Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26414 del 26/11/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 26414 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: BERRINO UMBERTO

SENTENZA
sul ricorso 20954-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

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VICHI PASQUALE C.F. VCHPQL61C30E372F, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo
studio

dell’avvocato

VACIRCA

SERGIO,

che

lo

Data pubblicazione: 26/11/2013

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 951/2007 della CORTE DI
APPELLO di L’AQUILA, depositata il 22/08/2007 R.G.N.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 24/10/2013 dal Consigliere Dott. UMBERTO
RZRRTNO;

udlta) l’Avvnatn HUTTAFOCQ ANNA

per

clleggi PESSI

ROBERTO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA ) che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

140/2006;

Svolgimento del processo
Con sentenza del 5/7 — 22/8/07 la Corte d’Appello dell’Aquila – sezione lavoro
accolse l’appello proposto da Vichi Pasquale avverso la sentenza del giudice del
lavoro del Tribunale di Pescara, che gli aveva respinto la domanda tesa alla

società Poste Italiane s.p.a., e, dopo aver dichiarato la predetta nullità, affermò
l’esistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
a decorrere dal 2/10/2001, condannando l’appellata a riammetterlo in servizio e a
corrispondergli le retribuzioni maturate dalla messa in mora del 18/2/03, detratto
“l’aliunde perceptum”.
La Corte di merito pervenne a tale decisione dopo aver rilevato che l’appellante
società non aveva fornito la prova di aver rispettato, nel momento in cui aveva
stipulato il contratto in esame, il divieto imposto dalla contrattazione collettiva alla
parte datoriale di superare, nel ricorso alle assunzioni a termine, la soglia del 5%
del numero dei lavoratori stabilmente in servizio alla data del 31 dicembre
dell’anno precedente nell’ambito della stessa regione, aliquota, questa,
rappresentante un vincolo essenziale a presidio della legittimità delle causali
specifiche approvate con l’art. 25 del CCNL del 2001, norma collettiva di
riferimento nella fattispecie, in forza della facoltà autorizzatoria prevista darart. 23
della legge n. 56/1987.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.p.a Poste Italiane che affida
l’impugnazione a tre motivi di censura.
Resiste con controricorso Vichi Pasquale.
Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione di norme di
diritto (art. 1372, 1° e 2° comma, cod. civ.), nonché l’omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art.

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dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso con la

360, nn. 3 e 5 c.p.c) e si chiede di accertare se il comportamento inerte del
lavoratore, avente durata e modalità tali da evidenziare il completo disinteresse al
ripristino del rapporto di lavoro, unitamente alla circostanza dell’accettazione del
T.F.R. senza riserve, debba considerarsi come forma presuntiva di risoluzione

eventuale prova contraria offerta dalla controparte.
Il motivo è infondato.
Invero, l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887
dell’i 1/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935
del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07;
C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’I 1/12/02) è nel senso
di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine è di per sè insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale
risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del
comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una
chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine
ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del
complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni
non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di
diritto.
Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per
mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o
dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze
oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione
del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di
denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre

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dello stesso per mutuo consenso, tale da poter essere contrastata solo dalla

definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n.
15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).
Nella fattispecie la Corte territoriale, nel motivare il rigetto dell’eccezione
preliminare di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, si è attenuta ai

dalla ricorrente col primo motivo.
2. Col secondo motivo è denunziata la violazione ed erronea applicazione dell’art.
2697 c.c. e degli artt. 421, 437 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, in quanto si
assume che la Corte di merito avrebbe dovuto considerare che spettava al
lavoratore, che aveva sostenuto l’illegittimità del contratto a termine per l’asserita
violazione della clausola di contingentamento prevista dalla contrattazione
collettiva, provare le ragioni della dedotta illegittimità e che, ove la Corte
medesima avesse ritenuto decisiva una tale dimostrazione, avrebbe potuto
provvedere d’ufficio all’assunzione dei mezzi istruttori atti a superare l’incertezza
sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione.
li motivo è infondato.
Come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito (v. per tutte Cass. 19-12010 n. 839), “nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle
organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del
termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle
percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul
totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo
di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di
invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi
individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo
indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e
a termine. L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del

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suddetti principi e, pertanto, la relativa decisione si rivela immune dai rilievi mossi

datore di lavoro, in base alle regole di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3,
secondo cui incombe ai datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle
condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro”. (v. in
tal senso Cass. Sez. 6— Lav., Ordinanza n. 21100 del 27/11/ 2012)

della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla legge n. 56 del
1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di
lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità della clausola
appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione
collettiva (cfr. ad es., implicitamente, Cass. 24 novembre 2011 n. 22009 o 3 marzo
2006 n. 4677, nonché in maniera esplicita Cass. Sez. 6 — Lav., Ordinanza n.
20398 del 20 novembre 2012)
In maniera ancor più specifica si è poi avuto occasione di statuire (Cass. Sez. lav.
n. 14283 del 28 giugno 2011) che “in materia d’assunzione a termine dei lavoratori
subordinati, anche nella vigenza della legge 28 febbraio 1987, n. 56 è applicabile
la disposizione di cui all’art. 3, della legge n. 230 del 1962, in materia d’onere della
prova a carico del datore di lavoro sulle condizioni che giustificano l’apposizione
del termine al contratto di lavoro.”
3. Col terzo motivo la ricorrente censura l’impugnata sentenza per violazione e
falsa applicazione di norme di diritto, nonché per omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione, assumendo che la domanda di condanna relativa alle
richieste economiche è stata accolta dai giudici d’appello senza che la stessa
fosse supportata da elementi di prova, non avendo il lavoratore fornito la
dimostrazione del danno conseguito alla nullità della causale sulla base della
quale era stato apposto il termine al contratto. Si chiede, qundi, di accertare,
attraverso il relativo quesito di diritto, se in caso di domanda di risarcimento dei
danni per effetto dello scioglimento del rapporto di lavoro dovuto a clausola
risolutiva ritenuta nulla rimaneva a carico del medesimo lavoratore allegare e

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Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la determinazione da parte

provare il danno e se lo stesso poteva equivalere alle retribuzioni perdute a causa
della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative illegittimamente rifiutate
dalla datrice di lavoro.
Osserva il Collegio che il quesito riguardante la mora credendi risulta del tutto

enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il
momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai
giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4/1/2011 n. 80 e Cass. 29/4/2011
n. 9583).
Il quesito di diritto richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base
alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in
maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in
giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5/1/2007 n. 36), dovendosi, pertanto, ritenere come
inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare deve comprendere
l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del
diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto
applicare in sostituzione del primo e la “mancanza anche di una sola delle due
suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile.” (v. Cass. 30-9-2008, n.
24339). Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso
sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa
proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di
diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v.
Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in
base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica
sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).
Ne consegue l’inammissibilità dell’ultimo motivo.
Così risultato inammissibile il motivo riguardante le conseguenze economiche
della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente

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Ai)

generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella

giudizio lo “ius superveniens”, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della
legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio,
costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo

disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo
pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della
natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di
ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche
indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere
sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre
Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e
vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio
nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi,
oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 24 ottobre 2013
Il Consigliere estensore

ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova

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