Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26307 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. III, 17/10/2019, (ud. 04/07/2019, dep. 17/10/2019), n.26307

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9842-2018 proposto da:

C.M., CA.MA., C.R., C.S.,in

proprio e nella qualità di eredi di L.F., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 14, presso lo studio

dell’avvocato ANSELMO BARONE, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CARLO MARIA BARONE;

– ricorrenti –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE

DELLE NAVI 30, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO SORRENTINO,

che lo rappresenta e difende;

ISTITUTO TUMORI GIOVANNI PAOLO II – ISTITUTO DI RICOVERO E CURA A

CARATTERE SCIENTIFICO già OSPEDALE ONCOLOGICO BARI, in persona del

legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PORTUENSE 104, presso lo studio dell’avvocato ANTONIA DE ANGELIS,

rappresentato e difeso dall’avvocato VITO AURELIO PAPPALEPORE;

– controricorrenti –

nonchè contro

ALLIANZ SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 776/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 21/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/07/2019 dal Consigliere Dott. SCODITTI ENRICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato ANSELMO BARONE;

udito l’Avvocato CARLO ALBINI per delega;

udito l’Avvocato FEDERICO SORRENTINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione del 25 novembre 1997 L.F., unitamente alle figlie Ma. e C.R., convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Foggia i Dott.ri S.F., P.D., La.Fr., F.F., nonchè la Casa Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo e l’Ospedale Specializzato Oncologico di Bari chiedendo il risarcimento del danno con riferimento al trattamento terapeutico cui la L. era stata sottoposta in relazione a neoplasia mammaria. Salvo il F., si costituirono tutti i convenuti chiedendo il rigetto della domanda e chiamando in giudizio le rispettive compagnie assicuratrici. All’esito del decesso della L., si costituirono gli eredi M., S., Ma. e C.R.. Venne disposta CTU.

2. Il Tribunale adito, dopo avere dichiarato la cessazione della materia del contendere con riferimento a La.Fr., F.F. e la Casa Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo, nonchè alle relative società assicuratrici (era intervenuta transazione), accolse la domanda nei confronti di S.F. e l’Ospedale Specializzato Oncologico di Bari condannandoli in solido al pagamento della somma di Euro 240.855,28 oltre interessi.

3. Avverso detta sentenza proposero distinti atti di appello S.F. e l’Ospedale Specializzato Oncologico di Bari, nonchè appello incidentale gli appellati.

4. Previa rinnovazione della CTU, con sentenza di data 21 giugno 2017 la Corte d’appello di Bari accolse gli appelli principali, rigettando la domanda risarcitoria, e rigettò l’appello incidentale.

Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, premesso che era stata disposta la rinnovazione della CTU a mezzo di un collegio di periti (composto da un chirurgo senologo, un anatomopatologo ed un radiologo) “al fine di dare risposta esauriente agli originari quesiti e di approfondire, alla luce delle contestazioni mosse dagli appellanti, il profilo del nesso di causalità tra la condotta del prof. S. e l’evento dannoso”, che sulla base delle conclusioni della CTU doveva escludersi qualsiasi incidenza causale della condotta del sanitario sul danno patito dalla L.. Espose in particolare che dalla CTU emergeva quanto segue: la L. aveva patito un errore diagnostico cagionato dall’errata interpretazione dei radiogrammi mammari da parte dei radiologi La. e F., cui era conseguito un ritardo diagnostico di circa un anno; la condotta dei chirurghi S. e P. era stata coerente con la buona pratica clinica, avendo adottato provvedimenti terapeutici coerenti con le evidenze cliniche e con le indagini strumentali effettuate dallo specialista della disciplina ( La.); l’incisione chirurgica di accesso era stata praticata in sede periareolare, l’unica via di accesso attraverso cui le microcalcificazioni retroarticolari evidenti nei radiogrammi potevano per certo essere asportate; le diverse sedi erroneamente indicate in cartella clinica come sede delle microcalcificazioni non erano mai state evidenziate sul radiogramma del 7 febbraio 1992 nè dal radiologo La., nè nel corso della riunione del collegio peritale; la malattia neoplastica da cui era affetta la L. (carcinoma mam m. bilaterale, con metastasi linfonodali ascellari multiple) poteva essere definita a rischio medio – elevato; la ripetizione dell’esame mammografico prima dell’intervento si poteva ritenere senz’altro superflua stante l’esiguo intervallo di tempo intercorso fra l’esecuzione della precedente mammografia (7 febbraio 1992) e l’intervento chirurgico ((OMISSIS)).

