnata aveva violato i principi di diritto vigenti in tema d’interpretazione del testamento ovvero di ricerca della reale intenzione del de cuius e degli elementi di valutazione della stessa;

4 motivo, in linea ancora più subordinata, violazione e falsa applicazione degli artt. 495,499,512,513,756,588,668 e 671 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Nel caso in cui fosse stata riconosciuta corretta la disposizione a favore della G. in termini di legato, la Corte d’Appello aveva errato laddove aveva ritenuto che, essendo l’appellante mera legalitaria, non sarebbe stata tenuta a pagare i debiti ereditari, trattandosi di motivazione che violava i principi di diritto in tema di pagamento dei creditori, così come previsti dagli artt. 495,512,513,668 e 671 c.c., i quali non comportano la trasformazione del legatario in debitore, ma escludono tuttavia che il legislatore abbia potuto individuare una irresponsabilità assoluta del legatario. La funzione delle suindicate norme è quella di evitare che il legato si trasformi in uno strumento tramite cui il de cuius svuoti la garanzia patrimoniale dei propri creditori. Di conseguenza, non risultando nella specie l’istituzione di alcun erede e non potendosi quindi verificare la fase preliminare di esaurire la previa escussione del patrimonio ereditario, necessariamente il legatario deve rispondere nei confronti dei creditori nei limiti di quanto ricevuto a titolo, appunto, di legato (art. 495 c.c., comma 2, artt. 756 e 671 – Cassazione 19 marzo 2007 n. 6488), potendo in ogni caso applicarsi i principi in tema di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario.

Tanto premesso, le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti argomentazioni. Ed invero, i primi due motivi denunciano in effetti pretesi errores in procedendo, però in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, ma non già ritualmente e soprattutto univocamente in termini di nullità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 cit. codice (cfr. in part. Cass. 2 civ. n. 24247 del 29/11/2016: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Ne deriva che, ove il ricorrente lamenti l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una domanda in violazione delle preclusioni processuali, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo alla norma processuale violata, purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè si riferisca esclusivamente alla insufficienza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. In senso analogo v. tra l’altro Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013 con riferimento, nella specie ivi esaminata, al caso di lamentata omessa pronuncia in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, con riguardo all’art. 112 c.p.c., però ribadendo l’esigenza che comunque il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile l’impugnazione allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge). Per di più il ricorso difetta del requisito di autosufficienza, in violazione di quanto invece prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, avendo omesso di riportare compiutamente le difese svolte in primo grado da parte convenuta, atteso che il potere di accesso diretto degli atti processuali in sede di legittimità è comunque subordinato alla loro rituale allegazione, nei sensi richiesti dalla suddetta norma del codice (v. Cass. 3 civ. n. 15628 del 03/07/2009: il soddisfacimento del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, postula che nel detto ricorso sia specificatamente indicato l’atto su cui esso si fonda, precisandosi al riguardo che incombe sul ricorrente l’onere di indicare nel ricorso non solo il contenuto di tale atto, trascrivendolo o riassumendolo, ma anche in quale sede processuale lo stesso risulta prodotto. L’inammissibilità prevista dalla richiamata norma, in caso di violazione di tale duplice onere, non può ritenersi superabile qualora le predette indicazioni siano contenute in altri atti, posto che la previsione di tale sanzione esclude che possa utilizzarsi il principio, applicabile alla sanzione della nullità, del cosiddetto raggiungimento dello scopo, sicchè solo il ricorso può assolvere alla funzione prevista dalla suddetta norma ed il suo contenuto necessario è preordinato a tutelare la garanzia dello svolgimento della difesa dell’intimato. V. parimenti, tra le altre, Cass. lav. n. 2966 del 07/02/2011, secondo cui il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a pena di improcedibilità del ricorso – di indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 8077 del 22/05/2012: quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito. Similmente, v. Cass. V civ. n. 12664 del 20/07/2012, secondo cui anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. In applicazione di questo principio, il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, deve trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo. Pressochè conformi, tra le altre, Cass. 5 civ. n. 22880 del 29/09/2017 e Cass. I civ. n. 20405 del 20/09/2006. Analogamente, v. pure Cass. lav. n. 11738 – 08/06/2016, secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo, sicchè è necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate. Similmente, secondo Cass. 5 civ. n. 19410 del 30/09/2015, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale. Conforme altresì Cass. n. 23420 del 10/11/2011).

