Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26469 del 20/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 20/11/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 20/11/2020), n.26469

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17892 – 2013 proposto da:

C. PNEUMATICI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 288, presso lo studio dell’avvocato LUIGI STRANO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 337/2012 della COMM. TRIB. REG. DEL LAZIO SEZ.

DIST. di LATINA, depositata il 26/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/07/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

A seguito di verifica condotta nei confronti della C. Pneumatici s.r.l. relativamente all’anno d’imposta 2005, l’Agenzia delle entrate notificava alla società avviso di accertamento, con cui, contestando un maggior imponibile, recuperava maggiore Ires, Irap ed Iva. In particolare con l’atto impositivo l’Amministrazione finanziaria aveva disconosciuto la deducibilità dei costi per l’acquisto di un opificio, le cui condizioni di degrado impedivano di riconoscerne l’entrata in funzione, condizione prevista dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 102, comma 1, per la deducibilità stessa. Aveva disconosciuto i costi sostenuti per servizi ricevuti e fatturati dalla C.S. & C. s.n.c. (società con la stessa compagine sociale), rivenduti ai propri clienti ad un prezzo inferiore a quello d’acquisto. Aveva disconosciuto i costi per spese di rappresentanza dell’amministratore della società.

Era seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Frosinone, che con sentenza n. 337/40/2012 aveva accolto parzialmente il ricorso della contribuente, riconoscendo in parte i costi sostenuti per le spese di rappresentanza dell’amministratore, confermando per il resto l’atto impositivo. Entrambe le parti avevano appellato la pronuncia, ciascuna per quanto soccombente. La Commissione tributaria regionale del Lazio, Sez. staccata di Latina, con la sentenza ora al vaglio della Corte aveva accolto l’impugnazione della contribuente relativamente ai costi sostenuti per l’opificio ed aveva accolto l’appello incidentale dell’Amministrazione finanziaria con riguardo ai costi di rappresentanza riconosciuti come deducibili dal primo giudice. Nello specifico aveva riconosciuto la deducibilità dei costi d’acquisto dell’opificio ritenendone dimostrata la funzionalità. Aveva invece disconosciuto la deducibilità dei costi dei servizi fatturati dalla C.S. s.n.c., ritenuti antieconomici e finalizzati esclusivamente all’abbattimento dei ricavi per conseguire indebiti vantaggi fiscali, e la deducibilità delle spese di trasferta e rappresentanza dell’amministratore della società, ritenute inesistenti.

La società ha censurato la sentenza con dieci motivi:

con il primo per violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, (all’epoca vigente), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto elusiva l’operazione commerciale posta in essere tra la C.S. & C. s.a.s. e la C. Pneumatici s.r.l., che al contrario era sorretta da specifica e valida ragione economica;

con il secondo per violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 163, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, degli artt. 53,3 e 97 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver violato il divieto di doppia imposizione, disconoscendo i costi relativi ai servizi acquistati dalla C.S. & C s.a.s.;

con il terzo per violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè con la pronuncia impugnata avrebbe sconfinato nell’area delle scelte imprenditoriali insindacabili e tutelate dai principi costituzionali;

con il quarto per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, per malgoverno delle regole di riparto dell’onere probatorio;

con il quinto per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dei principi di valutazione delle prove;

con il sesto per violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto delle regole di tutela dell’affidamento e del principio di buona fede nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria;

con il settimo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver tenuto conto delle deduzioni difensive della contribuente;

con l’ottavo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, per non aver riconosciuto la sussistenza dei presupposti di inerenza delle spese di rappresentanza sostenute dall’amministratore della società;

con il nono per violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, perchè la decisione era stata assunta sulla base di indizi privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza;

con il decimo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, per assenza di adeguate argomentazioni a supporto dei supposti indizi in grado di disattendere la documentazione relativa alle spese di rappresentanza sostenute dalla contribuente.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale statuizione, anche nel merito.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato i motivi del ricorso, di cui ne ha chiesto il rigetto.

Sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo, che unitamente ai sei successivi è dedicato al mancato riconoscimento della deducibilità dei costi sostenuti per i servizi forniti e fatturati dalla C.S. & C. s.a.s. alla C. Pneumatici s.r.l., odierna ricorrente, si lamenta l’errore di diritto in cui sarebbe incorso il giudice d’appello nel ritenere quelle operazioni commerciali prive di una specifica e valida ragione economica, e pertanto messe in atto con esclusivo intento elusivo. Al contrario, sostiene la contribuente, si trattava di operazioni offerte dalla società di servizi C.S. (montaggio/smontaggio gomme, riequilibratura, convergenza, ecc..) alla C. Pneumatici, che invece si occupava della vendita delle gomme. Il corrispettivo che i clienti pagavano per quei servizi alla C. Pneumatici in misura inferiore al prezzo corrisposto da questa società alla C.S. per la fornitura di quei medesimi servizi rappresentava solo una incongruenza apparente. Ciò era dovuto alla sola circostanza che nelle ipotesi in cui in fattura i servizi erano distinti dal prezzo di vendita delle gomme, per ragioni di prezziario emergevano corrispettivi riscossi dai clienti più bassi del prezzo corrisposto dalla contribuente al fornitore di quei servizi (la C.S.). Tuttavia il risultato complessivo dell’operazione non era svantaggioso, come dimostrato dal dato contabile degli utili conseguiti annualmente dalla contribuente. Doveva pertanto escludersi che quelle operazioni avessero l’unico scopo di abbattere i ricavi della contribuente, mancando dunque i presupposti della fattispecie elusiva.

La censura non coglie nel segno. Pur non ignorando questo Collegio la tensione in dottrina tesa a non sovrapporre e comunque a non appiattire il concetto di abuso del diritto con l’elusione, circoscritta e disciplinata dal citato art. 37 bis, (ratione temporis vigente), deve rammentarsi che la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha evidenziato che integra abuso del diritto, il cui divieto costituisce principio generale antielusivo, l’operazione economica volta al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, ancorchè non contrastante con alcuna disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente (Cass., 13/07/2018, n. 18632; 06/06/2019, n. 15321). E va ribadito che l’elusione fiscale, quale espressione dell’abuso del diritto, in ossequio ai principi espressi dalla Raccomandazione n. 2012/772/Ue, sussiste quando l’operazione economica esaminata manchi di sostanza economica, i cui indici sono rappresentati dalla non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e dalla non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, mentre per vantaggi fiscali indebiti si considerano i benefici realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario (Cass., 30/12/2019, n. 34595). Ciò, ancorchè vada sempre garantita la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un differente carico fiscale (Cass., 14/01/2015, n. 439; cfr. anche 19/02/2014, n. 3938), libertà che tuttavia incontra il limite dell’uso distorto degli strumenti giuridici, come nelle ipotesi in cui l’operazione difetti di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di benefici fiscali.

Ebbene, sempre nell’ottica della necessaria valutazione parametrata alla “sostanza economica” dell’operazione secondo gli insegnamenti della giurisprudenza Eurocomunitaria, se è altrettanto vero che debba escludersi il carattere elusivo per le operazioni caratterizzate dalla compresenza non marginale di ragioni extrafiscali, non necessariamente identificabili nel perseguimento di una redditività immediata dell’atto posto in essere, ma anche in vantaggi di natura organizzativa implicanti un miglioramento strutturale e funzionale dell’attività economica del contribuente (Cass., 02/03/2020, n. 5644), deve rammentarsi che, a fronte degli oneri probatori gravanti sulla Amministrazione finanziaria a sostegno della contestazione della natura elusiva di un’operazione, resta sempre onere del contribuente la controprova che una determinata operazione, apparentemente irrazionale e svantaggiosa sotto il profilo economico – per stare ad esempi vicini al caso di specie – sia stata motivata non da intenti elusivi, ma da finalità o esigenze diverse da ragioni di mero vantaggio fiscale.