Aggiunse la Corte, quanto all’assunto del consulente di parte appellata secondo cui da uno specialista senologo e oncologo doveva attendersi una corretta interpretazione dei radiogrammi, e dunque l’identificazione della presenza di un nodulo nei quadranti mammari inferiori, che il collegio peritale aveva rilevato che “non è affatto atteso che uno specialista di una disciplina possa o debba contrastare o smentire con la propria valutazione quella dello specialista della specifica disciplina oggetto dell’iniziale valutazione. Peraltro, nonostante successivi e ripetuti radiogrammi eseguiti dopo l’intervento chirurgico, interpretati da due specialisti in radiologia (i Dott.ri La. e F.), si è dovuto attendere sino al dicembre 1993 prima che gli stessi specialisti radiologi ponessero indicazione all’esecuzione di un prelievo per scopi diagnostici, con ciò documentando inconfutabilmente la difficoltà diagnostica delle lesioni da cui era affetta la sig.ra L., che certamente non avrebbero potuto essere valicate da altri se non da uno specialista in radiologia con prolungata esperienza in ambito senologico”. Espose inoltre che il collegio di consulenti aveva affermato che “giammai il Dott. S. avrebbe dovuto procedere di propria iniziativa all’eventuale asportazione del nodulo peraltro mal definibile nel radiogramma del 07/02/1992, in assenza della sua preliminare verifica diagnostica isto-citopatologica da effettuarsi a mezzo prelievo con ago la cui indicazione avrebbe dovuto essere posta dal radiologo senologo, qualora avesse inteso il nodulo mal definibile, presente nel predetto mammogramma del febbraio 1992, meritevole di ulteriori approfondimenti diagnostici, ciò che evidentemente non fu”.

5. Hanno proposto ricorso per cassazione C.M., C.S., Ca.Ma. e C.R., in proprio e nella qualità di eredi di L.F., sulla base di sei motivi. Resistono con distinti controricorsi S.F. e l’Istituto Tumori “Giovanni Paolo II” – Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (già Ospedale Oncologico di Bari). E’ stata depositata memoria di parte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 324 e 342 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che entrambi gli appelli erano inammissibili per difetto di specificità non risultando impugnate tutte le rationes decidendi alla base della decisione di primo grado ed in particolare: il mancato rilievo nel referto radiologico di un nodulo ovalare aveva comportato una inadeguata pianificazione dell’intervento; mancavano i radiogrammi della mammografia eseguita per reperaggio; era stata omessa l’esecuzione di un esame radiografico del pezzo operatorio, un esame istologico estemporaneo ed un esame mammografico successivo all’intervento operatorio; non essendo stati richiesti gli esami intraoperatori non si sarebbe dovuta dimettere la paziente prima di acquistare contezza dell’esito dell’intervento. Aggiunge che gli appelli non avevano investito le rationes decidendi aventi ad oggetto l’errata individuazione della sede dell’intervento chirurgico conseguente all’omessa esecuzione di radiogrammi di mammografia ulteriori a quello eseguito il 7 febbraio 1992, la mancata effettuazione degli esami intraoperatori e postoperatori necessari e la dimissione della paziente senza acquisire gli esiti documentati dell’intervento.

