Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26303 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. III, 17/10/2019, (ud. 02/07/2019, dep. 17/10/2019), n.26303

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6103-2018 proposto da:

A.F., M.M., M.A.,

M.R., domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPA LA

ROCCA;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA GRAVINA DI CALTAGIRONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1669/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 21/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/07/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso,

accoglimento p.q.r. del 5 motivo;

udito l’Avvocato GIUSEPPA LA ROCCA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

In parziale riforma della decisione di prime cure, la Corte d’appello di Catania, con sentenza 21.9.2017 n. 1669, rigettava la domanda di accertamento della responsabilità professionale medica e di condanna al risarcimento del danno da perdita di chances, proposta da M.F.B., deceduto – in conseguenza di melanoma metastatico ai polmoni ed al fegato nonchè di melanoma primario alla cute della nuca – nel corso del giudizio che veniva proseguito dagli eredi, rilevando che dalle tre consulenze tecniche di ufficio svolte nei gradi di merito emergeva quanto segue:

a) l’esame istologico eseguito in seguito alla asportazione di tre nevi, nei primi mesi del (OMISSIS), presso l’Azienda Ospedaliera “(OMISSIS)” di (OMISSIS), dava esito “nevo intradermico pigmentato con vivace infiltrato infiammatorio linfocitario ed istiocitario. Abbondanti melanofagi”, era di interpretazione assolutamente incerta, come dimostrato anche dall’esame istologico ripetuto dall’Istituto Nazionale della cura dei tumori di Milano, nel (OMISSIS) dopo che il M. si era sottoposto ad asportazione di un linfonodo alla regione inguinale destra, individuato come melanoma metastatico – che era risultato coerente sia con la diagnosi di “melanoma primitivo” estesamente regredito, sia con quella di “melanoma metastatico” in sede dermica con spiccata regressione ed epidermotropismo, senza peraltro che potesse evidenziarsi alcun collegamento tra la metastasi al linfonodo – considerata un episodio isolato e risolto – e la diffusione metastatica sviluppatasi in modo occulto, per via ematica e non per diffusione linfatica: sicchè l’iniziale incompleta – diagnosi dei sanitari dell’Azienda ospedaliera non poteva avere avuto alcuna incidenza causale negativa sulla possibilità di sopravvivenza, prevista solo per “melanoma al primo stadio” e statisticamente riscontrata in medicina, nel 60% dei casi, con prognosi di vita superiore a cinque anni, in quanto – come accertato dal CTU Dott. Mi. e dal CTU Dott. T. – una precoce diagnosi, quando anche indicativa della possibile natura oncologica dei nevi, non avrebbe dato corso, tenuto conto delle conoscenze scientifiche del tempo, delle caratteristiche dei nevi (sottili e senza ulcerazioni) e del basso indice di rischio, ad alcuna strategia terapeutica, prescrivendo in tal caso i protocolli sanitari soltanto interventi di sorveglianza, con la conseguenza che non sarebbe stato possibile, comunque, contrastare la evoluzione della patologia oncologica, sviluppatasi non per via dermica ma per via ematica, tanto più che il linfonodo inguinale si era presentato come episodio del tutto isolato e scollegato (avendo dato esito negativo le ricerche sui linfonodi asportati nella stessa area), e non era stato anch’esso seguito da alcuna terapia medica.

b) la assenza della necessità o della ipotizzabilità di differenti scelte terapeutiche, stante le risultanze istologiche e le caratteristiche morfologiche dei nevi, escludeva quindi la configurabilità di una perdita di chances di temporanea sopravvivenza (rallentamento della progressione della malattia).

Risultava, invece, provato il danno da “peggioramento del vissuto della malattia”, liquidato in termini di maggiore sofferenza e di inabilità temporanea biologica, in quanto il ritardo determinato dall’errore diagnostico aveva impedito al M. di svolgere tempestivamente più approfonditi accertamenti che gli avrebbero consentito di concentrare in un unico ricovero gli interventi di asportazione dei nevi e del infondono inguinale, subendo quindi soltanto un intervento chirurgico, anzichè doversi sottoporre a distanza di tempo ad un secondo ricovero ospedaliero e ad un altro intervento cruento.

La Corte distrettuale dichiarava assorbite le altre questioni, e dichiarava altresì inammissibili, in quanto proposte tardivamente soltanto in grado di appello, le domande formulate dagli eredi di risarcimento dei danni subiti “jure proprio”.

La sentenza della Corte d’appello, non notificata, è stata impugnata dagli eredi di M.F.B., con ricorso per cassazione affidato a sette motivi, notificato alla Azienda Ospedaliera presso il difensore domiciliatario in data 15.2.2018.