Perimetrato l’alveo d’indagine ed esaminando il caso di specie, la ricorrente con la denuncia dell’errore di diritto non coglie nel segno perchè il ragionamento del giudice d’appello non ha violato i principi che presidiano la disciplina elusiva, ma più semplicemente, sulla base di elementi fattuali, ha ritenuto che le operazioni poste in essere tra le due società avessero esclusivamente un intento elusivo. Nè la ricorrente ha evidenziato, in ossequio al principio di autosufficienza, quali elementi avesse addotto a controprova in sede d’appello e nel precedente grado di merito, e neppure nella fase endoprocedimentale del procedimento culminato con l’emissione dell’atto impositivo. Anche con l’attuale ricorso, nonostante le numerose pagine dedicate alla vicenda, la difesa poggia su argomentazioni puramente teoriche o descrittive, su supposte utilità dell’organizzazione dell’impresa, su tariffari delle prestazioni, che “all’epoca” imponevano maggiorazioni dei prezzi, senza però allegare elementi che possano costituire convincenti ragioni dell’evidente scarto rilevato dalla Commissione regionale tra quanto pagato dalla società ricorrente alla C.S. s.a.s. per la fornitura dei servizi (Euro 80.709,66) e quanto ricavato dai propri clienti per la fruizione dei medesimi servizi (Euro 45.495,70). Nè le difese articolate in questo giudizio aiutano a meglio chiarire le ragioni extrafiscali delle operazioni vagliate in sede d’accertamento e poi nel successivo contenzioso, non comprendendosi neppure il perchè, a fronte di un’attività economica di vendita e montaggio gomme per autovetture, vi fossero due società, i cui soci componenti erano perfettamente coincidenti, delle quali una preposta alla fornitura dei servizi, e l’altra alla vendita delle gomme cui si relazionavano quei servizi (smontaggio/montaggio delle gomme, equilibratura, ecc.). Sicchè le considerazioni sul mancato danno erariale, o sulla circostanza che non vi era utilità nell’abbattimento dei costi sostenuti dalla società ricorrente, perchè il maggior reddito sarebbe stato ripreso dai ricavi della società fornitrice dei servizi, restano mere considerazioni prive di rilevanza al fine della prova della esclusione del solo intento elusivo delle operazioni poste in essere.

Il motivo va dunque rigettato.

Al rigetto del primo motivo segue un giudizio di infondatezza dei successivi sino al settimo.

Non trova infatti accoglimento il secondo, con il quale si lamenta che la decisione assunta dalla commissione regionale comporterebbe la violazione del divieto di doppia imposizione. Essa è irrilevante nel contesto di questo giudizio, risultando altresì incomprensibile se l’ipotesi possa effettivamente verificarsi, nè emerge se e in quale atto la questione sia stata posta nei precedenti gradi di giudizio.

E’ inammissibile, per come formulato, il terzo motivo, con il quale si lamenta la violazione dell’art. 41 Cost., perchè la decisione impugnata limiterebbe il principio costituzionale di libertà di iniziativa economica. A prescindere da ogni altra osservazione e senza addentrarsi su considerazioni relative alla immediata precettività della norma, il motivo non chiarisce in che termini si concretizzerebbe la violazione alla libertà di iniziativa economica, a fronte dell’attività di verifica condotta dall’Amministrazione finanziaria, esitata nella contestazione della indeducibilità di costi d’impresa e nella rideterminazione della base imponibile per uno specifico anno d’imposta.

Per le ragioni illustrate nell’esame del primo motivo restano assorbiti il quarto ed il quinto, che possono trattarsi unitariamente per l’intrinseca connessione, con i quali la ricorrente ha censurato la decisione sotto il profilo del malgoverno dei principi regolanti la disciplina sulle prove.

Assorbito è anche il settimo, con cui è stato denunciato il vizio motivazionale per non aver tenuto conto delle deduzioni difensive della contribuente.

Infondato è poi il sesto motivo, con il quale la contribuente ha lamentato la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, ossia delle regole di tutela dell’affidamento e della buona fede nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria. La società afferma al riguardo che in occasione di verifiche eseguite su altri anni d’imposta (2003 e 2006) non era stato elevato alcun rilievo sui costi così registrati. A parte che manca ogni prova se negli ulteriori anni sottoposti a verifica risultassero costi registrati allo stesso modo (nè ciò può dedursi dagli avvisi di accertamento allegati, annota la contribuente, il 13.01.2009, che certo non contiene l’intera contabilità degli anni predetti), si tratta in ogni caso di valutazioni indipendenti, senza che determinazioni eventualmente distinte per anni d’imposta distinti possano vincolare l’autonomo esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria o condizionare l’operato della commissione tributaria.

