Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2637 del 04/02/2021

Cassazione civile sez. II, 04/02/2021, (ud. 02/12/2020, dep. 04/02/2021), n.2637

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21712-2018 proposto da:

L.G.P., rappresentata e difesa dall’Avvocato RAFFAELE

SODDU, per procura speciale agli atti;

– ricorrente –

contro

P.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato RENATO

MARGELLI, e dall’Avvocato SARA MERELLA, per procura speciale agli

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 601/2018 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI,

depositata il 25/6/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 2/12/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Cagliari, con sentenza del 15/1/2015, ha condannato P.A. all’arretramento dell’edificio realizzato all’interno del lotto n. (OMISSIS) della lottizzazione convenzionata denominata “(OMISSIS)” del Comune di (OMISSIS), distinto in catasto al f. (OMISSIS), fino alla distanza di cinque metri dal confine con il lotto n. (OMISSIS), di proprietà di L.G.P., e fino alla distanza di dieci metri dall’edificio di quest’ultimo, ed ha condannato L.G.P. all’arretramento dei balconi ai piani rialzato e mansarda con le relative scale d’accesso, nonchè all’eliminazione delle luci realizzate al piano garage in difformità della concessione edilizia, condannando, infine, entrambe le parti al risarcimento dei danni quantificati, per ciascuno, in Euro 25.000,00.

Il tribunale, in sostanza, ha ritenuto, innanzitutto, che la licenza edilizia n. 178 del 2004, con la quale la convenuta era stata autorizzata ad edificare sul confine, avesse violato la disposizione del programma di fabbricazione vigente all’epoca della convenzione di lottizzazione, che imponeva una distanza tra le pareti (di cui almeno una finestrata) pari a dieci metri e, conseguentemente, ne dispose la disapplicazione. In ogni caso, il tribunale ha ritenuto, pure nell’ipotesi in cui la normativa in vigore avesse riconosciuto la possibilità di costruire sul confine, tale possibilità avrebbe dovuto essere esclusa in ragione del principio della prevenzione, essendo pacifico che l’attore aveva costruito per primo a cinque metri dal confine.

Il tribunale è pervenuto ad analoghe conclusioni sulla domanda riconvenzionale della convenuta, rilevando la violazione delle distanze legali a causa della costruzione da parte del L. dei balconi e delle scale d’accesso al piano rialzato e alla mansarda ad una distanza inferiore a cinque metri dal confine e condannando lo stesso al relativo arretramento; nonchè all’eliminazione delle luci realizzate al piano garage in difformità rispetto alla concessione edilizia.

P.A. ha proposto appello avverso la sentenza del tribunale.

L.G.P. ha resistito al gravame proponendo, a sua volta, appello incidentale.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, innanzitutto, ha accolto l’appello principale ed, in parziale riforma della sentenza impugnata, che ha confermato per il resto, ha rigettato la domanda volta ad ottenere l’arretramento della costruzione di proprietà di P.A. fino al rispetto della distanza di dieci metri dalla parete finestrata dell’edificio del L. e la condanna della stessa al risarcimento dei danni; ed ha, in secondo luogo, rigettato l’appello incidentale proposto da L.G.P., che ha condannato al rimborso delle spese dei due gradi di giudizio.

La corte, in particolare, ha ritenuto che il tribunale avesse erroneamente applicato al caso in esame il principio della prevenzione. La corte, infatti, dopo aver premesso che il L., nel costruire l’immobile, aveva pacificamente commesso un abuso edilizio, rappresentato (come emerge dalla sentenza penale resa dalla stessa corte d’appello nel 2014, dal verbale di sopralluogo redatto dai responsabili dell’area tecnica del Comune in data 7/10/2005 ed, infine, dalla relazione tecnico-descrittiva elaborata su incarico dell’appellato da un perito edile il 14/3/2007) dalla “realizzazione delle finestre in posizione differente da quanto prescritto nella concessione”, essendo stato accertato che “una delle aperture poste sul lato sud del fabbricato… risulta traslata nella medesima parete di mt. 0.60 verso il lato ovest del fabbricato”, ha ritenuto che “gli edifici abusivi non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze”, potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati. Ciò comporta, secondo la corte, che “l’abusività delle aperture praticate dal L. nella parete antistante il fabbricato della P…. preclude che all’appellante possa imporsi l’osservanza della distanza legale di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dal D.M. n. 1448 del 1968, art. 9”. Infatti, ha proseguito la corte, “essendo l’antistanza creata illegittimamente dal L., mediante abuso edilizio, la P. non è tenuta al rispetto della distanza legale (10 metri tra pareti finestrate) che si applicherebbe esclusivamente nel caso in cui le aperture nella parete dello stabile dell’appellato fosse(ro) conform(i) al progetto edilizio” posto che, come affermato dal consulente tecnico d’ufficio, quando “le pareti non sono finestrate e gli edifici sono antistanti, la distanza tra edifici deve essere minimo 5 metri”. L’edificio realizzato dalla P. “posta sul confine, come previsto dalla concessione edilizia e a cinque metri dalla parete dell’edificio del L., che con riferimento alla porzione antistante avrebbe dovuto essere priva di aperture” – pertanto, è regolare, come confermato, oltre che dal consulente tecnico d’ufficio (secondo il quale, quando le pareti non sono finestrate e gli edifici sono antistanti, la distanza tra edifici deve essere minimo di cinque metri per cui la concessione edilizia n. 178 del 2004 era conforme sia alla normativa di attuazione del programma di fabbricazione vigente al momento dell’approvazione del piano di lottizzazione, sia alla normativa regionale, essendo rispettosa delle distanze prescritte tra i confini nonchè del tipo edilizio previsto per il lotto (OMISSIS)), anche dalla Dott.ssa L.E., direttrice del servizio dell’urbanistica della regione la quale, a seguito di istanza presentata dall’appellato nel 2005, aveva rilevato “la legittimità del planivolumetrico rispetto al fabbricato edificato e quello edificando e aveva accertato l’assenza di profili di illegittimità della concessione”. D’altra parte, ha aggiunto la corte, un’ulteriore conferma si rinviene nelle pronunce emesse dal tribunale penale ed, in sede di gravame, dalla corte d’appello, che ha rilevato nella condotta del L. carattere di “straordinaria e astuta mala fede”, volta ad “impedire alla P. di edificare nel suo lotto di terreno, dapprima ottenendo l’illegittima concessione all’apertura di finestre sul lato dell’immobile verso il confine con la P. e poi addirittura realizzando le aperture con un significativo slittamento laterale rispetto al progetto assentito”.

