Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26366 del 19/11/2020

Cassazione civile sez. I, 19/11/2020, (ud. 14/10/2020, dep. 19/11/2020), n.26366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A. R. – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 8679/2019 proposto da:

E.H., rappresentato e difeso dall’Avv. Lucia Paolinelli, come

da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, con la

stessa elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv.

Enrica Inghilleri.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di ANCONA n. 1762/2018,

pubblicata in data 16 agosto 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale,

Dott.ssa CERONI Francesca, che ha concluso per l’assegnazione della

causa alle Sezioni Unite e, in subordine, per l’accoglimento del

ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. E.H., nato in (OMISSIS), ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Ancona del 2 maggio 2017, che, al pari della Commissione territoriale competente, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato che il padre era morto in seguito ad un attentato terroristico di (OMISSIS) alla stazione di (OMISSIS) e di avere lasciato la Nigeria per il rifiuto di aderire alla setta degli (OMISSIS).

3. La Corte di appello di Ancona ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocate, sulla base delle dichiarazioni del richiedente giudicate non credibili, della mancanza di un effettivo rischio nell’ipotesi di rientro nel Paese d’origine e dell’assenza di lesioni di diritti umani.

4. E.H. ricorre in cassazione con due motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

6. Con ordinanza interlocutoria del 29 maggio 2020, la trattazione della causa è stata rimessa alla pubblica udienza per la verifica dei principi affermati con riguardo alle situazioni di cosiddetto “conflitto a bassa intensità sociale”, ovvero di tutte quelle situazioni in cui l’accertamento che il giudice deve svolgere, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, riguarda il riscontro di un fattore oggettivo, ovvero di una condizione di privazione o forte limitazione dei diritti umani dovuta ad una situazione caratterizzata dal predominio di fazioni o milizie private tali da ingenerare violenza diffusa ancorchè non generalizzata oppure da una condizione di generale o quanto meno prevalente sopraffazione verso un particolare gruppo sociale e nelle quali rilevando fattori oggettivi di vulnerabilità, il puntuale accertamento delle condizioni oggettive del Paese di rientro assume rilievo probatorio centrale, mentre perde di rilievo la condizione personale del richiedente rispetto alle ragioni umanitarie, con il conseguente corollario che si può prescindere da una valutazione comparatistica, che prenda in esame la situazione personale, relazionale e lavorativa del richiedente e il suo percorso di integrazione nel Paese di accoglienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo E.H. deduce che la Corte di appello di Ancona sia incorsa nella violazione e falsa applicazione dell’art. 1 A della Convenzione di Ginevra, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5 e art. 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 3 e 11 e art. 32. Vizio di motivazione in relazione sia alla oggettiva credibilità del ricorrente, sia in merito alla contestualizzazione della storia personale e della situazione interna del paese di provenienza.

1.1 Il motivo è inammissibile.

In base alla costante giurisprudenza di legittimità, la motivazione apparente ricorre quando la motivazione, pur essendo graficamente e, quindi, materialmente, esistente, come parte del documento in cui consiste la sentenza o altro provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881).

Con orientamento ormai consolidato e ribadito anche di recente, quindi, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).

1.2 Tanto premesso, nel caso in esame, non sussiste il vizio lamentato sia per quel che riguarda il giudizio di non credibilità, sia per quanto concerne l’accertamento della situazione del paese di provenienza perchè entrambe le statuizioni risultano sostenute da una chiara motivazione che delinea il percorso logico – argomentativo che ha portato la Corte di appello a rigettare le tesi dell’odierno ricorrente.

1.3 Ed invero la Corte di appello ha valutato il racconto del richiedente e ha ritenuto le dichiarazioni del ricorrente non credibili e nel complesso inverosimili e non ha ritenuto sussistente il danno grave in caso di rimpatrio avuto riguardo specificamente alla condizione soggettiva dello stesso per i motivi legati alla sua vicenda personale e alla situazione politico-sociale del paese di provenienza.

1.5 I giudici di secondo grado hanno, quindi, compiuto un accertamento in fatto, non più censurabile in sede di legittimità, in osservanza del principio secondo cui “In materia di protezione internazionale, la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicchè, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass., 19 giugno 2020, n. 11925).

2. Con il secondo motivo E.H. deduce la violazione e falsa applicazione della legge nazionale e sovranazionale inerente il permesso di soggiorno per motivi umanitari, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32; dell’art. 3 CEDU e 10 Costituzione; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), b) e c). Vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria del richiedente.

Il ricorrente si duole del fatto che la Corte di Appello ha escluso la protezione umanitaria, senza verificare e valorizzare la situazione di grave instabilità politica e sociale attualmente presente in Nigeria, poichè essendo la protezione umanitaria una misura atipica e residuale era necessaria l’indagine sull’esistenza di una situazione vulnerabile valutando le condizioni oggettive del Paese di provenienza.