Esaminando ora l’ottavo motivo, che con i successivi si occupa del disconoscimento dei costi dichiarati dalla società per spese di rappresentanza, nella specie per trasferte sostenute dall’amministratore della società, con esso si denuncia l’errore di diritto in cui sarebbe incorso il giudice d’appello per non aver riconosciuto la sussistenza dei presupposti dell’inerenza. Ciò perchè, a detta della ricorrente, tali spese sarebbero state documentate, come risultante dal processo verbale di constatazione.

Il motivo, per come formulato, è inammissibile, perchè con esso non sono mosse critiche alla decisione per una errata interpretazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, ma perchè, si assume, i costi non sarebbero stati riconosciuti nonostante fossero documentati. In tal modo la critica afferisce non già ad un errore interpretativo del citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, ma alla valutazione delle prove, sia essa riconducibile al loro malgoverno piuttosto che alla illogicità o carenza motivazionale.

In ogni caso il giudice regionale non ha negato l’esistenza della documentazione, come non l’avevano negata i militari verificatori e l’Agenzia delle entrate, ma ha messo in discussione la affidabilità della documentazione stessa. In particolare nella pronuncia si valorizza la pluralità di circostanze che deporrebbero per l’inesistenza delle spese: a) l’amministratore non guidava, anzi era privo di autovettura e sprovvisto di patente; b) nella documentazione non vi erano riferimenti ad autisti o comunque a dipendenti che potessero accompagnare l’amministratore nei viaggi; c) gli stessi tragitti, per percorrenza e tempi, erano inverosimili, come quello dalla sede (OMISSIS) a (OMISSIS) con ritorno in giornata, tanto più se considerata l’età non più giovanile dell’amministratore (all’epoca già ottantacinquenne); d) alcuni percorsi erano manifestamente inveritieri per chilometraggio, come la tratta (OMISSIS), la cui distanza era stata indicata in 140 Km e non nei corretti 40 Km.

Con tutta evidenza si tratta di valutazioni di carattere fattuale, che non mettono in discussione il criterio di inerenza, ma la veridicità dei costi sostenuti.

Infondati sono infine il nono ed il decimo motivo, con cui, rispettivamente, si denuncia che la decisione sia stata assunta sulla base di indizi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e che comunque sia carente di adeguate argomentazioni a supporto di indizi in grado di disattendere la documentazione allegata dalla società a sostegno dei costi di rappresentanza.

I motivi, che possono trattarsi unitariamente perchè intrinsecamente connessi, vanno disattesi. Va infatti premesso che, quanto ai criteri di valutazione degli indizi, il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire va ricavato dal complessivo esame. In particolare la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati con un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (cfr. Cass., 16/05/2017, n. 12002; 02/03/2017, n. 5374). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

In ordine poi al controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della sentenza, trattandosi di decisione pubblicata in epoca anteriore alla novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134, ad esso trova applicazione la precedente formulazione della norma. Ebbene, questa Corte ha affermato che la deduzione del vizio di motivazione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., 24/05/2018, n. 12967; 04/08/2017, n. 19547; 09/08/2007, n. 17477).

Ciò chiarito, la sentenza impugnata, per quanto evidenziato nella trattazione dell’ottavo motivo, è indenne sia da violazioni alle regole di valutazione degli elementi indiziari, sia da vizi di motivazione. Il giudice d’appello ha infatti esaminato tutti gli elementi fattuali emersi nell’accertamento, ha eseguito i collegamenti appropriati tra i vari elementi indiziari, ne ha tratto argomenti per concludere sulla inattendibilità della documentazione. Nella sequenzialità logica degli argomenti non si evidenziano contraddizioni o errori. Risultano in conclusione rispettate le regole di valutazione delle prove presuntive, così come risulta corretto il percorso motivazionale.

Il ricorso va dunque rigettato. All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese di causa, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la società al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di Euro 5.600,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2020

 

 

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