1.1. Il motivo è infondato. Va premesso che qualora l’atto d’appello denunci l’erronea valutazione da parte del giudice di primo grado degli elementi probatori acquisiti o delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è sufficiente, al fine dell’ammissibilità dell’appello, l’enunciazione dei punti sui quali si chiede al giudice di secondo grado il riesame delle risultanze istruttorie, per la formulazione di un suo autonomo giudizio, non essendo richiesto che l’impugnazione medesima contenga una puntuale analisi critica delle valutazioni e delle conclusioni del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ovvero l’espressa indicazione delle questioni decisive non esaminate o non correttamente esaminate (Cass. 18 agosto 2004, n. 16190; 12 settembre 2011, n. 18674). Alla luce di tale principio di diritto gli atti di appello, così come illustrati nei controricorsi e sulla base dell’accesso agli atti del processo consentito dalla natura processuale della violazione denunciata, superano il vaglio di ammissibilità in termini di specificità della censura evidenziando i punti di diversa valutazione delle risultanze istruttorie, con particolare riferimento al reperaggio cutaneo delle microcalcificazioni da asportare e lo svolgimento di esami intraoperatori.

In ogni caso, quanto alla dedotta pluralità di rationes decidendi che avrebbe caratterizzato la decisione di primo grado, va evidenziato che la censura difetta di specificità in quanto non risultata adeguatamente illustrato come i singoli punti controversi elencati, e decisi dal giudice di primo grado nel modo indicato, siano in grado di costituire motivo portante autonomo ed indipendente del riconoscimento di responsabilità professionale tali da costituire autonoma ratio decidendi, potendo piuttosto costituire le articolazioni di un unitario giudizio di responsabilità e dunque punti controversi in senso stretto e non distinte rationes decidendi.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116,132,191 e 195 c.p.c., art. 118 att. c.p.c., artt. 1176,1218,1223 e 1228 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha acriticamente aderito alla consulenza disposta in secondo grado senza indicare le ragioni per le quali tale consulenza fosse da preferire rispetto a quella di primo grado, peraltro particolarmente pregnante perchè aderente ai dati emergenti dalla documentazione clinica e perchè conforme alle risultante peritali eseguite in sede penale (ove, dopo la condanna in primo grado, in appello era stata dichiarata l’improcedibilità per mancanza di querela).

2.1. Il motivo è infondato. Nel regime del previgente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 è stato da questa Corte affermato che quando, in presenza di due successive contrastanti consulenze tecniche d’ufficio (nella specie, la prima disposta nel giudizio di primo grado e la seconda in sede di gravame), il giudice aderisca al parere del consulente che abbia espletato la sua opera per ultimo, la motivazione della sentenza è sufficiente – ed è escluso quindi il vizio di motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -, pur se tale adesione non sia specificamente giustificata, ove il secondo parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti nella prima relazione o “aliunde” deducibili. In tal caso, le doglianze di parte, che siano solo dirette al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico e non individuino gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne, anche per derivazione dal ragionamento del consulente, la logicità, non possono configurare l’anzidetto vizio di motivazione (Cass. 27 febbraio 2009, n. 4850; 31 marzo 2011, n. 7494; 18 giugno 1998, n. 6106).

A tale indirizzo va data continuità, nel mutato contesto normativo dell’art. 360, comma 1, n. 5, nel senso che il ricorrente che si dolga dell’adesione alla consulenza disposta in appello non può limitarsi all’astratta denuncia della mancata confutazione critica della prima consulenza, ma deve specificatamente indicare in quali passaggi la motivazione della sentenza, nella misura in cui recepisca la seconda consulenza, non sia in grado di scalfire il percorso logico della prima consulenza. Con riferimento a quest’ultima, nel motivo di censura, i ricorrenti si limitano a richiamare una maggiore pregnanza per l’aderenza ai dati emergenti dalla documentazione clinica e per la conformità alle risultante peritali eseguite in sede penale, ma si tratta di deduzione di carattere generico, inidonea ad assolvere l’indicato onere processuale.

