Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26339 del 20/12/2016

Cassazione civile, sez. lav., 20/12/2016, (ud. 14/09/2016, dep.20/12/2016),  n. 26339

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Pietro – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3948-2011 proposto da:

L.G. (OMISSIS), P.L., C.F.,

PE.FR., G.S., nella qualità di eredi di PO.BR.

(la vedova S.C. ED I FIGLI S. E M.),

PR.OR., GI.EG., SA.DO., SC.SE., tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LUIGI CALAMATTA 16, presso lo

studio dell’avvocato MARCO MELITI, che li rappresenta e difende

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ACEA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51,

presso lo studio degli avvocati ANTONIO BRIGUGLIO e ALESSANDRA

SIRACUSANO, che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7044/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/02/2010 r.g.n. 6606/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/2016 dal Consigliere Dott. DE GREGORIO FEDERICO;

udito l’Avvocato M.M.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L.G. ed altri undici, ex dipendenti di ACEA S.p.a., hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, pronunciata in data sei ottobre 2009 – tre febbraio 2010, che aveva rigettato sia l’appello principale dei predetti, sia quello incidentale della società, entrambi nei riguardi della sentenza di primo grado, emessa dal locale giudice del lavoro all’udienza del 22 settembre 2003, con la quale, tra l’altro, per quanto ancora qui interessa, era stata accolta, nei limiti della eccepita prescrizione (ordinaria), la domanda riconvenzionale della società resistente, volta alla ripetizione di quanto da quest’ultima corrisposto a titolo di incidenza delle quote d’indennità di contingenza maturate sull’indennità di presenza, prevista dall’accordo del 1973, dal primo febbraio 1977 sino al momento della risoluzione per collocamento in quiescenza dei lavoratori.

L’impugnazione degli attuali ricorrenti è volta alla sola parziale cassazione della pronuncia di appello, limitatamente alla conferma della sentenza di primo grado, laddove era stata accolta negli accennati termini la riconvenzionale di parte convenuta, che aveva dedotto di aver indebitamente continuato ad includere nell’indennità di presenza gli scatti relativi alle variazioni di contingenza, stabilendo con gli accordi del 20.11.1987 e del 13.12.1988 che essa sarebbe stata inserita nel calcolo delle mensilità aggiuntive così maggiorata.

Il tribunale aveva, quindi, ritenuto la nullità di tali accordi per violazione del D.L. n. 12 del 1977, art. 2 conv. in L. n. 91 del 1977, che aveva stabilito il blocco della contingenza relativamente a qualsiasi elemento e quindi anche all’indennità di presenza non previsto dagli accordi interconfederali.

Gli appellanti principali avevano dedotto l’erroneità della sentenza di primo grado, relativamente all’accoglimento nei suddetti limiti della domanda di restituzione, spiegata in via riconvenzionale, sotto diversi profili, così come precisati dalla sentenza di appello.