Non ha svolto difese l’ente pubblico intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo, il secondo ed il terzo motivo viene dedotto il vizio di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nonchè la nullità della sentenza per vizio di carenza assoluta di motivazione ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), in relazione agli argomenti posti a fondamento della decisione e basati sulle conclusioni raggiunte negli elaborati peritali depositati, rispettivamente, in primo grado, dai CC.TT.UU Dott. Mi., Dott. N. ed, in secondo grado, dal Dott. T..

I ricorrenti intendono sottoporre nuovamente a riesame gli elaborati peritali per mettere in discussione le conclusioni raggiunte dalla Corte distrettuale in ordine all’accertamento della insussistenza del nesso causale tra ritardo dovuto all’errore diagnostico commesso dai sanitari della Azienda ospedaliera e possibilità di sopravvivenza del de cuius.

Indipendentemente dalla evidente incompatibilità dei due vizi di legittimità dedotti cumulativamente dai ricorrenti (atteso che un “vizio di motivazione” è ravvisabile solo nel caso in cui esista effettivamente una motivazione, e non invece ove tale motivazione, intesa come elemento costitutivo di validità della sentenza, risulti del tutto mancante e dunque la sentenza sia affetta dal vizio di nullità), osserva il Collegio che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012, applicabile “ratione temporis”, come interpretato da questa Corte – consente di sindacare in sede di legittimità il vizio di motivazione esclusivamente sotto il profilo dell'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), non accedendo alla verifica di legittimità la critica alla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione condotta alla stregua di elementi istruttori extratestuali, essendo confinato, pertanto, il sindacato di questa Corte, oltre alla ipotesi omissiva indicata, soltanto alla verifica della esistenza del requisito essenziale di validità della sentenza ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

Orbene il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 impone la indicazione del “fatto storico”, principale o secondario, rivestente “carattere decisivo” ai fini della immutazione della soluzione della controversia, che – pur risultando essere stato ritualmente acquisito al materiale istruttorio – non è stato, tuttavia, rilevato e considerato dal Giudice di merito: evidentemente non sono sussumibili nella categoria del “fatto storico” gli argomenti critici svolti dal CTU, occorrendo distinguere all’interno dell’elaborato peritale ciò che risulta rilevato come “accadimento della realtà”, nella sua consistenza materiale fenomenica, e ciò che, pur riferendosi al fenomeno naturale, costituisce invece espressione della “capacità di giudizio critico” dell’ausiliario e che pertanto si pone non sul piano della realtà fattuale ma sul piano logico della valutazione dei fatti e delle loro connessioni.

Ne segue che le “ipotesi formulate” dagli ausiliari in termini prognostici, desunte dalla statistica sanitaria, non appartengono alla categoria dei fatti storici ma a quella della “elaborazione” del dato statistico, che sconta differenti approcci metodologici nella costruzione e rilevazione del campione e dunque risponde a criteri pur sempre di carattere valutativo, non riconducibili all’accertamento di un fatto storico.

In ogni caso, rimane del tutto inesplicato l'”errore di fatto” che avrebbe commesso il Giudice di appello rilevando – sulla scorta di quanto accertato dal CTU Dott. Mi. – che i nevi presentavano caratteristiche tipologiche tali (minimo spessore, ulcerazione assente, assenza di linfonodi in sede di metastasi) da consentirne la qualificazione a “basso rischio” (melanoma in regressione allo stadio iniziale), e quindi concludendo che, anche nel caso in cui la diagnosi iniziale fosse stata corretta, la stessa non avrebbe comunque potuto condurre ad una prognosi diversa, nè – in particolare – avrebbe indotto i medici a prescrivere immediatamente interventi terapeutici, in quanto la patologia oncologica al primo stadio “avrebbe fatto presagire una sopravvivenza superiore a 5 anni nel 60% dei casi” (cfr. c.t.u. riprodotta a pag. 22 ricorso): il che vuol dire che alcun trattamento altamente invasivo sarebbe stato “anticipatamente” praticato dai medici, anche se la diagnosi dei sanitari della Azienda ospedaliera avesse evidenziato la natura oncologica dei nevi, e dunque alcun ulteriore ipotetico vantaggio avrebbe potuto conseguire il M. da una diagnosi precoce.