In ogni caso, e trattasi del profilo assorbente, nella motivazione della sentenza si dà conto che la rinnovazione della CTU a mezzo di un collegio di periti (composto da un chirurgo senologo, un anatomopatologo ed un radiologo) è stata disposta “al fine di dare risposta esauriente agli originari quesiti e di approfondire, alla luce delle contestazioni mosse dagli appellanti, il profilo del nesso di causalità tra la condotta del prof. S. e l’evento dannoso”. La motivazione recepisce così, e fa proprio, il contenuto dell’ordinanza che ha disposto la CTU. Trattasi di atto del processo di merito a cui il Collegio, stante la natura processuale della violazione denunciata, può accedere. Con l’ordinanza di data 14 luglio 2014 la CTU è stata rinnovata perchè “ritenuta non esauriente l’indagine peritale svolta in primo grado, alla luce dei motivi di appello proposti nei giudizi riuniti, che involgono precise contestazioni alle valutazioni e alle consultazioni espresse in quella sede”. Il giudizio di fatto del giudice di merito è stato dunque nel senso del carattere non esauriente delle risultanze derivanti dalla consulenza di primo grado e sul punto la valutazione del giudice di appello, in quanto relativa alla lettura delle risultanze processuali, non è sindacabile in sede di legittimità. Tale giudizio rende poi evidente sul piano motivazionale le ragioni per le quali la seconda consulenza è stata preferita alla prima.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115,116 e 132 c.p.c., art. 118 att. c.p.c., art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4. Osserva la parte ricorrente che la motivazione è apparente perchè la corte territoriale, senza indicare le ragioni della decisione, ha ritenuto fondato il motivo di appello con cui si lamentava l’erronea valutazione degli elementi probatori acquisiti in sede penale e l’eccessiva valorizzazione della pronuncia penale di primo grado, da cui non si sarebbe potuto trarre alcuna efficacia, neppure indiziaria, essendo stata riformata in appello. Aggiunge che nessuna eccessiva valorizzazione della sentenza penale di primo grado vi era stata e che comunque il giudice può comunque avvalersi di prove c.d. atipiche, ed in particolare delle perizie del giudizio penale.

3.1. Il motivo è infondato. Il motivo di appello è stato ritenuto fondato dalla corte territoriale “alla luce degli esiti della nuova perizia collegiale” disposta in sede di appello. Nel motivo di censura si afferma che non vi sarebbe correlazione fra la consulenza disposta nel grado di appello e la questione dei limiti di utilizzabilità nel giudizio civile delle prove raccolte in altro processo. Si tratta di questione non pertinente perchè, posta la natura del giudizio di appello come giudizio sul rapporto e non sull’atto, la corte territoriale, sulla base della nuova consulenza, è pervenuta ad un accertamento di merito contrastante con quello desumibile da una particolare valutazione degli elementi probatori ricavabili dal giudizio penale. Non doveva dunque la corte territoriale sindacare della legittimità della sentenza di appello quale atto circa il rilievo conferito agli elementi probatori in discorso, ma accertare il merito della controversia e ciò è stato fatto secondo linee contrastanti con la valutazione degli elementi ricavabili dal giudizio penale che, a parere della parte appellante, sarebbe stata compiuta dal Tribunale.

4. Con il quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., artt. 1173,1176,1218,1223,1228,2697,2699,2700 e 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che il rilievo dell’impossibilità per lo S. di “contrastare o smentire” l’errata lettura da parte del radiologo è in contrasto con la giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di attività medica di equipe ciascuno dei soggetti che si divide il lavoro risponde dell’evento dannoso non solo per la propria negligenza o imperizia, ma anche per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo intervento, sicchè ogni sanitario deve valutare l’attività svolta da altro collega, sia pure specialista in diversa disciplina, e controllarne la correttezza (Cass. pen. 18548 del 2005; n. 46824 del 2011; n. 34503 del 2016), principi espressi proprio in analoga fattispecie di errore diagnostico del radiologo non corretto dal chirurgo. Aggiunge che nel caso di specie non era inoltre stata disposta dal chirurgo prima dell’intervento la ripetizione dell’esame mammografico, la cui esecuzione era imposta dalle regole della buona pratica chirurgica, e che l’errore diagnostico dei radiologi, una volta riconosciuto, non poteva costituire esimente nei confronti dello S. perchè se la condotta dei radiologi si era rivelata imperita ciò significa che la corretta e tempestiva diagnosi non era impossibile per il chirurgo ed anzi proprio la circostanza del ritardo diagnostico imputato all’imperizia dei radiologi, ritenuti responsabili, conferma che una diagnosi tempestiva della patologia era possibile. Osserva inoltre che in base alle indicazioni della cartella clinica e del referto anatomo – patologico si imponeva alla corte territoriale di ritenere accertato l’errore nell’individuazione del luogo di effettuazione dell’escissione chirurgica, eseguita non nell’area affetta dalla patologia neoplastica, ma in zona diversa, e che la ritenuta effettuazione del radiogramma sul pezzo chirurgico escissionale è contraddetta dalla mancanza fra i documenti in atti dei radiogrammi della mammografia eseguita per reperaggio e dell’esecuzione di un esame radiologico del pezzo operatorio. Conclude nel senso che costituisce inoltre inesatto adempimento l’inutilità dell’operazione chirurgica che non ha conseguito il risultato per imperizia.