Quest’ultima in primo luogo disattendeva l’eccezione degli appellanti, circa la pretesa nullità della procura alle liti, in forza di cui ACEA S.p.a. risultava costituita, richiamando il principio affermato sul punto da Cass. lav. n. 5425 del 7/4/2003 (secondo cui il legale rappresentante di una società di capitali può ritenersi abilitato a conferire ad altre persone fisiche il potere di rappresentare la società in giudizio – e quindi anche di conferire procure alle liti ai difensori a norma dell’art. 83, – se le stesse siano munite anche di poteri di rappresentanza sostanziale di carattere generale o inerenti ad un campo organico di interessi, come nel caso della rappresentanza institoria, peraltro configurabile anche riguardo al dirigente preposto ad un complesso di rapporti caratterizzati dall’elemento comune di costituire oggetto di controversia. Nel caso di specie, quindi, la Corte aveva dichiarato l’ammissibilità del ricorso della S.p.A. Ferrovie dello Stato sottoscritto da avvocati nominati da procuratori speciali – tra i quali i direttori compartimentali e i capi degli uffici Affari Legali territoriali – ai quali l’amministratore delegato della società aveva conferito il potere di rappresentare la medesima in tutti i giudizi in cui fosse parte, all’uopo attribuendo a detti procuratori tutti i necessari poteri di rappresentanza processuale e sostanziale). Inoltre, la Corte richiamava l’art. 20 dello statuto sociale circa i limiti delle attività delegate all’amministratore delegato (che nell’intestazione della sentenza de qua risulta costituito per la Società appellata, appellante incidentale), secondo cui detto amministratore ha poteri di rappresentanza in giudizio e nei confronti dei terzi disgiunta da quella del presidente della società. Quindi, la Corte capitolina richiamava le delibere in atti del 1998, 2003 e 2007, della medesima società, in base alle quali riteneva che tra le attività delegate all’amministratore rientrassero le attribuzioni e le prerogative in relazione alla ordinaria gestione, tra cui “l’adozione di ogni altro atto afferente il rapporto di lavoro con i dipendenti. Con le procure in atti risulta conferita, per il primo grado e per l’appello, a dirigenti della società, rispettivamente preposti alla Direzione legale e societario e alla funzione affari legali e societari, oltre alla rappresentanza processuale anche poteri sostanziali strumentali all’esercizio del mandato”.

Circa il rigetto dell’appello principale la Corte distrettuale richiamava, tra l’altro, Corte costituzionale n. 124/1991, che aveva dichiarato l’illegittimità, sopravvenuta al 28 febbraio 1986 (data di entrata in vigore della L. n. 38 del 1986) del D.L. n. 12 del 1977, art. 2, comma 1, in relazione agli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui non consentiva la computabilità dell’indennità di contingenza su elementi retributivi diversi da quelli previsti dalla contrattazione collettiva prevalente nel settore dell’industria.

Inoltre, i giudici di merito citavano il principio affermato da Cass. sez. un. civ. n. 8232 del 6/6/2002, secondo cui l’accertamento dell’eventuale persistenza dell’efficacia di clausole contrattuali collettive (nella specie, accordo aziendale del 1973 per i dipendenti dell’ACEA in tema di indennità di presenza) originariamente valide, ma successivamente divenute nulle per contrasto con le sopravvenute norme imperative sul cosiddetto blocco di contingenza di cui al decreto – L. 1 febbraio 1977, n. 12 (convertito, con modificazioni, dalla L. 31 marzo 1977, n. 91), norme, queste ultime, dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con sentenza n. 124 del 1981, limitatamente al periodo successivo all’entrata in vigore della L. 26 febbraio 1986, n. 38 (28 febbraio 1986), non pone un problema di reviviscenza, in quanto gli accordi o contratti collettivi, ancora “vigenti” a tale data (tra cui l’accordo aziendale citato), e non conformi al disposto di cui alla L. n. 38 del 1986, art. 1, comma 1, seconda parte, debbono ritenersi nulli, a norma del secondo comma del medesimo art. 1 di detta legge.

Pertanto, la Corte di merito riteneva illegittime le erogazioni dell’indennità di presenza – istituto peculiare della normativa collettiva relativa ai rapporti di lavoro dei dipendenti ACEA – prevista dall’accordo aziendale del 1973, per violazione della normativa di cui al D.L. n. 12 del 1977, relativamente alla componente costituita dagli scatti dell’indennità di contingenza successivi al primo febbraio 1977, anche per il periodo posteriore al 28 febbraio 1986.

In ordine al rilievo che il valore della contingenza fosse, alla data del 28-02-1986, in linea con quella stabilita dalla L. n. 38 del 1986 per i lavoratori del settore industriale, l’affermazione non era idonea ad inficiare le deduzioni della società, che aveva allegato analiticamente le quote d’indennità di contingenza maturate anno per anno. Il contenuto dettagliato dei conteggi, valutato dal primo giudicante, escludeva la fondatezza delle eccezioni in merito alla sussistenza e all’entità dell’indebito.

