Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26389 del 07/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 07/12/2011, (ud. 27/10/2011, dep. 07/12/2011), n.26389

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Presidente –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

M.E., rappresentato e difeso dall’avv. Cacciaglia Vincenzo

ed elettivamente domiciliato in Rema presso lo studio dell’avv.

Enrico Volpetti in via Germanico n. 109;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma in via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 34/10/07, depositata il 19 marzo 2007.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27 ottobre 2011 dal Relatore Cons. Antonio Greco;

udito l’avv. Gaetano Castellucci per il ricorrente.

Fatto

LA CORTE

ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 34/10/07, depositata il 19 marzo 2007, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ufficio di Civitavecchia, in riforma della decisione di primo grado ha dichiarato legittimo l’avviso di accertamento ai fini dell’IRPEF per l’anno 1996, emesso a carico di M.E., in relazione all’attività di intermediario immobiliare, a seguito della determinazione di un maggior reddito, secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, ai sensi dell’art. 3, commi 181 e 183, della L. 28 dicembre 1995, n. 549, mediante l’applicazione dei parametri approvati con il d.P.C.M. 29 gennaio 1996, come modificato dal D.P.C.M. 27 marzo 1997, ed all’esito dell’invito all’instaurazione del contraddittorio cui il contribuente non dava seguito.

Nei confronti della decisione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza, con riguardo alla rilevanza assegnata alla mancata risposta all’invito al contraddittorio, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nonchè per violazione della L. n. 28 del 1999, art. 25, comma 1, e del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39; con il secondo motivo, con riguardo alla mancata applicazione al periodo d’imposta 1996 degli studi di settore, approvati nel 1998, critica la sentenza per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nonchè per violazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e della circolare del 14/03/2001 n. 25/E dell’Agenzia delle entrate.

I due motivi, come articolati nel ricorso, sono inammissibili in quanto, pur deducendosi con essi violazione di norme di diritto, non vengono corredati dei quesiti di diritto prescritti dall’art. 366-bis c.p.c., nè, per i profili con i quali si denuncia vizio di motivazione, appaiono idonei rispetto a quanto prescritto dal codice di rito, ove si consideri che “in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità” (Cass, sezioni unite, 1 ottobre 2007, n. 20603;

Cass. n. 8897 del 2008).

In conclusione, si ritiene, che, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1, e art. 380-bis cod. proc. civ., il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio in quanto inammissibile”;

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti costituite;

che non sono state depositate conclusioni scritte nè memorie;

considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e pertanto, ribaditi i principi di diritto sopra enunciati, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.500, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2011

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