5. Con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 att. c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4. Osserva la parte ricorrente che la motivazione è apparente per insanabile contrasto fra affermazioni in quanto l’imperizia relativa al ritardo diagnostico da parte dei radiologi conferma che una diagnosi tempestiva della L. era possibile ad opera di sanitari operanti con perizia, prudenza e diligenza. Aggiunge che la motivazione è anche apparente per il contrasto fra il rilievo della divergenza delle indicazioni contenute nella cartella clinica e nel referto istologico circa l’individuazione della sede dell’intervento e la prospettazione formulata dai consulenti, e condivisa dalla corte territoriale, che l’operazione sia stata eseguita nella sede corretta.

5.1. I motivi quarto e quinto, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono infondati. Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, sicchè rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate ed alla scelta stessa di procedere all’operazione, potendo solo in tal caso esimersi dalla concorrente responsabilità dei membri dell’equipe nell’inadempimento della prestazione sanitaria (Cass. 29 gennaio 2018, n. 2060).

Si tratta di arresto conforme alla giurisprudenza penale di questa Corte, secondo cui nel caso di equipe chirurgica e più in generale in quello in cui ci si trovi di fronte ad ipotesi di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico – chirurgica, sia pure svolta non contestualmente, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico; ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass. pen. 24 gennaio 2005, n. 18548; 26 ottobre 2011, n. 46824).

In presenza di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico – chirurgica, svolta non contestualmente come nel caso di specie, rientra pertanto fra gli obblighi del sanitario il controllo sull’operato e sugli errori di altro sanitario. I limiti dell’obbligo in discorso sono rappresentati dal carattere evidente e non settoriale dell’errore altrui, come tale rilevabile ed emendabile con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio.

La corte territoriale ha fatto proprio il rilievo del collegio dei consulenti secondo cui “non è affatto atteso che uno specialista di una disciplina possa o debba contrastare o smentire con la propria valutazione quella dello specialista della specifica disciplina oggetto dell’iniziale valutazione. Peraltro, nonostante successivi e ripetuti radiogrammi eseguiti dopo l’intervento chirurgico, interpretati da due specialisti in radiologia (i Dott.ri La. e F.), si è dovuto attendere sino al dicembre 1993 prima che gli stessi specialisti radiologi ponessero indicazione all’esecuzione di un prelievo per scopi diagnostici, con ciò documentando inconfutabilmente la difficoltà diagnostica delle lesioni da cui era affetta la sig.ra L., che certamente non avrebbero potuto essere valicate da altri se non da uno specialista in radiologia con prolungata esperienza in ambito senologico”.

Il giudizio di fatto del giudice di merito è stato dunque nel senso che il grado di difficoltà diagnostica delle lesioni era superabile solo da “uno specialista in radiologia con prolungata esperienza in ambito senologico”. L’errore altrui secondo tale giudizio di fatto non era evidente e non settoriale, tale da essere rilevabile con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, ma era suscettibile di percezione solo sulla base delle cognizioni settoriali dello specialista radiologo, “con prolungata esperienza in ambito senologico”. Si tratta di giudizio di fatto, non sindacabile nella presente sede di legittimità se non nei limiti della denuncia di vizio motivazionale.