Inammissibile appare, poi, la censura rivolta alla omessa considerazione delle risultanze della c.t.u. redatta dal Dott. N.. Come emerge dalle proposizioni estratte dall’elaborato tecnico, trascritte nel secondo motivo di ricorso, il consulente di ufficio aveva rilevato che la mancanza di ricerca del linfonodo sentinella (metodica peraltro solo in fase iniziale di sperimentazione) avrebbe consentito di anticipare l’accertamento della “metastasi linfonodale inguinale”, mentre non era in nessun caso prevedibile la evoluzione della patologia per via di “metastatizzazione ematogena”, che non avrebbe potuto essere evidenziata neppure qualora fosse stata individuata nella diagnosi iniziale del campione rilevato con l’esame istologico la natura oncologica dei nevi. Tale conclusione è stata recepita dalla Corte d’appello (in motivazione pag. 4), con statuizione che non viene investita efficacemente dai ricorrenti, i quali si sono limitati a riportare la affermazione del CTU – per vero di lapalissiana logica – secondo cui più precoce è l’accertamento del tumore prima si riesce ad intervenire in modo efficace (mediante “approccio terapeutico definito loco-regionale..(con)..ampia asportazione sia in superficie che in profondità nella sede della precedente escissione…”), affermazione tuttavia che, al pari dei richiamati precedenti giurisprudenziali (a tenore dei quali la omessa o ritardata diagnosi aveva impedito al malato terminale di fruire di interventi anche solo palliativi e di alleviare le sue sofferenze), non trova rispondenza nella fattispecie concreta, non essendo stato superato il dirimente rilievo per cui anche il corretto accertamento istologico di melanoma primario dei nevi, stante le peculiari caratteristiche della formazione neoplastica, non avrebbe dato luogo ad alcuna immediata terapia di contrasto (che, infatti, non veniva somministrata neppure dopo l’asportazione del linfonodo inguinale, nel mese di (OMISSIS), come puntualmente evidenziato dal Giudice di appello), ma avrebbe indotto a prescrivere soltanto un programma di sorveglianza (in motivazione pag. 5-6), con la conseguenza che appare del tutto priva di riscontro probatorio la tesi difensiva secondo cui l’errore diagnostico – alla stregua del criterio eziologico del “più probabile che non” – avrebbe impedito al paziente di beneficiare degli effetti del trattamento terapeutico, qualora praticato tempestivamente ed in anticipo rispetto al tempo trascorso fino alla effettiva scoperta della patologia.

Inconferente è, inoltre, la critica alla sentenza impugnata, supportata dal mero dato statistico riferito dal CTU Dott. T., secondo cui “in qualsiasi caso il 35% dei pazienti con metastasi linfonodali (stadio III) vive dopo 25 anni dopo la linfoadenectomia”.

Indipendentemente dalla genericità del dato statistico, che astrae dalle concrete condizioni di salute del soggetto, come del pari astratta appare la indicazione statistica che “tra l’82% ed il 63% dei pazienti con linfonodi non clinicamente evidenti e senza ulcerazioni, vive rispettivamente fino a 5 e 10 anni”, occorre ribadire che anche tale critica si fonda sull’assunto per cui il ritardo nel trattamento terapeutico avrebbe potuto evitarsi se la diagnosi originaria fosse stata corretta, ma tale tesi difensiva, come sopra evidenziato, non trova validi supporti nelle risultanze peritali, atteso che il Dott. Mi. aveva individuato specifiche caratteristiche morfologiche dei nevi (spessore sottile, assenza ulcerazione, assenza linfonodi sede di metastasi: ricorso pag. 22. Mentre il Dott. T. avrebbe, invece, sostenuto di non poter rispondere al quesito – sulla diagnosi precoce e sulla anticipata esecuzione del trattamento – in quanto non erano da lui conosciute “le informazioni specifiche quali lo spessore della lesione, la presenza della ulcerazione, l’indice mitotico….”) che deponevano per un “basso rischio” tale da non suggerire alcun anticipato trattamento terapeutico. Vale osservare, al riguardo, che i ricorrenti non adducono alcun “fatto storico decisivo” omesso dal Giudice di appello, nè investono la “ratio decidendi” secondo cui, finanche fosse stato precocemente diagnosticato dai sanitari della Azienda ospedaliera il melanoma primario, alcuna indicazione di terapia od intervento sarebbe stata comunque praticata, avuto appunto riguardo alle specifiche caratteristiche dei tessuti che deponevano per un “basso rischio”.

Quarto motivo: violazione art. 1173 c.c. in ordine alla fonte della obbligazione risarcitoria, art. 1218 c.c. in ordine alla responsabilità del debitore in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (recte n. 3); violazione del principio di risarcimento integrale del danno ex art. 1223 c.c..

Assumono i ricorrenti che il Giudice di appello, provvedendo a liquidare il danno biologico da inabilità temporanea e il danno da sofferenza, avrebbe argomentato in modo contraddittorio rispetto alla precedente affermazione della insussistenza del nesso causale tra l’errore diagnostico dei medici dell’Azienda ospedaliera ed il danno da perdita delle possibilità di sopravvivenza.

Il motivo è inammissibile.

Premesso che lo sviluppo espositivo del motivo di ricorso, interamente incentrato sul vizio logico della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non trova corrispondenza negli altri vizi di violazione di norme di diritto indicati in rubrica, gli argomenti svolti non investono la “ratio decidendi” adottata dal Giudice di appello.

