Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26383 del 20/12/2016


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Cassazione civile, sez. II, 20/12/2016, (ud. 09/11/2016, dep.20/12/2016),  n. 26383

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10035/2015 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CRATI 20,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI SABATINI, rappresentata e

difesa dall’avvocato ANTONINO MACERA, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

C.P., N.G., in proprio e quali soci della

N. & C. S.n.c., elettivamente domiciliati in ROMA,

LUNGOTEVERE DELLE NAVI 20, presso lo studio dell’avvocato CAMILLO

VISPASIANI, rappresentati e difesi dall’avvocato LUCIO OLIVIERI in

virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

K.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2335/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 17/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Sabatini per delega dell’Avvocato Macera per la

ricorrente e l’Avvocato Olivieri per i controricorrenti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 15/2/1985, la società N. e C. S.n.c., a seguito di contestazioni sul rispetto delle distanze tra la palazzina in costruzione in (OMISSIS) e l’immobile dei fratelli G., li conveniva in giudizio per accertare l’avvenuto rispetto delle norme edilizie. I fratelli G., costituitisi, in via riconvenzionale chiedevano che fosse accertata la violazione delle distanze minime legali di 10 metri tra la palazzina in costruzione e le pareti del loro fabbricato e del relativo “appodiato” (parte annessa all’edificio principale) posto sul lato sud, chiedendo che ne fosse disposto l’arretramento fino alla distanza legale, con conseguente parziale demolizione.

I espletata c.t.u., il Tribunale di San Benedetto del Tronto con sentenza n. 181 del 2006 individuava in metri 10 la distanza minima legale tra i due fabbricati e, rilevato che questa non era stata rispettata, ordinava l’arretramento di quello dell’impresa.

La Corte di Appello di Ancona accoglieva l’impugnazione del N. e del C., anche nella qualità, all’esito del supplemento di c.t.u., disposto per verificare il rispetto delle distanze legali con riguardo alla sopravvenuta normativa edilizia più favorevole agli appellanti, di cui il c.t.u. non aveva tenuto conto. Al riguardo, la Corte territoriale osservava che dalla c.t.u. espletata in primo grado era emerso che “il fabbricato realizzato dalla parte attrice – appellante era a distanza inferiore a metri 10 (precisamente metri 7,57) dal fabbricato di parte convenuta, se si calcola tale distanza dal pilastro reggente un corpo dell’edificio sino allo appodiato dell’edificio di parte convenuta”. In particolare la Corte anconetana osservava che le “supplementari valutazioni peritali acquisite nel presente grado sono di incontestabile chiarezza alla luce di quanto obiettivamente rilevato in termini di evidenze materiali, rapportabili alla normativa sopravvenuta” (pagina 16); condivideva la conclusione del c.t.u. che escludeva che i due fabbricati in questione potessero essere qualificati come tra loro “prospicienti”, secondo la definizione contenuta nello strumento urbanistico, risultando essi tra loro quasi paralleli; concludeva che “non trattandosi di edifici prospicienti, in senso tecnico, la questione della presunta violazione delle distanze legali appare obiettivamente infondata” (pagina 16) non potendosi comunque far “riferimento al pilastro sostegno che, essendo propaggine strutturale, non potrebbe mai considerarsi quale elemento di identificazione fisionomica della struttura dell’edificio finestrato” (pagina 17).

Avverso tale decisione proponevano ricorso i fratelli G. e la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8737/2012 cassava la sentenza gravata, in accoglimento del secondo motivo, rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Bologna in sede di rinvio, affinchè provvedesse ad una nuova valutazione delle risultanze della CTU, e chiarisse, anche alla luce della normativa edilizia sopravvenuta applicabile alla fattispecie, se vi fosse stata o meno violazione della normativa in materia di distanze.

Osservava che la sentenza impugnata non offriva una chiara ricostruzione della situazione di fatto, ne dava conto analiticamente dell’applicazione del nuovo regolamento edilizio (che doveva essere applicato in quanto più favorevole, vedi Cass. 2003 n. 8512 e seguenti conformi) alla questione controversa. In particolare aveva recepito le conclusioni del c.t.u., che aveva escluso trattarsi di edifici prospicienti, ma non chiariva poi quale norma del regolamento edilizio aveva applicato per giustificare la conclusione secondo la quale non si era verificata una violazione delle distanze (posto che era stata accertata una distanza di 7,57 metri tra pilastro di sostegno dell’edificio dei resistenti e l’appodiato dei ricorrenti). Inoltre la Corte distrettuale non indicava il metodo a tal fine utilizzato per il calcolo e i relativi punti di riferimento. I G. riassumevano la causa dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna e nella resistenza del C. e del N., la Corte adita con la sentenza n. 2335 del 17 novembre 2014, rigettava la domanda riconvenzionale degli attori (rectius dei convenuti), condannando i medesimi al rimborso delle spese di lite relative ai vari gradi di giudizio.