La parte ricorrente non ha denunciato il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 ma la carenza assoluta di motivazione per il carattere inconciliabile delle affermazioni contenute in sentenza. La contraddizione risiederebbe, secondo la parte ricorrente, nell’iniziale rilievo secondo cui la L. aveva patito un errore diagnostico cagionato dall’errata interpretazione dei radiogrammi mammari da parte dei radiologi La. e F., cui era conseguito un ritardo diagnostico di circa un anno, sicchè, seguendo il contenuto della censura, se si riconosce l’originario errore del radiologo, e dunque l’assenza di cause di esonero da responsabilità per quest’ultimo, non può non ammettersi l’errore pure del chirurgo. Ritenere quest’ultimo esente da responsabilità non sarebbe conciliabile con la rilevata responsabilità del radiologo. L’apparente contraddizione si scioglie ove si consideri che l’errore del radiologo è stato ravvisato sulla base di un parametro di valutazione della condotta del professionista che non appare estensibile a quella del chirurgo nell’ambito della cooperazione multidisciplinare nell’attività medico – chirurgica. Il parametro è quello dello “specialista in radiologia con prolungata esperienza in ambito senologico”, il quale è rilevante sotto il profilo dell’art. 1176 c.c., comma 2, per valutare se vi è stato adempimento dell’obbligazione da parte del radiologo ma, in quanto implicante cognizioni settoriali eccedenti le comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non può costituire criterio di valutazione dell’esattezza dell’adempimento nell’ambito della cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica per la quale l’obbligo di controllo dell’errore altrui è esigibile se quest’ultimo è evidente e non settoriale, tale da essere rilevabile con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Il giudizio di fatto del giudice di merito in ordine all’estraneità al contenuto dell’obbligazione del chirurgo di un dovere di controllo stante il riferimento al parametro dello “specialista in radiologia con prolungata esperienza in ambito senologico” esclude ab initio la possibilità che possa venire in rilievo una violazione della diligenza generica di cui all’art. 1176 c.c., comma 1, la quale, in quanto rilevante per stabilire se c’è impossibilità della prestazione imputabile al debitore (art. 1218), non può operare una volta che si sottragga dal campo della prestazione la specifica condotta professionale. La censura in termini di apparenza della motivazione è dunque da disattendere.

Per il resto le censure contenute nei due motivi in esame non meritano accoglimento. La denuncia nel quarto motivo dell’errore nell’individuazione del luogo di effettuazione dell’escissione chirurgica e la censura per la mancata ripetizione dell’esame mammografico si scontrano con il giudizio di fatto del giudice di merito di segno diverso, non sindacabile se non nei limiti del vizio motivazionale, il quale, sempre recependo le conclusioni della CTU, è stato nel senso della superfluità del nuovo esame mammografico, stante l’esiguo intervallo di tempo intercorso fra l’esecuzione della precedente mammografia e l’intervento chirurgico, e della valutazione dell’incisione chirurgica di accesso come praticata nell’unica via di accesso attraverso cui le microcalcificazioni retroarticolari evidenti nei radiogrammi potevano essere asportate. Quest’ultima valutazione esclude il carattere apparente della motivazione denunciato nel quinto motivo con riferimento alla correttezza della sede di esecuzione dell’intervento.

6. Con il sesto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223,1226,1227 e 2056 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che l’illegittimità dell’erronea esclusione della responsabilità dello S. e della struttura sanitaria travolge la reiezione dell’appello incidentale diretto a conseguire la rideterminazione del quantum e l’applicazione delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano.

6.1. Il rigetto dei precedenti motivi, vertenti sull’an della responsabilità, determina l’assorbimento del presente motivo relativo al profilo del quantum.

7. Alla luce delle alterne vicende processuali e della peculiarità del caso, che ha comunque visto riconoscere una responsabilità professionale (quella dei radiologi), sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 – quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, con assorbimento dell’ultimo motivo.

Dispone la compensazione delle spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Dispone che in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle persone fisiche riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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