Quanto, poi, alla volontà delle parti collettive di confermare la validità del predetti accordi, secondo la Corte capitolina non si rinveniva negli accordi del 9 ottobre 1986, 20 nov. 1987, 13 dic. 1988, 5 dic. 1991, 17 ott. 1994 (istitutivo dell’EIGI) e del 22 lug. 1997 (istitutivo del NEG) una chiara volontà delle parti di ripristinare dal 28 febbraio 1986 l’indicizzazione dell’indennità di contingenza, il tutto così come precisato in sentenza.

Richiamava altresì al Cass. n. 21252/04, precedente relativo ad analoga controversia, secondo cui la dichiarazione con cui si riconosce al datore di lavoro il diritto di ripetere le somme versate ove sia giudizialmente accertato l’indebito, non costituisce riconoscimento del credito (per indebito pagamento) del datore stesso. Il rimettersi all’esito di un giudizio è riaffermare la ragione che muove il dichiarante al giudizio.

ACEA S.p.a. ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso.

Le parti, infine, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti (ex art. 360 c.p.c., n. 3) hanno dedotto violazione e falsa applicazione – insufficiente motivazione (ex art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla mancata declaratoria di nullità della procura ad litem di ACEA S.p.a. in entrambi i gradi del giudizio. A sostegno della censura hanno citato precedenti di giurisprudenza di legittimità e di merito, nonchè il verbale del Consiglio di Amministrazione in data 12 gennaio 1998, assumendo che nell’occasione la delega del potere rappresentativo era stata conferita al solo presidente della società e non anche all’amministratore, donde la nullità della procura alle liti rilasciata dal difensore di ACEA in entrambi i gradi del giudizio, con conseguente inammissibilità di ogni eccezione o domanda della società medesima.

Il motivo per come dedotto è inammissibile. Ed invero, premesso che i ricorrenti nulla hanno osservato in relazione alle altre delibere (2003 e 2007) richiamate sul punto nella motivazione della pronuncia d’appello (pag. 5), va soprattutto evidenziato come non sia stato precisato come, in quale specifico atto e quando la questione sia stata posta. Infatti, al riguardo i ricorrenti si sono limitati genericamente ad affermare che nel corso del giudizio di appello avevano ripetutamente eccepito la nullità della procura alle liti dell’ACEA S.p.a., depositando anche delle note autorizzate e documenti.

L’allegazione, pertanto, è chiaramente insufficiente rispetto a quanto in materia prescritto soprattutto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, laddove peraltro verso è anche generica l’indicazione dei documenti prodotti (v. l’indice a pag. 17 del ricorso, laddove sub n. 3 vi è la sola menzione “fascicolo di parte”).

Del resto, questa Corte in analoghe fattispecie (cfr. Cass. lav. n. 7642/2012 e n. 18552 del 25/09 – 29/10/2012) ha rilevato che: è giurisprudenza consolidala, cui il collegio ritiene di dare continuità, che nel processo civile l’invalidità della costituzione di una delle parti non integra una nullità rilevabile d’ufficio, senza alcun limite, in ogni stato e grado del giudizio con la conseguenza che è da ritenersi preclusa, in sede di giudizio di Cassazione, la questione dell’irregolarità della costituzione di una delle parti in primo grado che non sia stata già correttamente sollevata dinanzi al giudice di secondo grado (per tutte, v. Cass. 14912/2010; Cass. 23467/2009: Cass. 8806/2008).

Parallelamente, si è affermato che con l’impugnazione in sede di legittimità della sentenza d’appello non può essere messa in discussione l’ammissibilità della costituzione nel procedimento di secondo grado, sotto il profilo del difetto di ritualità e validità della procura conferita dalla parte appellante incidentale, qualora la questione non sia stata tempestivamente sollevata nello stesso secondo grado di giudizio, nel quale il giudice non abbia ritenuto, d’ufficio, di dovere richiedere alla parte la dimostrazione dell’effettività e della legittimità dei relativi poteri rappresentativi (v. ex multis Cass. 2230/2007).

Nella fattispecie in esame la questione della regolarità della costituzione della società ACEA, sia davanti al Tribunale sia davanti alla Corte d’Appello, risulta dunque – in difetto di puntuali e rituali allegazioni, ex artt. 366 e 369 c.p.c. – sollevata tardivamente.