La decisione rilevava in primo luogo che, agendo quale giudice del rinvio, non poteva esaminare questioni sulle quali doveva ritenersi già formato il giudicato quali quella secondo cui l’unica parte del fabbricato della società potenzialmente idonea a violare la normativa in materia di distanze era quella posta a piano terra, essendo stata esclusa qualsivoglia lesione per i piani superiori.

Del pari era inammissibile la richiesta di risarcimento danni avanzata dai G., posto che la stessa era stata respinta dal Tribunale senza che fosse stato proposto appello incidentale.

Nel merito, e provvedendo alle indagini demandate dalla sentenza della Cassazione, rilevava che le disposizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, non sono immediatamente operative tra i privati, ponendo dei vincoli al potere regolamentare dei Comuni, ma che nella fattispecie emergeva che, in relazione alle due costruzioni relativamente alle quali era richiesto il rispetto delle distanze (pilastro – appodiato) nessuna delle due presentava delle pareti finestrate, occorrendo a tal fine intendersi delle pareti munite di aperture qualificabili come vedute.

Dalle foto in atti emergeva che la costruzione dei G. era stata munita nel corso dei lavori di modifica di una apertura lucifera, che non consentiva la veduta in alienum, essendo munita di un’inferriata. Non potendosi quindi invocare il suddetto D.M. e guardando alla disciplina di fonte comunale, risultava che il PRG del 1972 nulla disponeva quanto alle distanze, rinviando al D.M. del 1968.

Il successivo PRG del 1982, entrato in vigore nel 1985, con l’art. 25 delle NTA, pur prevedendo la distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, disponeva altresì, nel caso in cui esistano nelle proprietà limitrofe edifici costruiti anteriormente alla adozione della presente variante generale, la cui distanza dal confine non consente il rispetto delle distanze previste nel presente paragrafo, che “le nuove costruzioni potranno soddisfare solo alle distanze dai confini pari alla metà della propria altezza con un minimo assoluto di ml. 5,00”.

Dalle indagini peritali emergeva che il fabbricato della società, costruito dopo l’appodiato dei G., è alto m. 8,85 ed il pilastro oggetto di causa si trova a m. 6,04 dal confine, così che risulta rispettata la distanza minima di metri 5.

Il successivo PRG del 1992 all’art. 13 lett. o), nel regolare il distacco tra edifici, dispone che due pareti si intendono prospicienti quando l’angolo formato dal prolungamento delle stesse è inferiore a 70^ e la sovrapposizione è superiore ad un quarto della distanza minima tra le pareti stesse.

Alla luce di tale previsione, il CTU aveva accertato che la sovrapposizione tra i due corpi di fabbrica è di metri 1,75, sicchè non sussiste prospicienza alla luce della previsione regolamentare, non potendosi invocare la maggiore distanza di 10 metri tra fabbricati di cui all’art. 25 delle NTA, ma solo la distanza minima dal confine determinata in assoluto in 5 metri.

Infine, chiariva che il CTU aveva provveduto a tali misurazioni avvalendosi del metodo lineare-diretto-orizzontale, come ritenuto corretto dalla giurisprudenza di legittimità in materia di distanze tra costruzioni, e conformemente a quanto richiesto dai G..

Per l’effetto il pilastro era da reputarsi a distanza legale.

G.R. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

Gli intimati N. e C. hanno resistito con controricorso. K.M., alla quale il defunto G. Kmidio aveva trasferito la sua quota sull’immobile oggetto di causa, non ha svolto difese in questa fase.

La ricorrente ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 901 e 2697 c.c., nonchè il difetto di motivazione in relazione ad un fatto decisivo del giudizio.

Infatti la sentenza gravata avrebbe affermato che l’apertura esistente nella parete del fabbricato dei ricorrenti non sarebbe una veduta per la presenza di un’inferriata, senza però considerare che tale elemento di per sè non impedisce che possa parlarsi di veduta.

Inoltre la decisione pecca sul piano motivazionale assumendo la presenza dell’inferriata senza che di tale circostanza emerga traccia nelle espletate CTU.

Il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè dell’art. 345 c.p.c. in tema di divieto di nova in napello.

Ed, invero, la applicabilità del D.M. n. 1444 del 1968, non era mai stata contestata dai resistenti i quali avevano sostenuto la legittimità del loro manufatto, non già per l’assenza di finestre, quanto per la natura abusiva della costruzione di parte ricorrente.

