Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26358 del 29/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 29/09/2021, (ud. 22/06/2021, dep. 29/09/2021), n.26358

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7437/2015 R.G. proposto da:

G.L., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al

ricorso, dall’Avv. Raffaele Morra ed elettivamente domiciliata in

Roma, via Sardegna n. 29, presso lo studio dell’Avv. Giorgio Vasi;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 4153/14 della Commissione tributaria regionale

della Lombardia, depositata il 25 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 giugno

2021 dal Consigliere Raffaele Rossi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con avvisi di accertamento notificati nel giugno 2012, l’Agenzia delle Entrate procedeva, con metodo sintetico ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38 alla rettifica del reddito complessivo di G.L. per gli anni d’imposta 2007 e 2008.

In specie, l’Ufficio acclarava in capo al contribuente la disponibilità di due immobili (adibiti a residenza principale e residenza secondaria) e di un’autovettura nonché il pagamento di premio assicurativo relativo ad un fabbricato; individuato l’importo reddituale attribuito ai singoli beni come indice di ricchezza in applicazione del c.d. redditometro, determinava il maggior reddito percepito ai fini IRPEF e recuperava a tassazione le imposte non versate.

2. L’impugnativa del contribuente, accolta in prime cure per difetto di uno scostamento tra reddito dichiarato e reddito accertabile di entità pari ad (almeno) il 25%, veniva poi disattesa, a seguito di appello interposto dall’Agenzia delle Entrate, con la sentenza in epigrafe indicata.

3. Ricorre per cassazione G.L., affidandosi a due motivi;

resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Rubricate come primo motivo e riferite a “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nel ricorso introduttivo sono formulate una serie di eterogenee doglianze.

5. La descritta tecnica espositiva non preclude il vaglio di esse.

Come chiarito da questa Corte nella composizione più tipica di organo di nomofilachia, “la circostanza che l’unico motivo di ricorso sia articolato in più profili, ciascuno dei quali avrebbe ben potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non è certo, di per sé sola, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione. Per rendere ammissibile il ricorso è sufficiente che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (Cass., Sez. U., 06/05/2015, n. 9100; conf. Cass. 17/03/2017, n. 7009; Cass. 11/04/2018, n. 8915).

Nella specie, la disamina del motivo pone nitidamente in evidenza plurime censure, ciascuna delle quali distintamente ricondotta a diverse violazione di norme di diritto, talché in appresso si procederà al separato apprezzamento delle singole contestazioni.

6. Si assume, innanzitutto, l’illegittimità dei controversi avvisi di accertamento, in quanto basati su “disposizioni, indici e parametri illegittimi” per contrasto con il principio della riserva di legge sancito dall’art. 23 Cost.: secondo il ricorrente, l’individuazione dei beni – indice di capacità contributiva (e, in specie, l’inclusione tra gli stessi della abitazione principale) richiede una norma di rango primario, con conseguente illegittimità (e disapplicabilità in sede giurisdizionale) dei decreti ministeriali regolanti la materia.

6.1. La questione sollevata è stata già in più occasioni ritenuta infondata da questa Corte, la quale ha escluso che la disciplina dell’accertamento con metodo sintetico rechi qualsivoglia vulnus all’art. 23 Cost., “poiché i relativi decreti ministeriali non contengono norme per la determinazione del reddito, assolvendo soltanto ad una funzione accertativa e probatoria” (testualmente, Cass. 11/12/2020, n. 28265; conf. Cass. 24/04/2018, n. 10037).

Tali considerazioni vanno qui ribadite, non offrendo l’argomentare dell’impugnante spunti innovativi né individuando profili ulteriori idonei a suffragare un dubbio di lesione delle norme primarie.

7. Si deduce, poi, l’illegittimità -e l’inapplicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, (e dei dd.mm. attuativi) a seguito della entrata in vigore della L. 27 luglio 2000, n. 212.

Due, nella prospettazione del ricorrente, le ragioni di contrasto dell’accertamento sintetico con lo statuto del contribuente: in ordine ai principi di informazione e conoscenza dei fatti e degli atti tributari, “nel caso delle norme, delle regole e dei criteri di calcolo in tema di redditometro, il contribuente non è messo in grado di disporre in anticipo di tutte le informazioni, dati ed elementi che incidono o possono incidere sulla sua condizione tributaria”; inosservato risulta poi l’obbligo (regola generale nell’ordinamento interno ed unionale) dell’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente.

