Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26470 del 21/12/2016


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Cassazione civile, sez. lav., 21/12/2016, (ud. 04/10/2016, dep.21/12/2016),  n. 26470

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28841-2013 proposto da:

P.M.R. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO

CRISCUOLO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ROMEO GESTIONI S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio degli avvocati PIERLUIGI

RIZZO, NUNZIO RIZZO, che la rappresentano e difendono, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6584/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 12/12/2012 R.G.N. 5303/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/10/2016 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA;

udito l’Avvocato ROMITA CARLO per delega Avvocato CRISCUOLO FABRIZIO;

udito l’Avvocato RIZZO ANNALISA per delega Avvocato RIZZO NUNZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL

CORE SERGIO che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o

rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Napoli ha respinto l’impugnazione proposta da P.M.R. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dalla Romeo Gestioni s.p.a. e la condanna della società “al risarcimento del danno patrimoniale patito, quantificato in applicazione del metro equitativo di cui all’art. 1226 c.c. e comunque in misura non inferiore ad Euro 100.000,00″ nonchè al risarcimento del danno non patrimoniale ” sotto forma di danno all’immagine, anche professionale, biologico ed esistenziale” da liquidarsi, sempre in via equitativa, in misura non inferiore ad Euro 150.000,00.

2 – La Corte territoriale ha evidenziato, per quel che qui interessa, che:

a) inammissibile era la domanda volta ad ottenere la condanna della società al pagamento della indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, poichè nel ricorso di primo grado il pagamento di tale indennità, di origine contrattuale, non era stato richiesto e la ricorrente aveva concluso per la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in via equitativa, senza allegare alcunchè sulla natura del danno patrimoniale e senza offrirne la prova;

b) correttamente, pertanto, il Tribunale aveva ritenuto di non dovere pronunciare sulla asserita ingiustificatezza del licenziamento, posto che detta pronuncia, una volta esclusa la possibilità del risarcimento, non avrebbe potuto assicurare alla parte alcun effetto giuridicamente utile;

c) anche le ulteriori richieste risarcitorie, formulate in relazione alla dequalificazione subita, erano state giustamente respinte dal primo giudice, perchè la ricorrente non aveva allegato alcunchè in ordine alle mansioni in concreto svolte nè in merito agli ipotetici danni che dal demansionamento sarebbero derivati;

f) era, poi, da escludere che la assegnazione a mansioni inferiori, protrattasi per soli nove giorni, avesse potuto pregiudicare in qualche modo la professionalità e l’immagine della appellante;

g) le registrazioni fonografiche prodotte non dimostravano alcun intento vessatorio, perchè nel corso della conversazione l’imprenditore R. aveva manifestato la volontà di risolvere bonariamente la vicenda, dichiarandosi disponibile al pagamento di 24 mensilità, e ciò forse in nome del rapporto di amicizia che in precedenza aveva legato le parti.

3 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso P.M.R. sulla base di due motivi. La Romeo Gestioni s.p.a. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

4 – Il Collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente del 14.9.2016, la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo di ricorso, articolato in più punti, la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 414, 433 e 345 c.p.c., artt. 1218, 2118 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 19 e 22 CCNL Dirigenti Industria” nonchè “motivazione erronea- e contraddittoria”. Rileva, in sintesi, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere inammissibile la domanda volta ad ottenere la condanna della Romeo Gestioni s.p.a. al pagamento della indennità supplementare, perchè detta domanda non poteva essere ritenuta nuova, posto che nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era stata denunciata la illegittimità del licenziamento con espresso richiamo al CCNL, che ricollega in modo automatico alla ingiustificatezza del recesso il diritto del dirigente a vedersi corrispondere l’indennità. Precisa che l’indennità supplementare altro non è se non “espressione indicante la peculiare disciplina del risarcimento dei danni chiesto dal dirigente licenziato”, sicchè la domanda doveva ritenersi senz’altro ricompresa nell’originario petitum. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe dovuto pronunciare sulla ingiustificatezza del recesso ed ammettere i mezzi di prova richiesti dalla ricorrente, la quale aveva allegato circostanze idonee a comprovare la pretestuosità, la ricorsività e la illegittimità del licenziamento.

1.2 – La seconda censura è formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per “erronea e comunque contraddittoria motivazione su fatti decisivi della controversia”. La ricorrente sottolinea che anche la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni derivati dal demansionamento era suffragata dalla illustrazione puntuale degli atteggiamenti vessatori subiti dalla P., che erano sfociati dapprima nella dequalificazione e successivamente nel recesso. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe dovuto ammettere i mezzi istruttori richiesti, in quanto l’asserita inesistenza del danno non poteva essere desunta solo dalla brevità del demansionamento, posto che i danni lamentalierano anche e soprattutto conseguenza della condotta vessatoria del datore di lavoro, protrattasi per lungo tempo.