2.1 Nella sostanza, la questione posta è se siano configurabili o meno tra le ragioni di vulnerabilità che giustificano l’adozione del permesso umanitario le situazioni di conflitto per grave instabilità politica e sociale, anche se non riconducibili nell’alveo normativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), b) e c), ipotesi quest’ultima che si configura quando gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647) e raggiungono un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

2.2 Ed ancora se sia sufficiente ad escludere il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria, l’insussistenza delle condizioni richieste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per la protezione sussidiaria, sia avuto riguardo ai requisiti oggettivi della gravità ed intensità del conflitto interno o internazionale, sia avuto riguardo alla correlazione tra la situazione personale del richiedente e il contesto oggettivo del paese di provenienza.

3. Il motivo è infondato.

3.1 Deve premettersi che il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato introdotto nel nostro ordinamento dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, lett. c), che stabilisce che “Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione”.

La norma regolamentare di riferimento è il D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, lett. c ter), che prevede il rilascio del soggiorno su richiesta dello straniero e previo parere delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale o previa acquisizione di documentazione riguardanti i motivi della richiesta che sono “relativi ad oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale”.

Rileva, ancora, una funzione residuale della protezione umanitaria, ricondotta nell’alveo normativo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, lett. a), laddove non vi siano gli spazi applicativi delle protezioni principali, ovvero da un lato l’insussistenza delle ragioni di persecuzione (domanda di riconoscimento dello status di rifugiato) e dall’altro l’insussistenza di un rischio di danno grave alla vita o all’incolumità della persona o del pericolo per la sicurezza dello (protezione sussidiaria).

A livello normativo detta funzione residuale è stata desunta, con specifico riferimento alla protezione sussidiaria, dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 15, comma 2, che stabilisce che la cessazione delle cause di riconoscimento della protezione sussidiaria può non condurre al rimpatrio ove permangono “gravi motivi umanitari”.

Ulteriore conferma normativa della natura residuale ed alternativa della protezione umanitaria, rispetto alle due misure tipizzate di protezione internazionale si ricava dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, che stabilisce che la Commissione territoriale nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere “gravi motivi di carattere umanitario”, trasmette gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

3.2 Ciò posto, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non definisce i “gravi motivi” di carattere umanitario che possono impedire il rientro del richiedente nel suo paese di origine.

Gli stessi sono stati ricondotti ora a fattori soggettivi di vulnerabilità, quali particolari motivi di salute, ragioni di età, un significativo percorso di integrazione nel nostro paese; ora a fattori oggettivi di vulnerabilità, legati a guerre civili, catastrofi naturali, trattamenti degradanti ed altre gravi e reiterate violazioni dei diritti umani nel Paese di origine.

Di recente, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nella sentenza 13 novembre 2019, n. 29459, nell’ottica di riempire di contenuto i concetti di “ragioni umanitarie” e “condizioni di vulnerabilità” hanno definitivamente chiarito, quanto ai presupposti necessari per ottenere la protezione umanitaria che:

1) non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano;

2) gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicchè l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (Cass., 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096);

3) le relative basi normative non sono, allora, “affatto fragili” ma “a compasso largo”, con il conseguente corollario che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione;

4) va pertanto condiviso l’orientamento (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455; Cass. 19 aprile 2019, n. 11110) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale;

5) non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, “nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072).

6) così facendo si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 3 aprile 2019, n. 9304).

3.3 Le Sezioni Unite, quindi, hanno posto l’esigenza di procedere a valutazioni soggettive ed individuali, condotte caso per caso, dato che, nella materia della protezione umanitaria, oggetto del giudizio è sempre la persona e i suoi diritti fondamentali.

Il giudizio di bilanciamento evocato dalle Sezioni unite di questa Corte, che ne sottolineano il rilievo centrale, ha ad oggetto la valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare, la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.

Tale giudizio comparativo deve riguardare anche la condizione economico-sociale del paese di origine, dovendosi verificare se ivi si sia determinata una situazione dettata da ragioni d’instabilità politica od altro, di assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione o per tipologie soggettive analoghe a quelle del ricorrente e di conseguente impossibilità di poter provvedere al proprio sostentamento, dovendosi ritenere configurabile la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale, anche in questa ipotesi.

3.4 In proposito, le pronunce di questa Corte sono sostanzialmente concordi nel configurare i “gravi motivi”, come elementi derivanti dalla situazione sociale, politica, o ambientale del Paese d’origine del richiedente riconducibili sotto lo specifico profilo causale o eziologico alle condizioni personali del richiedente, pur non essendo richiesto un pericolo persecutorio o di danno grave (Cass., 28 novembre 2017 n. 28336; Cass. 24 giugno 2013, n. 15756).