7.1. Il complesso motivo è destituito di fondamento.

Quanto al primo rilievo, è sufficiente osservare come le modalità di accertamento sintetico del reddito attribuibile al contribuente, per come in dettaglio delineate dal D.M. 10 settembre 1992 (ratione temporis applicabile alla vicenda, concernente accertamenti relativi a periodi d’imposta anteriori al 2009), si incentri sul conferire a ciascun bene (o servizio) indice di capacità contributiva che sia nella disponibilità del contribuente un “valore”, agevolmente determinabile mediante gli importi (per singoli beni) e i coefficienti di calcolo specificati nella tabella allegata al citato D.M., risultando così pienamente realizzata una preventiva conoscenza dei fatti rilevanti e dei metodi operativi di ricostruzione induttiva del reddito.

Circa l’ipotizzato vulnus al contraddittorio endoprocedimentale, questa Corte – con la fondamentale pronuncia a Sezioni Unite del 9 dicembre 2015, n. 24823 – ha chiarito che le garanzie fissate nell’art. 12 dello Statuto del contribuente trovano applicazione unicamente per accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, con esclusione degli accertamenti c.d. a tavolino, tra cui quelli eseguiti mediante l’applicazione di parametri predeterminati di redditualità, modo connotante il c.d. redditometro.

In detto arresto, a fondamento della conclusione per cui “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto”, le Sezioni Unite hanno individuato (tra gli altri) un argomento asseverante a contrario proprio nel dato normativo del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, comma 1, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, che, modificando del D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 38 ha introdotto l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale in tema di accertamento sintetico “con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

In forza della espressa e puntuale previsione di diritto transitorio teste’ trascritta, resta esclusa l’applicabilità retroattiva della novella, sicché l’obbligo di preventivo contraddittorio sussiste, ove si adoperi la modalità del c.d. redditometro, unicamente per gli accertamenti dei redditi relativi a periodi d’imposta successivi al 2009.

Per le verifiche riferite alle annualità precedenti (come quelle in esame, concernenti gli anni 2007 e 2008), dunque, la mancata instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale non è ragione di annullamento dell’accertamento sintetico (così Cass. 27/09/2018, n. 23408; Cass. 30/08/2016, n. 17427; Cass. 26/02/2016, n. 3885; Cass. 06/11/2015, n. 22746; Cass. 06/10/2014, n. 21041).

In tal senso si era peraltro univocamente orientata anche la giurisprudenza di legittimità anteriore al dictum delle Sezioni Unite: “l’accertamento dei redditi con metodo sintetico, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, non postula, in difetto di ogni previsione al riguardo della norma, che gli elementi e le circostanze di fatto in base ai quali il reddito viene determinato dall’Ufficio siano in qualsiasi modo contestati al contribuente, ferma restando per quest’ultimo la possibilità di fornire, in sede di impugnazione dell’atto, la dimostrazione che il reddito effettivo è diverso e inferiore rispetto a quello scaturente dalle presunzioni adottate dall’amministrazione finanziaria, sicché la sola circostanza relativa alla mancata instaurazione di una qualche forma di contraddittorio con il contribuente nella fase istruttoria non può giustificare l’annullamento dell’accertamento stesso” (in tal senso, tra le tante, Cass. 27/03/2010, n. 7485).

8. Ancora nell’ambito del primo motivo, parte ricorrente, sulla premessa che la modalità di accertamento sintetico rappresenta una facoltà (e non già un vincolo) per l’A.F., assume la nullità degli avvisi di accertamento, in quanto mancanti della motivazione concernente l’opzione per il metodo redditometrico e la concreta idoneità dello stesso ad evidenziare sottrazione del reddito imponibile.

La censura è inammissibile, per una duplice, concorrente, ragione. In primo luogo, per difetto di autosufficienza.

In spregio al requisito prescritto dall’art. 366 c.p.c., manca nel ricorso introduttivo la trascrizione o la riproduzione del contenuto (o quantomeno delle parti salienti) dell’asseritamente viziato avviso di accertamento (né di esso è compiuta l’allegazione o l’indicazione della sua collocazione nel fascicolo di ufficio), sicché risulta, per l’effetto, precluso a questa Corte l’invocato sindacato sul difetto motivazionale dell’atto impositivo.

In secondo luogo, per novità della censura.