Ne consegue, pertanto, l’inammissibilità della formulata doglianza.

Con il secondo motivo, poi, i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1429 e 1431 codice civile e alla Legge numero tre 38 del 1986; insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), con particolare riferimento alla mancata dimostrazione da parte della Acea S.p.A. dell’effettiva corresponsione di una maggiore retribuzione (rispetto a quanto dovuto ex L. n. 38 del 1986); omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia (ancora ex art. 360, n. 5), in ordine alla mancata dimostrazione da parte di ACEA della essenzialità e della riconoscibilità del presunto errore che l’avrebbe indotta a pagare ai propri dipendenti somme maggiori rispetto a quelle dovute.

Quesito di diritto: statuire se qualora il datore di lavoro richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, lo stesso non possa limitarsi a provare che detto contratto prevede, per le prestazioni rese, retribuzioni inferiori, dovendo invece dimostrare la reale corresponsione di una maggiore retribuzione e, se del caso, se questa sia stata frutto di un errore essenziale e riconoscibile dall’altro contraente, ossia di un errore che presenti i requisiti di cui agli artt. 1429 e 1431 c.c..

Con il terzo motivo i ricorrenti hanno lamentato violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. 26 febbraio 1986, n. 38 (articolo unico) e della L. 13 luglio 1990, n. 191 – insufficiente e contraddittoria motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, richiamando a sostegno varia giurisprudenza, tra cui Cass. n. 23315/2010, ed indicando come unico precedente contrario Cass. n. 2910/06.

Di per sè la pronuncia della Corte costituzionale n. 124/91 non aveva fatto scattare nuovamente l’obbligo dell’azienda di erogare l’indennità di presenza nell’importo complessivo delle variazioni dell’indennità di contingenza, ma i lavoratori avevano dedotto e dimostrato che il vecchio sistema di computo era stato confermato con accordi sindacali sottoscritti dalla ACEA dopo il venir meno dell’operatività del divieto ex D.L. n. 12 del 1977. Era stato depositato il verbale di accordo 9 ottobre 1986, con il quale le parti davano atto della piena legittimità dell’interpretazione fin qui data dall’azienda in ordine alle modalità di computo dell’indennità di presenza.

Successivamente, negli accordi del 20.11.87 e del 13.12.88 le parti, nello stabilire l’aumento dell’indennità di presenza ovvero la sua inclusione nel calcolo delle mensilità aggiuntive, avevano assunto come base di computo l’entità dell’indennità di presenza, così come concretamente erogata dall’azienda, ossia comprensiva delle variazioni dell’indennità di contingenza.

Inoltre, con gli accordi aziendali 29.07 – 17.10.1994 si dava corso all’armonizzazione delle pattuizioni aziendali relative alla c.d. indennità di presenza ed alla istituzione dell’emolumento individuale giornaliero a carattere incentivante E.I.G.I. in luogo della presenza (specificando come lo stesso continuerà ad essere corrisposto con le modalità adottate per l’indennità di presenza giornaliera), i cui parametri di composizione venivano poi fissati nell’accordo del 22 luglio 1997.

I suddetti accordi erano quindi senz’altro validi, sicchè per il tempo posteriore nessun indebito era ipotizzabile a carico degli ex dipendenti, laddove pure secondo Cass. sez. un. 8232/02 era stata fatta salva la possibilità, per il periodo successivo al 28 febbraio 1986, di dimostrare la volontà delle parti sociali di continuare ad includere nell’indennità di presenza l’indennità di contingenza, senza alcuna nullità, relativa invece agli atti anteriori all’ingresso della L. n. 38 del 1986, conformemente a quanto ritenuto da Cass. n. 21252/04 e da Cass. n. 25943/05.