Il rilevato difetto assume, inoltre, particolare rilievo nel caso di specie, visto che il ricorso non ha ritualmente riprodotto, nei sensi richiesti dal codice di rito, le deduzioni svolte dalla convenuta G. con la propria memoria di costituzione e le successive difese nell’interesse della medesima, da cui poter desumere soprattutto l’incompatibilità, segnalata dalla R., con la successiva difesa della resistente circa il suo difetto di legittimazione passiva (ud. primo luglio 2009, allorchè il difensore della convenuta rilevava che essa G. non aveva mai rivestito la qualità di erede, essendo destinataria in testamento di un semplice legato, con ogni conseguente difetto o limite di legittimazione passiva – precisazione in ordine alla quale la difesa di parte attrice non accettava il contraddittorio sul punto e nulla confutava nel merito al riguardo – cfr. in part. le precise allegazioni in proposito contenute invece a pag. 3 del controricorso), nè, per altro verso, una tacita ed incontrovertibile ammissione della qualità di erede del dante causa, asserito originario datore di lavoro, qualità in base alla quale la stessa GI. era stata convenuta in giudizio (con altri litisconsorti) dall’attrice. Ed in proposito rileva, quindi, l’arresto delle Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza n. 2951 del 16/02/2016), secondo cui la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto; incompatibilità, però come visto, nella specie qui in esame non apprezzabile per difetto di rituali e complete allegazioni sul punto da parte ricorrente (cfr. ancora più dettagliatamente quanto chiarito sull’argomento dalle Sezioni unite con la sentenza n. 2951 in data 01/12/2015 – 16/02/2016, secondo cui tra l’altro le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall’attore hanno natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti; la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa).

Assolutamente inconferente risulta, poi, ogni doglianza sotto il profilo del vizio di motivazione, laddove per giunta opera nella specie (trattandosi di sentenza emessa il 28 novembre 2012 e pubblicata il successivo due gennaio 2013) la più restrittiva formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, di guisa che rileva unicamente la (eventuale) pretermissione del fatto, inteso in senso storico-materiale (non già le questioni di diritto, processuale, invece dedotte da parte ricorrente segnatamente con le prime due doglianze), decisivo da parte del giudice di merito, con la sola esclusione della motivazione al disotto del minimo costituzionale, violazione questa nella specie però del tutto insussistente alla luce di quanto complessivamente considerato in motivazione dalla pronuncia de qua (cfr. sul punto in part. Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 e la conforme successiva giurisprudenza di legittimità).

In tale contesto, si appalesa altresì l’inammissibilità del terzo motivo di ricorso, laddove sotto il profilo della violazione delle norme ivi indicate parte istante tende in realtà a rivedere, però inammissibilmente in questa sede, quanto appurato con adeguata motivazione, in fatto ed in diritto, dalla Corte di merito, che ha escluso trattarsi di istituzione di erede in favore della G., ritenuta invece mera legataria, donde il rilevato difetto di legittimazione passiva di quest’ultima, siccome invece convenuta in giudizio quale erede, pertanto non obbligata al pagamento dei debiti ereditari (non risultando evidentemente le deroghe al riguardo contemplate dall’art. 756 c.c.).

Orbene, in materia di distinzione tra erede e legatario, l’assegnazione di beni determinati deve interpretarsi, ai sensi dell’art. 588 c.c., come disposizione ereditaria (“institutio ex re certa”), qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una parte indeterminata di essi, considerata in funzione di quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato, se abbia voluto attribuirgli singoli individuati beni. L’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi, si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito, ed è, quindi, incensurabile in sede di legittimità se conseguentemente motivato (Cass. 2 civ. n. 3016 – 01/03/2002 ed altre conformi, tra cui Cass. lav. n. 9467 del 12/07/2001: al fine di distinguere tra disposizioni testamentarie a titolo universale – che, indipendentemente dalle espressioni e dalle denominazioni usate dal testatore, sono attributive della qualità di erede – e disposizioni a titolo particolare – che, invece, attribuiscono la sola qualità di legatario – il giudice deve compiere sia una indagine di carattere oggettivo riferita al contenuto dell’atto sia una indagine di carattere soggettivo riferita all’intenzione del testatore. Ne consegue che soltanto in seguito a tali duplici indagini – che sono di competenza del giudice del merito e i cui risultati non sono censurabili in sede di legittimità se congruamente motivati – può stabilirsi se attraverso l’assegnazione di beni determinati il testatore abbia inteso attribuire una quota del proprio patrimonio unitariamente considerato – sicchè la successione in esso è a titolo universale – ovvero abbia inteso escludere l’istituzione nell'”universum ius”, sicchè la successione è a titolo di legato. Parimenti, v. più recentemente Cass. 2 civ. n. 24163 del 25/10/2013, secondo cui ai sensi dell’art. 588 cod. civ., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale – “institutio ex re certa”- qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni. L’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato).