Ed infatti, che il ritardo determinato dall’errore diagnostico sull’esame istologico dei nevi abbia impedito di estendere, in tale occasione, la indagine anche al linfonodo inguinale, compromettendo la possibilità di concentrare nello stesso ricovero gli interventi chirurgici di escissione praticati, eseguiti invece in tempi diversi (a distanza di circa sette mesi l’uno dall’altro), ed abbia quindi introdotto ulteriori elementi negativi (moltiplicazione di stress, sofferenza fisica) nella vita del paziente, non consente di ravvisare altri eventi lesivi diversi oltre la inutile duplicazione degli interventi chirurgici (prima la rimozione dei nevi e poi del linfonodo inguinale), duplicazione dalla quale sono derivati i “danni-conseguenza” costituiti da un inutile prolungamento del periodo di inabilità biologica temporanea (determinato dai ricoveri e dalla degenza ospedaliera) e dalla maggiore sofferenza per il vissuto subito dal paziente, non trovando alcuna giustificazione l’assunto difensivo volto ad anticipare lo “spatium doloris” retrodatandolo al momento della iniziale omessa diagnosi: non si comprende, infatti, in assenza di una qualsiasi allegazione in fatto dei ricorrenti, quale peggioramento delle condizioni di vita – in termini di cognizione della malattia, penosità della situazione personale, disperazione o rassegnazione o ancora di malessere o dolore psicofisico – possa avere cagionato ed indotto nel M. l’errore diagnostico, durante il periodo di tempo trascorso fino al successivo ricovero ospedaliero per l’asportazione del linfonodo inguinale.

Difetta, quindi, del tutto, nel motivo in esame, una pertinente critica rivolta alla statuizione impugnata, con la quale la Corte d’appello ha accolto la domanda risarcitoria liquidando il “danno biologico temporaneo” ed il danno cd. morale, in relazione agli ulteriori giorni di ricovero imposti al paziente a causa del secondo intervento e che avrebbero potuto, invece, essere evitati se in occasione della asportazione dei nevi le indagini fossero state compiutamente estese su tutta la persona così da rilevare la esistenza anche del linfonodo inguinale.

Incomprensibile è poi la tesi, prospettata dai ricorrenti, secondo cui la “inabilità temporanea” del M., individuata dalla Corte territoriale nel periodo di ricovero e degenza presso l’ospedale di Catania, sarebbe ininterrottamente proseguita fino all’exitus (22.5.2001) “essendosi la perdita di chance riverberata e proiettata per tutto il residuo tempo di vita del M. quale impatto sulla qualità della sua sopravvivenza” (ricorso pag. 34).

Occorre, infatti, distinguere, nell’ambito del cd. danno biologico (per tale intendendosi, secondo la definizione legislativa che ha recepito la pluriennale elaborazione giurisprudenziale, “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”: D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 138, comma 2, lett. a) ed art. 139, comma 2):

– i postumi invalidanti che – proprio in considerazione del loro collocarsi cronologicamente in un tempo successivo rispetto ad un pregresso diverso stato patologico – si qualificano “inemendabili” per la loro natura permanente

– la inabilità temporanea (assoluta o parziale – quest’ultima definita in termini percentuali -) che consiste nel periodo di incapacità ad attendere a “qualsiasi” attività – inabilità totale – o soltanto ad “alcune” attività inabilità parziale – della vita quotidiana, situazione patita dal soggetto, a causa della lesione della salute, prima di essere ritenuto dai medici clinicamente guarito, e che coincide, pertanto, con il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico, ed al quale consegue il ripristino della condizione di salute antecedente il sinistro (qualora dalla terapia non esitino condizioni menomative) ovvero la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti (qualora al termine delle terapie esitino menomazioni o condizioni peggiorative inemendabili).

La nozione medico-legale di “malattia” è stata recepita anche da questa Corte, laddove si è precisato che l'”invalidità permanente” costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all’esito di un “periodo di malattia”, e non può quindi sussistere prima della sua cessazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015. La nozione di malattia trova analoga definizione altresì nel diritto penale: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 6371 del 19/01/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 43763 del 29/09/2010 entrambe così massimate dal CED “In tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorchè localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione”. Vedi anche Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 4014 del 27/10/2015 che include nella durata della malattia anche il periodo di convalescenza o quello di riposo; id. Sez. 5, Sentenza n. 54005 del 03/11/2017), ed ancora si è chiarito che, in tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità, con relativa stabilizzazione dei postumi, con la conseguenza che il danno biologico di natura “permanente” deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello “temporaneo”, giacchè altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3414 del 07/03/2003; id. Sez. L, Sentenza n. 11704 del 30/07/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 25/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 15223 del 19/07/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 26897 del 19/12/2014).