Anche relativamente al 3^ motivo, sebbene ratione temporis nella specie non più applicabile l’art. 366 bis c.p.c., i ricorrenti hanno comunque sintetizzato le loro doglianze con il seguente quesito:… affermare, in ossequio ai principi espressi dalle precedenti pronunce n. 23315/10, 12240/06, 25943/05 e n. 21252/04, la validità degli accordi aziendali e delle pattuizioni collettive, successivi alla data di entrata in vigore della L. n. 38 del 1986, stante anche quanto sancito dalla Corte Costituzionale n. 124/1991, che ha espressamente previsto “per il futuro, il possibile intervento di nuovi accordi collettivi contenenti una disciplina diversa, eventualmente più favorevole ai lavoratori”.

Va per completezza evidenziato quanto eccepito dalla controricorrente, ad avviso della quale il secondo motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, richiamando il precedente di Cass. n. 14912/2010 in motivazione, non risultando in particolare specificamente enunciato l’atto in cui la questione sarebbe stata ritualmente sollevata nel giudizio di merito, mentre era stato soltanto accennato, in appello, il fatto che l’indennità di contingenza sull’indennità di presenza era in linea con quella stabilita dalla L. n. 38 del 1986, nonchè contestata la sussistenza di un indebito in punto di QUANTUM.

Riguardo al terzo motivo, la società, nel citare in particolare Cass. n. 2910/8 febbraio 2006, richiamava la motivazione in proposito svolta con l’impugnata pronuncia d’appello, circa gli accordi ivi citati e la ritenuta mancanza di chiara volontà nei sensi pretesi dagli attori relativamente al periodo successivo al febbraio 1986, con valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità.

La motivazione della Corte di merito circa l’anzidetta interpretazione non era stata specificamente confutata dai ricorrenti, donde pure l’inidoneità del quesito all’uopo formulato rispetto alla compiuta ratio decidendi. In proposito, la controricorrente ha invocato soprattutto il precedente di Cass. n. 14912/10 cit..

Le anzidette censure (2 e 3 motivo), esaminate congiuntamente per la loro connessione, vanno anch’esse disattese, alla luce pure di quanto similmente già osservato e ritenuto in analoghe precedenti controversie da questa Corte di legittimità (Cass. lav. n. 7642 del 29/02 – 16/05/2012 e n. 18552 del 25/09 – 29/10/2012).

Deve rilevarsi, infatti, che la Corte d’Appello ha esaminato la normativa di cui al D.L. 1 febbraio 1977, n. 12, art. 2 convertito in L. 31 marzo 1977, n. 91, e l’accordo del 1973, che disciplinava l’indennità di presenza per i dipendenti Acea. La Corte territoriale ha, quindi, concluso per la sopravvenuta nullità dell’accordo aziendale Acea del 1973, in quanto si poneva in contrasto con il D.L. del 1977. Ha infatti richiamato la sentenza n. 124 del 1991 della Corte Costituzionale, che aveva affrontato la questione della legittimità della norma in esame per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., dichiarando l’illegittimità del citato art. 2, comma 1, sopravvenuta dal 28.2.86 – epoca in cui, con l’entrata in vigore della L. n. 38 del 1986, era cessata la situazione di emergenza che aveva giustificato gli interventi del 1977 e del 1984 di compressione della libertà delle parti collettive nella parte in cui non consentiva la computabilità dell’indennità di contingenza su elementi retributivi diversi da quelli previsti dalla contrattazione collettiva prevalente nel settore industria. La Corte capitolina ha, inoltre, escluso la riviviscenza dell’accordo del 1973, contenente originariamente norme valide divenute nulle per contrasto con le norme imperative sopravvenute, richiamando i principi dettati da questa Corte nella succitata sentenza delle SS.UU. n. 8232/2002. La Corte territoriale si è quindi attenuta a principi condivisibili e conformi alla giurisprudenza di questa Corte e, pertanto, correttamente è stata ritenuta fondata la pretesa dell’ACEA di ripetizione della contingenza maturata fino al 28/2/86, anche per il periodo posteriore circa l’indennità di presenza, quale istituto peculiare della normativa collettiva inerente ai rapporti di lavoro dei dipendenti di ACEA.

