Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2631 del 04/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/02/2010, (ud. 22/12/2009, dep. 04/02/2010), n.2631

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20115-2007 proposto da:

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

PIAZZA GIUSEPPE VERDI N. 10, presso lo studio dell’Avvocato TURCO

CHIARA, (c/o l’Ufficio della Funzione Affari Legali e Societari), che

lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.A.;

– intimato –

e sul ricorso 20638-2007 proposto da:

I.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA ANTONIO

MANCINI 4/B, presso lo studio dell’avvocato FASANO GIOVANNANTONIO,

che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

PIAZZA GIUSEPPE VERDI N. 10, presso lo studio dell’Avvocato CHIARA

TURCO, (c/o l’Ufficio della Funzione Affari Legali e Societari), che

lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 7106/2 006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/12/2006 R.G.N. 10502/02; udita la relazione della

causa svolta nella pubblica udienza del 22/12/2009 dal Consigliere

Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato RAFFAELA FASANO per delega GIOVANNANTONIO FASANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 9.2/10.7.2006 la Corte di appello di Roma ,in parziale accoglimento degli appelli proposti dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato e da I.A. avverso la sentenza resa dal Tribunale di Roma il 19.12.2002, dichiarava il diritto dell’ I. al ricalcolo del TFR, della 13^ e della 14^ mensilità con inclusione dei compensi percepiti per lavoro straordinario sino al 31.10.1992. Osservava in sintesi la corte territoriale, quanto all’accordo del 22.6.1974, che la clausola di assorbibilità, ivi prevista, riguardava solo i compensi connessi all’aumento di produttività, e non anche allo svolgimento di lavoro straordinario; quanto al computo del TFR e degli altri istituti indiretti, che i compensi per lo svolgimento del lavoro straordinario dovevano includersi nella base del relativo calcolo in virtù del criterio retributivo omnicomprensivo adottato dalla contrattazione collettiva sino al 1989 (con effetto sino al 31.10.1992), che ne imponeva la determinazione sulla base di “quanto complessivamente percepito dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa”; quanto alla domanda di restituzione delle somme percepite in virtù dell’esecuzione provvisoria dell’impugnata sentenza, che la stessa risultava del tutto generica. Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato spa con quattro motivi.

Resiste con controricorso I.A., il quale ha anche proposto ricorso incidentale. Entrambi le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c. e della normativa contrattuale applicabile nella fattispecie, osservando che la corte territoriale aveva omesso di considerare che, in tema di computabilità dello straordinario nella base di calcolo degli istituti indiretti, non esiste nel nostro ordinamento un principio generale di omnicomprensività della retribuzione, e che le previsioni della contrattazione collettiva che regolavano gli istituti in questione prevedevano la loro determinazione su base fissa, non collegata a emolumenti, quali lo straordinario, a carattere variabile. Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 la società ricorrente lamenta che la corte di merito ha omesso di pronunciarsi sull’eccezione di prescrizione prospettata, sulla base della considerazione che, nel sistema della L. n. 297 del 1982, la cessazione del rapporto di lavoro non costituisce un elemento costitutivo del diritto al TFR, ma un mero requisito di esigibilità dello stesso. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1362, 1363 e 2120 c.c., l’Istituto ricorrente si duole che la sentenza impugnata, nel rigettare l’eccezione di compensazione fra le somme eventualmente dovute per il ricalcolo dell’indennità di anzianità e del TFR e quanto corrisposto in virtù dell’accordo aziendale del 22.6.1974, aveva omesso di valutare la portata complessiva dell’accordo, fra le cui finalità era da ricomprendere anche la prevenzione di un futuro contenzioso in materia di determinazione dell’indennità di anzianità per effetto dell’inclusione dei compensi per lavoro straordinario. Con il quarto motivo, infine, si censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine alla ritenuta nullità della domanda di restituzione, non essendosi valutato che i documenti comprovanti l’avvenuto pagamento degli importi derivanti dalla pronuncia di primo grado erano stati ritualmente depositati in sede di appello, con indicazione analitica dei relativi conteggi.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale, il controricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 c.c., nonchè dell’art. 21 del CCNL grafici dell’1.11.1992 ed, al riguardo, osserva che la corte territoriale ha riconosciuto il diritto al ricalcolo del TFR e degli istituti indiretti con esclusivo riferimento al periodo anteriore al 31.10.1992 sebbene una domanda in tal senso fosse stata avanzata solo in sede di appello ed, in ogni caso, in quanto le disposizioni contrattuali sia precedenti che successive al novembre 1992 imponevano di tener conto di quanto “dovuto” al lavoratore, e non di quanto dallo stesso “percepito” per la sua prestazione nell’orario normale.