Se dunque è possibile legittimamente procedere a liquidare entrambe le voci di danno “temporaneo” e “permanente”, in quanto il danno biologico può avere ad oggetto tanto l’invalidità temporanea (allorchè la malattia risulti ancora in atto), quanto l’inabilità permanente (qualora, per converso, la malattia sia guarita, ma con postumi permanenti, residuati alla lesione), non appare dubitabile che tale liquidazione debba rispondere al criterio diacronico e non a quello sincronico, iniziando l’uno soltanto al termine dell’altro – diversamente venendo a duplicarsi il risarcimento di un medesimo danno -, con la logica conseguenza per cui, nella liquidazione del danno biologico permanente, occorre fare riferimento all’età della vittima, non al momento del sinistro ma a quello di cessazione dell’invalidità temporanea, perchè solo a partire da tale momento, con il consolidamento dei postumi, quel danno può dirsi venuto ad esistenza e la menomazione della capacità psicofisica può, quindi, essere valutata – attesa la sua stabilizzazione – in relazione alla residua aspettativa di vita del soggetto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 10303 del 21/06/2012; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 3121 del 07/02/2017).

Tanto premesso il motivo tende infondatamente a richiedere, oltre al liquidato danno da inabilità temporanea ed al danno morale, il risarcimento anche dell’ulteriore danno consistito nel “peggioramento della qualità della vita” e nella “perdita di chances di sopravvivenza”, danno che è stato negato dal Giudice di merito per difetto del nesso causale, atteso che il ritardo nella scoperta e nella escissione del linfonodo inguinale non aveva inciso sul mancato anticipato inizio del trattamento terapeutico, atteso che, quando anche la diagnosi dei nevi fosse stata di melanoma primario e la indagine avesse rilevato il melanoma metastatico del linfonodo il paziente, oltre alla escissione del linfonodo, non avrebbe beneficiato di alcun ulteriore o diverso trattamento terapeutico anticipato volto a contrastare la patologia tumorale, non indicato dalla prassi medica in relazione al tipo di campione istologico prelevato, e neppure dalla natura del linfonodo che era rimasto un fenomeno del tutto isolato e scollegato, risolto con la escissione, non essendo state evidenziate in quella stessa zona anatomica altre metastasi.

Non vi può essere, pertanto, alcuna sovrapposizione tra i danni dei quali i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento e l’eventus damni, risarcito dalla Corte d’appello, conseguito alla tardiva scoperta del linfonodo inguinale e consistito nella necessità per il paziente di doversi sottoporre nuovamente ad un altro ricovero ed intervento chirurgico, evenienza che bene avrebbe potuto essere scongiurata se la diagnosi iniziale fosse stata corretta – evidenziando nei nevi un melanoma primario – inducendo in tal modo i sanitari ad estendere le indagini che avrebbero rilevato anche la esistenza del linfonodo inguinale: ed infatti, il riconoscimento del nesso eziologico tra la omessa diagnosi ed il danno risarcito (per inabilità temporanea ed ulteriori sofferenze), diversamente da quanto ipotizzato dai ricorrenti, non evidenzia alcuna contraddizione logica rispetto alla negazione della relazione eziologica tra quella medesima condotta omissiva ed il differente danno conseguito alla evoluzione della patologia tumorale, essendo stato escluso con accertamento controfattuale che la ipotetica corretta diagnosi non avrebbe comunque indotto i medici – date le caratteristiche dei tessuti biologici – ad anticipare alcuna terapia di contrasto.

Nella specie la Corte d’appello ha calcolato il periodo di “inabilità temporanea” in relazione alla durata del secondo ricovero ospedaliero ed al periodo degenza, procedendo alla liquidazione del danno biologico (Euro 100,00 “pro die”) e del danno morale interiore con criterio equitativo, e tale pronuncia, in quanto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte (cfr. Corte cass. 7513/2018; id. n. 2788/2019), va esente da censura.

Inammissibile è infine anche la censura prospettata in relazione alla violazione dell’art. 1223 c.c., per avere omesso il Giudice di appello di liquidare il “danno patrimoniale emergente” costituito dalle spese di viaggio e dalle spese per esami clinici e strumentali condotti presso l’Istituto Nazionale Tumori di Milano: i ricorrenti, infatti, neppure hanno allegato se e quando tali documenti (elencati a nota 8, pag. 36 del ricorso) siano stati ritualmente prodotti nei gradi di merito e dove sia possibile eventualmente rinvenirli negli atti processuali dei precedenti gradi di giudizio, non assolvendo la censura, pertanto, ai requisiti minimi di ammissibilità prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, essendo al riguardo appena il caso di ribadire, quanto al requisito di cui al n. 3) della norma processuale, che Giudice di legittimità, in relazione ai motivi proposti, deve essere posto in grado di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 11653 del 18/05/2006; id. Sez. 6 – 3, Sentenza n. 16103 del 02/08/2016); e quanto al requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, che la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito, integra adempimento indispensabile per consentire a questa Corte il riscontro documentale dell’errore denunciato (cfr. Corte cass. Sez. U, Ordinanza n. 7161 del 25/03/2010; id. Sez. U, Sentenza n. 22726 del 03/11/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 23575 del 18/11/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27475 del 20/11/2017; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 5478 del 07/03/2018).