La natura finestrata delle pareti era quindi pacifica, in quanto non contestata nè poteva essere oggetto di discussione per la prima volta in grado di appello trattandosi di eccezione nuova e come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c., comma 2.

Con il terzo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, nonchè dell’art. 25 delle NTA del PRG del Comune di S. Benedetto del Tronto e dell’art. 13 lett. o) del dello stesso Comune.

Ed, invero costituirebbe principio pacifico nella giurisprudenza quello secondo cui la nozione di parete finestrata è onnicomprensiva e ricomprende sia le pareti sulle quali si aprono vedute sia quelle che vedono la presenza di semplici luci.

Inoltre le previsioni del detto D.M. sono state recepite dagli stessi strumenti urbanistici dovendo quindi trovare applicazione la maggiore distanza di metri 10, con la conseguente illegittimità del manufatto realizzato dalla società.

Ancora la disposizione di cui all’art. 25 delle NTA, relativamente alla presenza nelle proprietà limitrofe di edifici costruiti anteriormente, si pone in contrasto con le previsioni del D.M. il cui carattere inderogabile ne impone l’applicazione, anche in relazione alla diversa disposizione di cui all’art. 13 lett. o) del R.E..

Il quarto motivo denunzia omessa, insufficiente o carente motivazione nella parte in cui, ritenendo che in base alla previsione di cui all’art. 25 delle NTA fosse sufficiente rispettare solo il distacco assoluto di 5 metri dal confine, ha omesso di considerare in che misura l’edificio dei G. non consenta di rispettare le distanze previste dal paragrafo delle medesime NTA.

Infine con il quinto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nella parte in cui i ricorrenti sono stati condannati al rimborso delle spese di lite in favore delle controparti, laddove una complessiva valutazione della vicenda avrebbe dovuto portare ad una diversa graduazione delle spese di lite.

2. Il primo motivo deve essere disatteso.

Lo stesso in parte risulta inammissibile in quanto, pur trattandosi di ricorso proposto avverso sentenza intervenuta in data successiva al 12 settembre 2012, per la quale risulta quindi applicabile la novellati previsione di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, denunzia la sussistenza di un vizio motivazionale, senza attenersi alle prescrizioni scaturenti dalla novella, così come condivisibilmente interpretata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. nn. 8053 e n. 8054/2014).

In tal senso, oltre a richiamarsi nella rubrica del ricorso la formula della previgente disposizione, non risulta nemmeno possibile ricondurre la doglianza così come proposta alla attuale formulazione della norma, non constando la censura nella denunzia circa l’omessa disamina di un fatto decisivo oggetto di discussione, quanto piuttosto nella non condivisa valutazione circa la ricorrenza nella fattispecie di una semplice aperura lucifera, anzichè di una veduta.

Tale considerazione permette altresì di evidenziare anche la insussistenza della denunziata violazione di legge, posto che la Corte distrettuale, avvalendosi della visione diretta delle foto in atti (risultando quindi sconfessata l’affermazione di parte ricorrente secondo cui la qualificazione in termini di semplice luce sarebbe avvenuta in assenza di qualsivoglia prova) ha, con una valutazione in fatto, esclusivamente riservata al giudice di merito, ritenuto che nella fattispecie l’apertura in esame non presentasse i caratteri della veduta, e ciò proprio alla luce della giurisprudenza richiamata da parte ricorrete, che appunto richiede ai fini della configurazione della veduta i concorrenti requisiti della prospectio e della inspectio, circostanza questa che risulta invece esclusa per la presenza di un’inferriata che, sempre con giudizio in fatto, è stata ritenuta in grado di impedire la veduta in alienum.

3. Del pari infondato risulta il secondo motivo di ricorso.

In tal senso deve sicuramente escludersi la dedotta violazione dell’art. 345 c.p.c., occorrendo rammentare che il presente giudizio, essendo già pendente alla data del 30 aprile 1995, è sottoposto alla disciplina anteriore alle modifiche di cui alla L. n. 353 del 1990, disciplina che appunto consentiva la libera possibilità di poter sollevare eccezioni anche in senso stretto in grado di appello.

Tuttavia deve escludersi che in realtà la deduzione circa l’assenza eli aperture che abbiano le caratteristiche della veduta sulle pareti dei fabbricati oggetto di causa, si configuri alla stregua di un’eccezione, trattandosi a ben vedere della contestazione della ricorrenza degli elementi costituivi che giustificherebbero l’applicazione della disciplina invocata da parte ricorrente, dovendosi quindi escludere che si tratti di allegazione e deduzione di fatti impeditivi.