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Il primo motivo del ricorso principale, con il quale si prospetta l’erronea interpretazione del contratto collettivo dei grafici del 1992, è improcedibile, non potendosi in questa sede provvedere alla valutazione della correttezza dei risultati interpretativi cui è pervenuto il giudice di merito, non avendo la parte ricorrente depositato il contratto collettivo de quo, la cui produzione – nella sua interezza e non soltanto per alcuni stralci – è imposta, appunto a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 allorchè si tratti, come nella specie, di contratti collettivi nazionali di diritto privato, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza di questa Corte con indirizzo ormai consolidato (cfr.

Cass. n. 28305 del 2009, n. 28306 del 2009 e altre conformi, nonchè Cass. n. 19560 del 2007 e altre conformi con riferimento all’art. 420- bis c.p.c.; circa la riferibilità della previsione ai contratti collettivi di diritto comune e la rado sottesa alla sanzione processuale, cfr. Cass., sez. un., n. 23329 del 2009).

Merita, in particolare, di essere ribadito che la funzione di nomofilachia, demandata alla Corte di Cassazione e perseguita dalle disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, sarebbe pregiudicata ove si ritenesse che nell’ipotesi di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 3 l’interpretazione debba essere limitata alle clausole contrattuali esaminate nei gradi di merito, mentre nel caso previsto dall’art. 420 bis c.p.c. (norma – giova rilevare – che non indica il tipo di controllo cui la Corte deve procedere quando è investita del ricorso per saltum sulla questione pregiudiziale, dandolo per presupposto proprio in base al precedente art. 360 c.p.c., n. 3) l’interpretazione si possa svolgere senza alcuna limitazione, reperendo nel contratto altre clausole, non esaminate, che però potrebbero risolvere ogni margine di incertezza. Ne deriverebbe il rischio di sentenze contrastanti, recanti, cioè, interpretazioni diverse sulla medesima questione e sulla base della medesima contrattazione collettiva, stante il diverso grado di affidabilità delle une rispetto alle altre, a causa della completezza o meno dell’indagine che la Corte ha svolto.

Ne consegue che deve confermarsi che la norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 la quale prevede che gli atti processuali, i documenti e i contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda devono essere depositati insieme al ricorso a pena di improcedibilità, non consente deroghe e preclude il deposito solo di stralci del contratto collettivo da interpretare.

Il secondo motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c.. Deve ribadirsi, infatti, che è inammissibile il quesito di diritto ove non vi sia corrispondenza ( o vi sia solo parziale corrispondenza) fra quesito e motivo, sicchè il primo non sia esaustivamente riferibile alla questione controversa posta col motivo di impugnazione, rappresentandone la sintesi logico- giuridica.

Per come già precisato da questa Suprema Corte (cfr. ad es. SU n. 14385/2007; Cass. n. 11535/2008), il rispetto del requisito della imprescindibile attinenza dei quesiti al decisum è condizione indispensabile per la valida proposizione del quesito medesimo, sotto pena della sua genericità e della conseguente equiparazione, per difetto di rilevanza, alla mancanza stessa di un quesito. Il che deve ripetersi anche per il quesito parziale, che è un quesito sostanzialmente equivoco, che non consente, in altri termini, di evidenziare sia il nesso fra la fattispecie e il principio che si chiede venga affermato, sia la regola, diversa da quella posta a base del provvedimento impugnato, la cui auspicata adozione condurrebbe ad un esito difforme della controversia. Tali principi vanno applicati anche nella fattispecie, avendo la società ricorrente, che pur aveva prospettato il vizio di omessa pronuncia, richiesto solo di accertare “se, in costanza di rapporto di lavoro si prescriva, nel sistema normativo introdotto dalla L. n. 297 del 1982, non il diritto all’esigibilità del TFR ma il diritto al computo, nella base di calcolo del TFR, delle voci di calcolo che maturano anno per anno e che concorrono a comporne ogni rateo annuale” e, quindi, formulato un quesito, che per inerire solo al merito della questione controversa, non riflette la censura in tutti i suoi elementi costitutivi e l’esposizione delle ragioni della stessa che si rinvengono all’interno del motivo. Il terzo motivo è infondato.