Quinto motivo: violazione art. 1226 c.c. in ordine alla valutazione equitativa del danno; violazione dell’art. 118 disp. att. c.p.c. in ordine alla motivazione della sentenza; omessa motivazione in ordine alla quantificazione del danno.

Il motivo trova solo parziale accoglimento.

Assumono i ricorrenti che il Giudice di appello non avrebbe fornito le indicazioni necessarie a ricostruire le modalità attraverso le quali ha liquidato con criterio equitativo il danno.

La censura si limita, tuttavia, alla mera allegazione secondo cui la quantificazione del danno non patrimoniale sarebbe palesemente sproporzionata in difetto, ma i ricorrenti non indicano quale diverso criterio di liquidazione avrebbe dovuto o potuto essere applicato, limitandosi soltanto ad eccepire che la liquidazione sarebbe avvenuta senza “alcuna indicazione ulteriore relativa alla specificità del caso concreto”.

Come è noto, questa Corte, anche recentemente (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018), ha posto in rilievo il carattere unitario del danno non patrimoniale, quale categoria giuridica distinta da quella del danno patrimoniale, dovendosi a ricondurre ad essa tutte le diverse e molteplici “voci” di pregiudizio elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) che non richiedono uno specifico ed autonomo statuto risarcitorio (e cioè una differente metodologia dei criteri di liquidazione per equivalente), ma possono – se fondate su circostanze di fatto oggettivamente apprezzabili – venire in considerazione in sede di “adeguamento” del risarcimento al caso specifico, laddove il danneggiato abbia allegato e dimostrato aspetti peculiari della fattispecie che impongano, nella attività di “aestimatio”, di derogare alla applicazione dei criteri “standard” apprestati dalle Tabelle di liquidazione del danno biologico comunemente in uso presso gli Uffici giudiziari (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 24864 del 09/12/2010), in tal caso occorrendo procedere ad una “personalizzazione” del risarcimento del danno.

Orbene la censura in esame utilizza, impropriamente, il termine “personalizzazione” intendendolo riferire alla necessaria corrispondenza del risarcimento all’effettivo danno subito, affermazione quest’ultima di per sè certamente condivisibile in quanto coincidente con il principio generale applicabile in tema di risarcimento – secondo cui il danneggiato deve essere ristorato di tutte – e non oltre – le conseguenze pregiudizievoli effettivamente patite a causa della condotta violativa del diritto.

Diversa è invece la corretta nozione di “personalizzazione” del danno che esprime il concetto secondo cui in tema di danno alla salute, la quantificazione monetaria “standard”, convenzionalmente attribuita in relazione al grado della invalidità biologica, copre tutti i danni concernenti la “ordinaria” compromissione delle attività quotidiane normalmente esercitabili da una qualsiasi persona fisica dello stesso genere e della medesima età del danneggiato (persona media), e dunque deve intendersi interamente satisfattiva di tale tipo di danno, salvo che vengano allegate e provate dal danneggiato specifiche circostanze di fatto, del tutto peculiari rispetto all’agire comune, che valgano a superare le conseguenze “ordinarie” già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari (cfr. Corte cass. 23778/2014; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017), dovendo detta peculiarità corrispondere ad un connotato di “straordinarietà” che non è dato cioè riscontrare nella normalità dei casi.

Nella specie la critica formulata dai ricorrenti si esaurisce in una mera generica doglianza circa la sproporzione per difetto della quantificazione del danno, senza che venga addotto nel motivo di ricorso alcun elemento circostanziale specifico, connotato dal carattere di eccezionalità, per supportare la richiesta di un differente adeguamento del “quantum”.

La Corte territoriale, diversamente da quanto dedotto nel motivo, ha indicato, infatti, il valore monetario equivalente dell’impedimento temporaneo del soggetto al compimento degli atti quotidiani della vita, determinato in Euro 100,00 “pro die”, nonchè il periodo di tempo durante il quale tale impedimento è perdurato; ed ha inoltre commisurato il cd. “pretium doloris” in relazione a tale durata ed alla natura della causa generativa di tale inabilità (ricovero ospedaliero per intervento chirurgico di asportazione del linfonodo inguinale), liquidando il complessivo importo alla attualità, dunque includendo nell’importo finale così determinato anche il deprezzamento del valore monetario intercorso dalla data dell’evento dannoso a quella della “taxatio”; inoltre, dalla data di pubblicazione della sentenza fino al soddisfo, il Giudice di merito ha liquidato, sull’importo capitale attualizzato, gli interessi corrispettivi al tasso legale.

Infondata, dunque, l’allegazione che il Giudice di appello non avrebbe provveduto alla rivalutazione monetaria del credito di valore, e smentita, altresì, la allegazione che non siano stati indicati i criteri per pervenire alla comprensione del metodo di liquidazione adottato, rileva il Collegio che la critica – meramente anapodittica – secondo cui nella quantificazione del danno la Corte distrettuale non avrebbe considerato i criteri di adeguamento richiesti dalla “personalizzazione” del caso concreto, si palesa sfornita di supporto argomentativo, mentre deve ritenersi, invece, fondata la censura, mossa con il motivo in esame, limitatamente alla errata liquidazione dell’ulteriore danno compensativo per il ritardo nell’effettivo conseguimento della somma capitale spettante a titolo risarcitorio.

