Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2640 del 04/02/2010

Cassazione civile sez. I, 04/02/2010, (ud. 19/10/2009, dep. 04/02/2010), n.2640

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C.A., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale

a margine del ricorso, dall’Avv. FERRANTE Mariano, per legge

domiciliato presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione,

Piazza Cavour;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato l’11

luglio 2006.

Udita, la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19 ottobre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che il relatore designato, nella relazione depositata il 30 marzo 2009, ha formulato la seguente proposta di definizione:

” C.A. ha proposto ricorso per cassazione il 5 giugno 2007 sulla base di undici motivi avverso il provvedimento della Corte d’appello di Roma depositato l’1 luglio 2006 con cui il Ministero della giustizia veniva condannato ex L. n. 89 del 2001 al pagamento di un indennizzo di Euro 1.000,00 oltre interessi – ed oltre spese per l’importo complessivo di Euro 750,00 – per l’eccessivo pro-trarsi di un processo svoltosi in primo grado innanzi al Tribunale di Noia ed in appello alla Corte d’appello di Napoli per ottenere l’adeguamento ISTAT dell’indennità di mobilità.

Il Ministero non ha resistito con controricorso.

Il decreto impugnato ha accolto la domanda di equo indennizzo per danno non patrimoniale nella misura dianzi specificata, avendo accertato una durata irragionevole del processo di un anno, sulla base di una ritenuta durata ragionevole di anni tre in primo grado e due in appello.

Con il primo motivo di ricorso si censura la pronuncia per non avere dato applicazione all’art. 6 della Conv. di Strasburgo secondo l’interpretazione fornita dalla Corte Edu. Il motivo appare del tutto inconsistente, limitandosi a delle astratte affermazioni di principio senza muovere alcuna censura concreta a punti o capi del decreto specificatamente individuati.

Con il secondo motivo si lamenta la errata individuazione del periodo di normale durata del processo. Anche tale motivo è inammissibile.

Lo stesso è basato sulla astratta e tautologica affermazione che la giusta durata del processo – stante la sua natura – avrebbe dovuto essere di due anni per il primo grado ed uno e mezzo per il secondo, senza chiarire in riferimento alla fattispecie in esame le ragioni per cui si sarebbe dovuto adottare tale criterio.

E’, infatti, noto che i termini stabiliti dalla Cedu non sono rigidi ma costituiscono dei criteri di riferimento che possono quindi essere, entro certi limiti, adattati con valutazione del giudice al caso concreto, e che la natura di lavoro di una causa non comporta di per sè l’applicazione di un termine di durata ragionevole ridotto, dipendendo tale determinazione pur sempre dalla valutazione della complessità della causa rimessa al giudice, in ordine alla quale non si rinviene nel motivo alcuna censura.

Con il terzo e il quarto motivo si deduce, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, il mancato computo dell’indennizzo riferito all’intera durata del processo anzichè al solo periodo di irragionevole durata. I motivi sono manifestamente infondati, avendo a più riprese affermato questa Corte che la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a, espressamente stabilisce che il danno debba essere liquidato per il solo periodo eccedente la durata ragionevole ed essendo tale norma insuperabile, posto che essa esprime ed attua il disposto costituzionale (art. 111) sulla necessaria dislocazione temporale minima di un giusto processo.

Il quinto motivo – sul quantum dell’indennizzo liquidato – è manifestamente infondato, perchè la Corte d’appello si è attenuta agli standard CEDU, che prevedono come base minima la somma di Euro 1.000,00 per ogni anno di ritardo.

Con il sesto e il settimo motivo, si deduce sotto diversi profili il mancato riconoscimento di un bonus di Euro 2.000,00 in ragione della natura di lavoro della controversia.

Tali censure sono manifestamente infondate. La Corte di Strasburgo ha, infatti, affermato il principio che il bonus in questione debba essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha poi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e quelle previdenziali. Tutto ciò non significa che dette cause siano necessariamente di per sè particolarmente importanti con una conseguente liquidazione automatica del bonus in questione, ma che, data la loro natura, è possibile che lo siano con una certa frequenza. Tale valutazione di importanza rientra nella ponderazione del giudice di merito che, come è noto, dispone di una certa discrezionalità nel variare l’importo di indennizzo per anno di ritardo (da Euro mille a Euro millecinquecento, salvo limitato discostamento in più o in meno a seconda delle circostanze) e che in tale valutazione, qualora riconosca la causa di particolare incidenza sulla situazione della parte, può arrivare a riconoscere il bonus in questione. Tutto ciò non implica uno specifico obbligo di motivazione essendo elemento compreso nella valutazione che concerne la liquidazione del danno, per cui, se il giudice non si pronuncia sul bonus, implicitamente ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo.

Con i motivi dall’otto all’undici si censura sotto diversi profili la liquidazione delle spese. Gli stessi appaiono infondati, avendo il giudice correttamente liquidato le spese del giudizio in materia di equa riparazione in base alle tariffe dei procedimenti ordinari contenziosi. L’undicesimo motivo, con cui si deduce vizio di motivazione, è poi inammissibile, perchè non reca la specifica articolazione riassuntiva a conclusione dell’esposizione. Com’è noto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603), in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità”.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, alla quale non sono stati mossi rilievi critici, sono condivisi dal Collegio;

che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato;

che nessuna statuizione sulle spese deve essere emessa, non avendo l’intimato Ministero svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010

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