La corte, quindi, ha ritenuto che l’appello principale della P. dovesse essere accolto per cui, in riforma della sentenza appellata, accertata la conformità dell’opera in quanto realizzata nel rispetto delle prescrizioni della concessione edilizia e delle distanze tra edifici, ha rigettato le domande volte ad ottenere l’arretramento dell’opera fino al rispetto della distanza di dieci metri dalla parete finestrata dell’immobile di proprietà dell’appellato ed il risarcimento del danno.

La corte, invece, ha ritenuto che fosse infondato l’appello incidentale con il quale il L. si è doluto della condanna alla demolizione delle luci e all’arretramento dei balconi e della scala. La corte, sul punto, ha rilevato, per un verso, che le luci realizzate dal L. nella parete del garage, non avendo le caratteristiche di bocche di lupo, risultano difformi rispetto alla concessione edilizia, che prevede una parete cieca, e, per altro verso, che i balconi sono stati costruiti ad una distanza inferiore a cinque metri dal confine con la proprietà della P. e, dunque, in violazione delle distanze.

La corte, infine, avuto riguardo al valore della controversia ed al comportamento processuale tenuto dalle parti, ha condannato l’appellato a rimborsare all’appellante le spese dei due gradi di giudizio.

L.G.P., con ricorso notificato il 24/7/2018, ha chiesto, per otto motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente notificata in data 28/6/2018.

P.A. ha resistito con controricorso notificato il 2/10/2018.

Il ricorrente, in data 20/11/2020, ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 degli artt. 872 e 873 c.c. e dei principi in tema di distanze tra pareti finestrate, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto legittimo l’edificio dell’appellante principale sul rilievo che, ai fini del calcolo delle distanze, non bisogna tener conto dei manufatti abusivi.

1.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello ha violato sia il principio per cui la distanza di dieci metri tra pareti frontestanti deve essere rispettata anche nel caso in cui nella prima costruzione vi siano abusi edilizi, sia il principio per cui, ai fini dell’applicazione delle distanze tra pareti finestrate, è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta senza che sia necessario che insistano nelle parti in cui le pareti effettivamente si fronteggiano.

1.3. L’applicazione dei predetti principi comporta, ha concluso il ricorrente, che la concessione edilizia che ha autorizzato l’appellante a costruire l’edificio sul confine tra i fondi e a distanza di cinque metri dalla parete finestrata del L., è illegittima e deve essere, quindi, disapplicata, come aveva correttamente ritenuto il tribunale.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 112,342,348 e 348 bis c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha dichiarato inammissibile il motivo d’appello avverso la statuizione sul distacco di cinque metri dal confine imposto dall’art. 10 del P.d.F..

2.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che il motivo non recava la chiara individuazione delle questioni relative al confine e dei punti contestati della sentenza impugnata e non conteneva una parte argomentativa che confutasse le ragioni addotte dal tribunale e che l’inammissibilità di tale motivo era rilevabile d’ufficio con la conseguente formazione del giudicato interno su quella statuizione e, per l’effetto, l’inammissibilità degli altri motivi d’impugnazione.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, senza motivazione o con motivazione apparente, ha escluso la violazione dell’art. 10 del P.d.F. trattando solo della distanza tra fabbricati, senza dire nulla in ordine alla violazione della disposizione sul distacco dal confine stabilita dallo stesso articolo, sulla quale, invece, il tribunale si era pronunciato.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per omessa pronuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata lì dove la corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sulla censura relativa al distacco dal confine, ove si ritenga che la stessa sia stata correttamente posta.