Per quanto riguarda il periodo successivo, da parte ricorrente si assume che il sistema di calcolo e di computo della contingenza nell’indennità di presenza era stato confermato in accordi successivi (del 9/10/86, 20/11/87, 13/12/88, 5/12/1991, 17/10/1994 nonchè 22/7/1997) da ritenersi validi alla luce della nuova normativa.

La Corte territoriale, invero, pur non ponendo in discussione che gli accordi successivi al 28/2/86 potessero introdurre nuovamente nel calcolo dell’indennità di presenza l’indennità di contingenza (in conformità a quanto affermato da Cass SS.UU. n. 8232/2002 e ribadito in successive pronunce di questa Corte), ha escluso, con valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, che dall’esame delle previsioni degli accordi citati potesse essere desunta una chiara ed espressa manifestazione delle parti intesa a ripristinare l’indicizzazione dell’indennità di presenza.

La motivata interpretazione, esente da vizi logici o contraddizioni nonchè da errori di diritto degli accordi aziendali citati, non può essere superata dal richiamo operato dal ricorrente ad alcuni precedenti di questa Corte, che, sebbene abbiano respinto le censure di ACEA riconoscendo la computabilità della contingenza sull’indennità di presenza in base ad accordi sindacali conclusi successivamente al 28/2/86, sono intervenute con riferimento a censure diversamente formulate, non risultando sottoposto al giudice di legittimità una diversa interpretazione degli accordi (nella sentenza n. 23315 la Corte ha espressamente affermato che “la ricorrente non ha censurato l’accertamento del giudice di merito sulla circostanza che successivamente all’entrata in vigore della L. n. 38 del 1986 le parti…avevano esplicitato la loro volontà di confermare l’influenza dell’indennità di contingenza sulla misura dell’indennità di presenza…).

Quanto, inoltre, alla violazione degli artt. 1429 e 1431 c.c., denunciata dai ricorrenti circa la mancata dimostrazione da parte di Acea che l’errore in cui quest’ultima era incorsa era essenziale e riconoscibile da parte dei dipendenti, va rilevato che la questione risulta espressamente sollevata, nei suddetti termini, soltanto nel presente giudizio.

Sul punto la controricorrente (v. pagg. 9 e 10) ha eccepito la irritualità della doglianza, osservando tra l’altro che in appello gli attori si erano limitati a dedurre che l’importo erogato da ACEA a titolo d’indennità di contingenza sull’indennità di presenza era esattamente in linea con quella stabilita dalla L. n. 38 del 1986, contestando la sussistenza di un indebito in punto di quantum, laddove peraltro in prosieguo si precisava che la decisione impugnata aveva giudicato l’affermata circostanza non idonea ad inficiare i rilievi della società, che aveva dedotto analiticamente le quote d’indennità di contingenza maturate anno per anno; il contenuto dettagliato dei conteggi, valutato dal tribunale, escludeva la fondatezza delle eccezioni in merito alla sussistenza ed all’entità dell’indebito.

Dagli stessi richiami, contenuti nelle pgg. 9 e 10 del ricorso de quo, non si rileva, invero, alcun preciso riferimento alla essenzialità e alla riconoscibilità dell’errore che avrebbe indotto ACEA al pagamento di somme maggiori rispetto a quelle in effetti dovute, questione perciò nemmeno esplicitamente esaminata dalla pronuncia d’appello, evidentemente in difetto di specifici motivi ex art. 434 c.p.c., pure già richiesti da tale norma in base al testo previgente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012, nella specie ratione temporis inapplicabile. Stante la rilevata novità, la censura di cui al 3 motivo è quindi chiaramente inammissibile, siccome inerente a questione non ritualmente proposta in sede di merito, con il ricorso introduttivo del giudizio e poi in occasione dell’interposto gravame.

Dunque, l’impugnazione va respinta, con conseguente condanna dei soccombenti al pagamento delle relative spese.

PQM

La Corte RIGETTA il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida a favore della controricorrente in ragione di 5000,00 Euro per compensi ed in Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2016

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