In relazione all’accordo aziendale del giugno 1974 la Corte di merito ha escluso che le clausole invocate dalla società ricorrente, e particolarmente il cd. punto A), possano fondare un credito del datore di lavoro, tale da determinare la compensazione con il credito vantato dai lavoratori, ovvero un eventuale saldo in favore della società, in relazione alla previsione di “assorbibilità” di compensi riconosciuti come corrispettivo dell’aumento dei ritmi di produzione.

Tale conclusione si fonda sull’interpretazione dell’accordo (riservata al giudice di merito in ragione della sua efficacia limitata, diversa da quella propria degli accordi collettivi nazionali oggetto di esegesi diretta da parte di questa Corte ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006) e, in particolare, è stata giustificata facendo riferimento al tenore letterale e alla ratio della clausola invocata, avendo i giudici d’appello rilevato, in particolare, che la eventualità di un assorbimento di compensi relativi al ritmo della produzione non potesse che riguardare compensi analoghi, riguardanti comunque la produttività, e fosse estranea, invece, ai compensi percepiti dai lavoratori per la prestazione di lavoro straordinario;

d’altronde, hanno anche osservato i giudici d’appello, un effetto “ablativo” del tfr, realizzato per via della mancata inclusione dei compensi per prestazioni straordinarie, avrebbe determinato una reformatio in pejus incompatibile con le disposizioni imperative della L. n. 297 del 1982.

Alla luce di tali considerazioni, le osservazioni critiche svolte in ricorso appaiono, quindi, sostanzialmente indirizzate a sostenere un diverso risultato interpretativo, in quanto preferibile a quello accolto nella sentenza censurata, ma in contrasto col consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune implica un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (art. 1362 ss. c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) ovvero per vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), fermo l’onere del ricorrente di indicare specificamente il modo in cui l’interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendosi, invece, limitare a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative o, comunque, diverse rispetto a quelle proposte dal giudice di merito, dal momento che il controllo di logicità del giudizio di fatto non può risolversi in una revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata.

Verificato l’impiego corretto dei canoni ermeneutici alla stregua delle censure proposte dal ricorrente, resta esclusa, quindi, la possibilità di un diretto esame del diverso risultato interpretativo proposto dalla parte ricorrente, avendo la corte di merito, fra l’altro, escluso la configurabilità di una transazione – per mancanza dell’aliquid datum atque retentum – in considerazione dell’accertata eterogeneità dei compensi (per la produttività e per lo straordinario), di per sè incompatibile col sinallagma negoziale prospettato dalla datrice di lavoro; intento transattivo che, comunque, per risolversi nel vizio denunciato, non potrebbe che rilevare sul piano della comune volontà delle parti ed essere desunto in funzione di ciò che nelle clausole dell’accordo appare obiettivamente voluto, sì da risolvere ogni eventuale dubbio nell’unità di intento che la formula contrattuale è capace di esprimere. Anche il quarto motivo è infondato.

Ha rilevato sul punto la sentenza impugnata che la domanda di restituzione risultava generica e che nessuna deduzione era reperibile in ordine alla effettiva restituzione delle somme che si assumeva percepite in virtù dell’esecuzione provvisoria della decisione.

A fronte di tale accertamento, la società ricorrente si è limitata a prospettarne la non corrispondenza “al vero”, facendo, peraltro, riferimento, a risultanze contabili non debitamente documentate, in conformità al principio dì necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, che, come noto, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, impone alla parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie e processuali, l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, trascrivendone il contenuto, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dato che questo controllo, per il principio indicato, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (v. ad es. per tutte Cass. n. 10913/1998; Cass. n. 12362/2006).

Con riferimento, infine, al ricorso incidentale – premessa l’assoluta genericità del rilievo relativo alla asserita novità della domanda accolta dalla corte territoriale, in quanto priva di ogni pur minimo riscontro documentale, in conformità alla già ricordata regola di autosufficienza del ricorso – è, per il resto, da dichiarare l’improcedibilità del motivo, non essendo consentito a questa Corte di valutare l’esattezza dell’interpretazione delle disposizioni collettive richiamate dall’intimato, in difetto di integrale produzione dei contratti collettivi su cui la censura medesima si fonda, secondo come già in precedenza osservato.

Il ricorso principale va, dunque, rigettato; quello incidentale dichiarato improcedibile. Stante la reciproca soccombenza, ricorrono giusti motivi per compensare integralmente le spese.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara improcedibile il ricorso incidentale, compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010

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