Come è noto, in tema di risarcimento del danno, le originarie incertezze sul cumulo tra rivalutazione monetaria del credito capitale e danno da ritardo liquidato nella forma degli interessi sul capitale, hanno trovato composizione nell’arresto della Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995 secondo cui:

in materia di obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, e se la liquidazione viene effettuata per equivalente, ossia con riferimento al valore del bene perduto o delle opere necessarie al suo ripristino all’epoca del fatto stesso, deve tenersi conto della svalutazione monetaria intervenuta sino alla decisione definitiva (danno emergente), non potendo la durata del processo riverberare a danno dell’attore vittorioso. Alla somma così determinata, deve aggiungersi il risarcimento del danno per la mancata disponibilità della somma “de qua” durante il tempo trascorso dall’evento lesivo e la liquidazione giudiziale, e la dimostrazione di tale danno (lucro cessante) può essere fornita con ogni mezzo, anche presuntivo ed alla liquidazione può procedersi mediante l’utilizzo di criteri equitativi: a tal fine il Giudice può ricorrere agli indici ISTAT ed al tasso legale o bancario degli interessi avuto riguardo in entrambi i casi alla data dell’evento dannoso (art. 1219 c.c., comma 2, n. 1) non è consentito, tuttavia, altrimenti determinandosi un’ingiustificata duplicazione di poste risarcitorie, utilizzare il metodo degli interessi per la liquidazione del danno da lucro cessante, applicando il tasso percentuale degli interessi sulla somma capitale rivalutata all’attualità, con decorrenza dalla data dell’illecito, dovendo invece il Giudice tener conto che gli interessi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale. Dunque nel caso in cui si ricorra a tale criterio equitativo, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio.

Tanto premesso la Corte d’appello non si è uniformata a tali principi, avendo sì correttamente liquidato alla attualità l’importo della somma capitale corrispondente al danno non patrimoniale, ma avendo provveduto, invece, erroneamente a liquidare i soli “interessi corrispettivi” applicati sull’importo complessivo – trasformato dopo la taxatio in debito di valuta – decorrenti dalla data di pubblicazione della sentenza al saldo, omettendo quindi di risarcire il danno da lucro cessante per la mancata tempestiva disponibilità della somma relativa all’importo capitale, non riducibile, nè assimilabile alla rivalutazione monetaria, trattandosi di riparare al danno causato dal ritardato pagamento dell’equivalente monetario attuale della somma dovuta all’epoca dell’evento lesivo, laddove sia stato allegato e provato, anche attraverso presunzioni semplici (quale, ad esempio, la redditività media del denaro nel periodo considerato, desunta dai tassi di interesse praticati per i depositi bancari e dal tasso percentuale di remuneratività dei titoli pubblici), che il tempestivo pagamento avrebbe consentito al danneggiato di conseguire utilità di natura patrimoniale mediante un tempestivo impiego della somma capitale – id est dell’equivalente monetario del valore del bene perduto – a lui spettante.

La sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua, senza che occorra rinviare la causa al Giudice di merito.

Non occorrendo, infatti, procedere ad ulteriori accertamenti in fatto questa Corte può procedere a decidere la causa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, disponendo la condanna della Azienda Ospedaliera “(OMISSIS)” di (OMISSIS) al pagamento sull’importo capitale di Euro 10.000,00 rivalutato alla attualità, del danno da lucro cessante, fino alla presente decisione, calcolato:

a) previa devalutazione del predetto importo alla data dell’illecito (10.9.1998: data del secondo ricovero ospedaliero), in base agli indici Istat FOI;

b) liquidando sull’importo così determinato, e quindi rivalutato anno per anno in base ai predetti indici Istat FOI, gli interessi al tasso legale tempo per tempo vigenti, fino alla data della presente decisione.

Sull’intero importo risarcitorio liquidato per sorte capitale e lucro cessante, decorrono interessi corrispettivi, al tasso legale, dalla data della presente decisione al saldo.

Sesto motivo: vizio di omessa esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; vizio di omessa corrispondenza tra chiesto e pronunciato in violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione dell’art. 1218 c.c. responsabilità del debitore.

Assumono i ricorrenti che la Corte d’appello non avrebbe dovuto dichiarare assorbita la censura concernente la contestazione del mancato assolvimento dell’onere della prova, dedotta con l’unico motivo di gravame, ma avrebbe dovuto piuttosto ravvisare la prova del danno determinato dall’inadempimento della prestazione professionale dei sanitari dell’Azienda ospedaliera (OMISSIS), in quanto, una volta accertata la erroneità della diagnosi, era onere dell’Azienda sanitaria debitrice fornire la prova liberatoria ex art. 1218 c.c. di avere rispettato le “leges artis” ovvero che la impossibilità di una corretta diagnosi era imputabile ad un fatto imprevedibile ed inevitabile.