Parte ricorrente ha omesso di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ed altresì di indicare in quale atto dei precedenti gradi lo abbia eventualmente fatto, onde dar modo alla Corte di controllare la veridicità di tale asserzione, prima di vagliarne la fondatezza nel merito; nemmeno dalla lettura della sentenza impugnata, poi, tali questioni risultano aver costituito il thema decidendum della controversia (sul punto, Cass. 21/06/2018, n. 16347; Cass. 21/11/2017, n. 27568; Cass., 19/04/2012, n. 6118; Cass., 27/05/2010, n. 12992; Cass., 20/10/2006, n. 22540).

9. Si denuncia inoltre l’illegittimità della pronuncia impugnata, poiché “viziata da evidente illogicità, contraddittorietà ed insufficiente motivazione”: si sostiene, in particolare, che la C.T.R. ha omesso di indicare gli elementi, di fatto e di diritto, giustificanti il maggior reddito accertato, non ha preso in considerazione (né, a fortiori, valutato l’attendibilità del) le prove offerte dalla contribuente.

Il motivo è inammissibile.

A suffragio di esso, è invocata la tipologia di vizio motivazionale individuata dall’art. 360, comma 1, n. 5, nella formulazione anteriore alla novella apportata al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, dal comma 3-bis (aggiunto dalla legge di conversione del 7 agosto 2012, n. 134), cioè a dire la censurabilità in Cassazione delle decisioni di merito per “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

Tuttavia, la sentenza de qua (pubblicata il 25 luglio 2014) è assoggettata alla disciplina dettata dalla norma come emendata (applicabile anche all’impugnazione delle sentenze delle Commissioni tributarie: ex aliis, Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053), la quale ha circoscritto il sindacato di legittimità alle sole anomalie motivazionali che si tramutino in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinenti all’esistenza della motivazione in sé, e che si esauriscano nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (basti il richiamo a Cass., Sez. U, 22/09/2014, n. 19881 e a Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053 ed alle successive conformi).

Vizi motivazionali nella specie nemmeno prospettati.

10. A conclusione del primo motivo, sono rilevati plurimi errori asseritamente inficianti la sentenza gravata, accomunati dall’essere estrinsecazione di “incompleta applicazione di norme di diritto”.

Analiticamente, l’impugnante si duole del fatto che il giudice di prossimità abbia non correttamente:

– confermato la superficie convenzionale dell’abitazione principale quantificata negli avvisi di accertamento, inferendola dalla (arbitraria) indicazione operata dal notaio rogante l’atto di vendita del bene;

– ritenuto la sussistenza dello scostamento di almeno un quarto del reddito dichiarato rispetto a quello determinato in via sintetica;

– valutato come “frammentaria” la documentazione depositata dalla contribuente (in particolar modo quella relativa al rimborso dell’investimento finanziario ed alla vendita dei diritti di opzione), da considerarsi invece tempestiva ed esaustiva.

Anche questo motivo è inammissibile.

Sotto l’apparente veste formale dell’erronea ricognizione sub specie iuris del caso esaminato, il ricorrente contesta la ricostruzione della concreta vicenda litigiosa per come operata dal giudice territoriale a mezzo delle risultanze di causa: l’intera argomentazione si rivolve, in buona sostanza, nel richiedere a questa Corte un (inaccettabile) riesame delle emergenze istruttorie, un vaglio su questioni di mero fatto ed un apprezzamento di attendibilità e di concludenza di determinati documenti, attività tutte esclusivamente riservate al giudice di merito ed estranee alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

11. Con il secondo mezzo, dedotto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si eccepisce la nullità della sentenza, in quanto la motivazione di essa riproduce pedissequamente le argomentazioni della parte appellante.

La censura non merita accoglimento.

Giova, al riguardo, rammentare come questa Corte, nel risolvere questione di massima di particolare importanza, abbia espresso, nella sua composizione tipicamente nomofilattica, il principio di diritto secondo cui “nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive” (Cass., Sez. U., 16/01/2015, n. 642; cfr. tra le successive conformi: Cass. 08/05/2015, n. 9334; Cass. 07/11/2016, n. 22562).

Nel caso, alcuna pedissequa riproduzione del contenuto dell’atto di appello si rinviene nella gravata pronuncia, la quale argomenta l’accoglimento dell’impugnazione in forza di argomentazioni, fattuali e giuridiche, autonomamente elaborate dal giudicante.

12. Rigettato il ricorso, il regolamento delle spese del grado del giudizio si conforma al principio di soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Quinta Sezione Civile, il 22 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021

 

 

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