2 – Il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Occorre premettere che il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) od a quello del tantum devolutum quantum appellatum (art. 345 c.p.c. e per il rito del lavoro art. 437 c.p.c.) poichè in tal caso la denuncia dell’error in procedendo attribuisce alla Corte di legittimità il potere – dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (fra le più recenti Cass. 10.10.2014 n. 21421 e Cass. 30.7.2015 n. 16164).

Le Sezioni Unite di questa Corte, pronunciando in fattispecie nella quale veniva in rilievo la dichiarazione di nullità dell’atto introduttivo del giudizio, dopo avere affermato che, a fronte della deduzione del vizio processuale il giudice di legittimità è tenuto ad effettuare la diretta interpretazione dell’atto, hanno precisato che detto esame è condizionato alla formulazione di un valido motivo di ricorso, in quanto la denuncia del vizio resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della Corte (Cass. S.U. 22.5.2012 n. 8077).

E’ quindi necessario il rispetto degli oneri di specificazione ed allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che impongono alla parte di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso nei loro esatti termini gli atti rilevanti, diversi dalla sentenza impugnata (fra le più recenti Cass. 8.6.2016 n. 11738 in tema di inammissibilità dell’appello).

Ne discende che allorquando, come nella fattispecie, il ricorrente assuma che la domanda, ritenuta inammissibile per novità dal giudice dell’impugnazione, era da ritenersi ricompresa nel thema decidendum del giudizio di primo grado, è necessario riportare nel motivo, oltre ai passi salienti dell’atto di appello, anche il ricorso di primo grado, in modo da consentire alla Corte di valutare ex actis petitum e causa petendi della domanda proposta.

Non è a tal fine sufficiente la trascrizione delle conclusioni dell’atto introduttivo, perchè la individuazione del petitum va compiuta attraverso l’esame complessivo dell’atto, avendo riguardo, quindi, anche alla parte espositiva che sorregge le conclusioni e che consente di individuare quale sia il bene della vita domandato dal ricorrente.

Nel caso di specie la Corte territoriale, confermando la sentenza di prime cure, ha ritenuto che con il ricorso di primo grado la P. avesse proposto una domanda risarcitoria fondata sul “diritto comune”, non avendo fatto alcun cenno alla disciplina contrattuale, se non in relazione alla dedotta illegittimità del recesso.

Il motivo censura detta interpretazione della domanda, dalla quale fa poi discendere l’omessa pronuncia sulla illegittimità del licenziamento e sulla richiesta di condanna al pagamento della indennità supplementare, ma trascrive nel ricorso solo le conclusioni e la parte dell’atto relativa alla ingiustificatezza del recesso, ossia alla causa petendi e non al petitum, sicchè non contiene gli elementi necessari per esprimere il giudizio sulla fondatezza della doglianza.

2.1. – Parimenti inammissibile è il secondo motivo con il quale la ricorrente si duole del rigetto della domanda di risarcimento del danno derivato dal demansionamento, che la Corte territoriale ha escluso evidenziando che, anche a voler ritenere dimostrate le allegazioni dell’atto introduttivo, la assegnazione alle mansioni dequalificanti si sarebbe protratta per soli nove giorni, ossia per un arco temporale talmente breve da non poter incidere sulla professionalità della dirigente.

La ricorrente denuncia la “erronea e contraddittoria motivazione su fatti decisivi della controversia”, pur essendo applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 54.

Poichè, infatti, la sentenza impugnata risulta depositata il 12 dicembre 2012 la motivazione è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di ” omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Di conseguenza il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Il motivo, per come formulato, esula dai ristretti limiti del controllo sulla motivazione consentito alla Corte di legittimità dalla normativa applicabile ratione temporis, sicchè deve essere dichiarato inammissibile.

2.2 – Si aggiunga che tutte le considerazioni che si leggono sulla omessa valutazione della condotta vessatoria tenuta dal datore di lavoro nei confronti della dirigente non considerano che la Corte territoriale, confermando le statuizioni della sentenza di prime cure, ha precisato che la P. aveva proposto, oltre alla domanda volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento, altra e distinta azione risarcitoria fondata sulla dequalificazione subita.

Così argomentando la Corte ha implicitamente escluso qualsiasi rilevanza delle deduzioni e delle richieste istruttorie relative all’atteggiamento ostile del datore di lavoro, non avendo la ricorrente agito ex art. 2087 c.c., per ottenere il risarcimento del danno derivato dal cosiddetto “mobbing”.

2.3 – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico della ricorrente nella misura indicata in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2016

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