Inoltre, e premessa l’inapplicabilità sempre ratione temporis, della novellata previsione di cui all’art. 115 c.p.c., il tenore complessivo delle difese inizialmente proposte dalla società attrice al fine di contrastare l’avversa pretesa al rispetto delle distanze legali, e fondate sulla dedotta natura abusiva della costruzione G., non consente di affermare che sia stata non contestata, in quanto espressamente riconosciuta ovvero implicitamente ammessa, per effetto della proposizione di difese incompatibili con la sua negazione, la circostanza che le pareti della costruzione di parte ricorrente fossero munite di aperture tali da farla considerare come finestrata ai fini dell’applicazione del D.M. n. 1444 del 1968.

4. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.

La tesi della ricorrente si incentra sull’affermazione secondo cui la Corte territoriale avrebbe errato nell’interpretare le previsioni di cui al menzionato del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, nel presupporre per la sua applicazione l’esistenza su almeno una delle due pareti a confine di aperture aventi le caratteristiche della veduta, sostenendo a contrario che sarebbe a tal fine sufficiente anche la presenza di una mera apertura lucifera.

La soluzione seguita dalla Corte bolognese merita di essere invece condivisa e proprio in considerazione della sua conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte che in numerose occasioni ha ribadito) che l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, sicchè la dizione “pareti finestrate” contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9 – il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti – non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come “vedute”, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette “lucifere” (Cass. n. 6604/2012; conf. Cass. n. 19092/2012, e nella giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 4 settembre 2013 n. 4451).

Ritiene il Collegio di dover dare continuità alla propria giurisprudenza, denotandosi per l’effetto l’infondatezza di tutte le censure sviluppate nel motivo in esame.

Ed, infatti, una volta escluso che possa parlarsi nella fattispecie di pareti finestrate, resta esclusa anche l’invocabilità quale norma precettiva ed inderogabile della previsione di cui all’art. 9 del detto D.M., ben potendo quindi gli strumenti urbanistici locali intervenire dettando una disciplina che fissi distanze diverse ed inferiori rispetto a quelle previste dal più volte richiamato art. 9, così che deve escludersi che le previsioni di cui all’art. 25 delle NTA, in relazione all’ipotesi di edifici costruiti anteriormente alla adozione della Variante Generale, nonchè dell’art. 13, lett. o) del nella parte in cui detta i presupposti per stabilire l’esistenza di edifici prospicienti, siano illegittime per avere derogato alle indicazioni vincolanti del D.M. n. 1444 del 1968.

5. Il quarto motivo è inammissibile alla luce delle precedenti considerazioni circa la necessità di dover fare applicazione alla fattispecie della novellata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tenuto conto che il motivo denunzia un vizio motivazionale prospettato sulla base della norma ormai abrogata.

6. Infine parimenti infondato è il quinto motivo di ricorso.

infatti, vale ricordare che secondo la costante giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 23 febbraio 2012 n. 2730) in tema di spese processuali, solo la compensazione dev’essere sorretta da motivazione, e non già l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato, atteso che il vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove ipotizzato, sarebbe relativo a circostanze discrezionalmente valutabili e, perciò, non costituenti punti decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella assunta (conf. Cassazione civile sez. 6, 28 aprile 2014 n. 9368).

Pertanto deve escludersi la dedotta violazione di legge, avendo il giudice di merito fatta corretta applicazione della previsione di cui all’art. 91 c.p.c., tenuto conto dell’effettiva necessità di affermare la prevalente soccombenza della ricorrente, la quale ha visto alla fine disattesa la domanda volta al rispetto delle distanze legali, domanda dalla stessa coltivata in tutti i gradi di giudizio, laddove invece la società attorea, una volta disattesa la sua domanda Originaria di accertamento dell’illegittimità della costruzione G., ha mostrato acquiescenza al rigetto.

Nè risulta possibile denunziare la violazione dell’art. 92 c.p.c., posto che secondo la giurisprudenza di questa (cfr. Cass. n. 22457/2014, Cass. n. 22224/2014; Cass. n. 20558/2012) la reciprocità della soccombenza è circostanza che consente, ma non impone, la compensazione delle spese di giudizio, essendo vietato al giudice soltanto gravare di tale onere la parte che sia risultata totalmente vittoriosa, mentre la facoltà prevista dall’art. 92 c.p.c., comma 2, costituisce oggetto di un potere prettamente discrezionale, il cui mancato esercizio non può essere sindacato in sede di legittimità. (Nella fattispecie esaminata dalla prima pronuncia citata, il ricorrente si doleva di essere stato condannato al pagamento delle spese del giudizio pur se vi era stato un esito di reciproca soccombenza che – a suo parere – comportava una pronuncia di compensazione).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue.

8. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato improcedibile (oppure rigettato), sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

I,a Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% compensi, ed accessori come per legge; sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma del dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2016

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