5.1. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, riformando la sentenza del tribunale, ha dichiarato la legittimità della concessione edilizia della P. richiamando acriticamente le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio e senza argomentare sulle ragioni di dissenso con il tribunale e con il consulente tecnico di parte dell’appellato, tanto più che il consulente tecnico d’ufficio si era espresso su valutazioni giuridiche, come la nozione di “costruzione in aderenza”, l’interpretazione del p.D.L. sul distacco dal confine e dai fabbricati, la rilevanza della normativa regionale sulle distanze in relazione alle altre fonti, sulle quali era necessaria una espressa pronuncia del giudice.

5.2. La corte, inoltre, ha richiamato il parere espresso da una funzionaria regionale che non poteva essere considerato trattandosi di prova esclusa dal primo giudice, senza considerare, invece, le determinanti note ufficiali, regolarmente acquisite in giudizio, indirizzate al Comune da altri funzionari regionali) che si erano espressi nel senso dell’illegittimità della concessione edilizia della P..

5.3. La corte, infine, ha menzionato le sentenze penali le quali, invece, non contengono affermazioni rilevanti ai fini della risoluzione delle questioni oggetto del giudizio civile, come il rilievo, l’interpretazione ed il coordinamento dei diversi strumenti urbanistici e della normativa statale e regionale sulle distanze tra fabbricati e dal confine.

6. Con il sesto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione degli artt. 873 e 875 c.c. e dei principi di prevenzione di costruzioni in aderenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha escluso l’applicazione del principio di prevenzione senza considerare che l’art. 16 delle norme di attuazione del PUC ha stabilito uno stacco minimo dai confine di cinque metri a salvo che non sia prevista la “costruzione in aderenza”, vale a dire in aderenza ad altro edificio e non al confine, per cui, avendo il L. costruito per primo a distanza di cinque metri e dieci centimetri dal confine, era esclusa possibilità per la P. di costruire in aderenza dovendo collocarsi, in forza del principio di prevenzione, a cinque metri dal confine.

7. Con il settimo motivo, il ricorrente, lamentando l’error in procedendo per violazione degli artt. 183,184 e 345 c.p.c. e per violazione del giudicato interno, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha illegittimamente posto a fondamento della sua decisione un documento, e cioè il parere della Dott.ssa La., che non era stato ammesso dal tribunale per violazione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c..

8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente, lamentando la falsa applicazione degli artt. 873,875,905 e 907 c.c. e del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato l’appello incidentale senza considerare che gli artt. 873 e 875 e il D.M. n. 1444 cit., art. 9 non si applicano per la distanza delle luci dal confine e che i balconi aggettanti non devono essere computati ai fini della distanze.

9.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato, con assorbimento di tutti gli altri.

9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l’amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del 2017, in motiv.). In effetti, le norme di cui all’art. 872 c.c., comma 2, in tema di distanze tra costruzioni nonchè quelle che in tale materia sono integrative del codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell’ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 c.c. e ss. (Cass. SU n. 5143 del 1998). Nello stesso modo, le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.). In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perchè queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sè la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Cass. n. 7563 del 2006, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la violazione delle distanze da parte del fabbricato del ricorrente: questi aveva censurato la decisione sostenendo che i resistenti avevano costruito in assenza di concessione ma la S.C. ha affermato, conclusivamente, che una volta che il fabbricato sia stato costruito, anche in assenza di concessione, il secondo frontista, in osservanza del principio della prevenzione, è tenuto a rispettare la distanza legale tra gli edifici, a meno che non abbia acquistato in base ad un titolo valido il corrispondente diritto di servitù; conf., per l’affermazione dello stesso principio, C:ass. n. 10173 del 1998; Cass. n. 10875 del 1997; Cass. n. 4372 del 2002; in seguito, Cass. n. 17286 del 2011; Cass. n. 4833 del 2019).

9.3. La sentenza impugnata, lì dove ha ritenuto che “gli edifici abusivi non possono essere tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze”, potendosi imporre alla erigenda costruzione il rispetto dei dieci metri solo se i corpi in questione sono stati legittimamente realizzati, e che, di conseguenza, nel caso esaminato, a fronte delrabusività delle aperture praticate dal L. nella parete antistante il fabbricato della P.”, quest’ultima non era tenuta all’osservanza della distanza legale di metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dal D.M. n. 1448 del 1968, art. 9″, non si è, evidentemente, attenuta ai principi esposti.

9.4. La sentenza impugnata, quindi, dev’essere cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Cagliari che, in diversa composizione, si adeguerà ai rilievi esposti, ferma restando la necessità di procedere alla corretta individuazione della normativa in tema di distanza applicabile agli edifici delle parti in causa, e provvederà a regolare le spese del presente giudizio.

PQM

La Corte così provvede: accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti esposti in motivazione, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Cagliari che, in deversa composizione, si adeguerà ai rilievi esposti e provvederà anche a regolare le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021

 

 

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