Sussiste, quindi, una stretta correlazione tra le situazioni di vulnerabilità e la condizione personale vissuta o subita dal richiedente nel Paese di provenienza, ovvero la protezione umanitaria è volta a tutelare situazioni di gravi violazioni dei diritti umani dalle quali il richiedente sia stato necessitato ad allontanarsi, che perdura nel Paese di origine, con la conseguenza che, in linea di principio, non rilevano situazioni di vulnerabilità che non derivino da una condizione personale vissuta o subita in quel contesto geografico, politico o sociale.

Quindi l’accertamento delle condizioni per il riconoscimento del permesso di soggiorno fondato su ragioni umanitarie si fonda sui seguenti presupposti:

l’allegazione come gravi motivi di elementi derivanti dalla situazione sociale, politica o ambientale del Paese di provenienza del richiedente, pur non configuranti il pericolo di persecuzione o di danno grave, rilevanti ai fini della protezione internazionale, che incidano eziologicamente in modo individuale sulle condizioni personali di vita del richiedente;

la valutazione della situazione vissuta nel Paese di accoglienza, rilevante come elemento di comparazione, a cui dare rilievo mediante un giudizio prognostico che fa ritenere che sussisterebbe una grave violazione dei diritti umani se il richiedente fosse rimpatriato.

3.5 Ciò posto va esclusa ogni rilevanza oggettiva e autonoma alle situazioni di cosiddetto conflitto a bassa intensità sociale, che si caratterizzano per il fatto che, anche se sono presenti elementi di conflittualità e di violenza diffusa, la situazione del Paese di origine non integra i requisiti oggettivi di gravità ed intensità del conflitto interno o internazionale, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. c), allorchè difetta la specifica deduzione delle loro pregiudizievoli ripercussioni sulle condizioni di vita e sui diritti umani del ricorrente in patria, da prendere in considerazione nell’ambito del giudizio comparativo con il grado di integrazione effettiva sociale, culturale e lavorativa nel nostro Paese. Diversamente ragionando, verrebbe ad assumere rilievo centrale solo l’accertamento delle condizioni oggettive del Paese di rientro, mentre perderebbe di rilievo la condizione personale del richiedente rispetto alle ragioni umanitarie: il che è precluso dai principi espressi dalle Sezioni Unite sopra richiamate, che da un lato non consentono che si possa dare ingresso alla protezione umanitaria con riferimento alle situazioni che danno titolo alle protezioni maggiori e dall’altro danno specifico rilievo al giudizio comparativo che, come già detto, esclude che possa essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto di permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia o che il diritto possa essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza.

In altri termini l’attribuzione di un rilievo autonomo ed oggettivo alle ipotesi di conflitto a bassa intensità sociale si porrebbe in rotta di collisione con i principi affermati dalle Sezioni Unite, che prescrivono al giudice di operare un apprezzamento personale e individualizzato delle condizioni di vita in patria opportunamente bilanciato attraverso una valutazione comparatistica, che prenda in esame la situazione personale, relazionale e lavorativa del richiedente e il suo percorso di integrazione nel Paese di accoglienza.

3.6 Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello di Ancona, facendo corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, ha affermato che non erano state allegate specifiche situazioni di vulnerabilità, anche in ragione della ritenuta non credibilità del ricorrente; che l’istante non aveva provato di rientrare in categorie soggettive in relazione alle quali fossero ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità e che l’avvenuto inserimento nel tessuto sociale dello stato italiano non costituiva presupposto per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari nella carenza dei presupposti dell’invocata tutela.

3.7 I giudici di secondo grado, quindi, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, hanno evidenziato che gli elementi emersi non offrivano alcuna evidenza in ordine ad una peculiare situazione di vulnerabilità del ricorrente e che non assumeva valore decisivo l’inserimento familiare, sociale, culturale e lavorativo in Italia.

Nè rileva, la circostanza, pure dedotta dal ricorrente, che una indagine più oggettiva sulle fonti avrebbe consentito di apprendere che proprio gli Stati a Sud della Nigeria, compreso quello di provenienza del ricorrente, erano interessati da gravi situazioni di conflittualità e che sussisteva una condizione di violenza diffusa e non arginabile dalle autorità pubbliche in molte aree della Nigeria, con la conseguenza che il rimpatrio dell’ E. avrebbe provocato la violazione degli obblighi internazionali e costituzionali assunti dal nostro Paese, ponendo il ricorrente in una situazione di estrema difficoltà sociale ed economica ed imponendogli condizioni di vita inadeguate e intollerabili.

Ed invero, per quanto già detto, da un lato la condizione di vulnerabilità” del richiedente non può prescindere dalla valutazione della situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio e dall’altro il diritto alla protezione umanitaria non può essere affermato soltanto in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza.

Così facendo, come hanno affermato le Sezioni Unite, con motivazione che questo Collegio condivide, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019, n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

4 Per quanto esposto, il ricorso va rigettato.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2020

 

 

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