Infine, del tutto nuove appaiono le questioni poste con il quarto motivo, siccome non risultanti in alcun modo esaminate nel corso del primo o del secondo grado del giudizio di merito e per la cui definizioni occorrevano ulteriori accertamenti ed indagini in punto di fatto (mentre la sentenza d’appello qui impugnata non ne accenna, in particolare circa la possibilità che la GI., quale legataria, potesse rispondere nei confronti dei crediti vantati ex adverso, nei limiti di quanto ricevuto a titolo particolare, peraltro secondo l’obbligo all’uopo imposto -lascito della cappella cimiteriale e della proprietà immobiliare specificamente indicata, affinchè la beneficiaria ovvero i di lei eredi provvedessero alla manutenzione della stessa cappella – dal testatore). Nè alcun preciso riferimento emerge sul punto dalla narrazione del ricorso per cassazione (v. in part. Cass. 3 civ. n. 14741 del 13/07/2005: ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere di allegare ed indicare in quale atto del giudizio di merito ha dedotto la questione).

Ed invero, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicchè sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche questioni di diritto, qualora queste postulino indagini e accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (tra le altre così Cass. 2 civ. n. 19350 del 04/10/2005). Del resto, se la corretta individuazione della legitimatio ad causam è finalizzata all’esigenza della valida instaurazione del contraddittorio tra le parti, non si vede come quella di esse convenuta, espressamente come erede, possa tuttavia ugualmente essere poi chiamata a rispondere sotto altra veste, come legataria, ma giammai risultante allegata nel corso del giudizio di merito (cfr. in part. più di recente Cass. 1 civ. n. 7776 del 27/03/2017: la “legitimatio ad causam”, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di “legitimatio ad causam”, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un “error in procedendo” ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo), rilevabilità questa, peraltro, ovviamente, subordinata nel giudizio di legittimità alla rituale enunciazione del corrispondente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 4, così come in precedenza chiarito, nonchè con l’osservanza dei requisiti richiesti a norma degli artt. 366 e 369 cit. codice.

Nei sensi di cui sopra, pertanto, anche con relative integrazioni delle argomentazioni a sostegno della decisione qui impugnata (ex art. 384 c.p.c., u.c.), il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente conferma della medesima sentenza.

Le spese di questo giudizio, quindi, per il principio della soccombenza vanno poste a carico della ricorrente, giusta la liquidazione di cui al seguente dispositivo. Tuttavia, risultando in atti la R. ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in via provvisoria ed anticipata (deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Caltanissetta 9 luglio 2013, a seguito di stanza 1-7-2013, n. 2461/GPCA/2013), non ricorrono al momento (in attesa di definitivo provvedimento al riguardo, in sede di liquidazione degli onorari spettati al procuratore speciale all’uopo nominato, da parte della competente Corte di merito) i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (cfr., tra le altre, Cass. lav. n. 18523 del 2/09/2014: il ricorrente in cassazione ammesso al patrocinio a spese dello Stato non è tenuto, in caso di rigetto dell’impugnazione, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater. V. per altro verso pure Cass. 1 civ. n. 22616 del 02/12/2004, secondo cui in tema di patrocinio a spese dello Stato, in base al regime di cui al D.Lgs. n. 113 del 2002, deve ritenersi che la competenza sull’istanza e sul procedimento di liquidazione degli onorari del difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetti al giudice di rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. 1 civ., sentenza n. 3122 del 16/02/2005 e n. 16986 del 25/07/2006. Cfr. pure Cass. 3 civ., ordinanza n. 11028 del 13/05/2009, secondo la quale la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi del Decreto n. 115 del 2002, art. 83 come modificato dalla L. 24 febbraio 2005, n. 25, art. 3 al giudice di rinvio, oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. Nel caso di cassazione e decisione nel merito, la competenza spetta a quello che sarebbe stato il giudice di rinvio ove non vi fosse stata decisione nel merito. Conforme Cass. 1 civ., ordinanza n. 23007 del 12/11/2010).

P.Q.M.

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in ragione di complessivi 4000,00 (quattromila/00) Euro per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto allo stato della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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