Il motivo è infondato.

Premesso che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità “materiale” tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura sanitaria dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017), osserva il Collegio che, nella specie, accertata la imperita prestazione professionale, la Corte d’appello ha rilevato, sulla scorta della verifica delle risultanze istruttorie, che tale condotta di inadempimento non aveva, tuttavia, interferito nella serie eziologica esitata nella ritardata esecuzione di interventi terapeutici ai quali secondo la statistica sanitaria – veniva riconosciuta la possibilità – espressa in misura percentuale – di prolungamento della sopravvivenza del paziente, sicchè è stata negata “in concreto” la esistenza del nesso di causalità materiale tra l’errore e l’evento lesivo della salute, sulla scorta del giudizio controfattuale, condotto con prognosi postuma, per cui alla corretta diagnosi non sarebbe, comunque, seguita alcuna prescrizione di intervento terapeutico, ed il paziente non avrebbe potuto – in ogni caso – beneficiare degli effetti (possibilità di sopravvivenza) di un anticipato trattamento, risultando, dunque, indimostrato il collegamento tra inadempimento professionale e perdita dei vantaggi conseguibili dal soggetto, con conseguente esonero da responsabilità dell’Azienda ospedaliera per il fatto commesso dai propri dipendenti.

Settimo motivo: vizio di omessa pronuncia circa un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c. omessa pronuncia sulla “perdita di chance di una migliore qualità di vita”.

I ricorrenti intendono censurare la sentenza di appello – almeno così è dato comprendere dalla non perspicua esposizione degli argomenti a sostegno del motivo – nella parte in cui non avrebbe pronunciato sulla pretesa concernente il risarcimento del danno consistito – non nella perdita di chances relative alla possibilità di sopravvivenza rispetto al decorso ordinario della patologia tumorale, ma – nel “peggioramento della qualità della residua vita”.

La proposizione cumulativa, con il medesimo motivo di ricorso, di una pluralità di vizi di legittimità, non chiaramente individuati in relazione allo svolgimento argomentativo, comporta la inammissibilità della censura. Il motivo “formalmente unico” ma articolato in plurime censure di legittimità si palesa, infatti, inammissibile tutte le volte in cui l’esposizione contestuale degli argomenti a sostegno delle diverse censure non consenta di discernere le ragioni poste a fondamento, rispettivamente, di ciascuna di esse: le questioni formulate indistintamente nella esposizione del motivo e concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo ed in genere il merito della causa, costringerebbero altrimenti il Giudice di legittimità ad operare una indebita scelta tra le singole censure teoricamente proponibili e riconducibili ai diversi mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., non potendo evidentemente sostituirsi la Corte al difensore per dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013), trattandosi di compito riservato in via esclusiva alla parte interessata, come emerge dal combinato disposto dell’art. 360 c.p.c. e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18242 del 28/11/2003id. Sez. 1, Sentenza n. 22499 del 19/10/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18421 del 19/08/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7009 del 17/03/2017).

Il motivo, in ogni caso, non è fondato su “fatti storici decisivi”, non rilevati o non valutati dal Giudice di merito, idonei a dimostrare la sequenza eziologica tra condotta professionale (incompleta diagnosi) ed il danno lamentato.

Quest’ultimo, poi, indicato con la sintesi verbale “perdita di chance di una migliore qualità di vita” non è dato comprende se venga ad essere individuato dai ricorrenti nel “peggioramento della qualità della vita” del paziente (ma se tale diminuita qualità viene a tradursi in una riduzione della capacità relazionali del soggetto, determinate dall’aggravamento della malattia e da una condizione di intenso dolore fisico, allora si è in presenza di un “danno biologico” in senso stretto, constatabile mediante accertamento medico-legale; se con tale espressione si vuole, invece, allegare uno stato di sofferenza interiore morale, anche in questo caso siamo in presenza di un danno non patrimoniale, da accertare secondo i normali mezzi di prova) o se, invece, debba individuarsi nel danno “per violazione del diritto alla cura”, da ritenere “in re ipsa” nello stesso fatto-inadempimento, in quanto la inesatta diagnosi avrebbe impedito al paziente di avvalersi di cure, anche solo palliative, che avrebbero migliorato il vissuto della malattia.

In ogni caso non vi è spazio per la allegazione del danno da perdita di “chances”.

Se il paziente, infatti, ha dovuto sopportare, a causa dell’inadempimento della prestazione professionale, una situazione di maggiore sofferenza fisica o morale, si ricade nel “danno biologico” e nel danno non patrimoniale (cd. danno morale), da accertare secondo l’effettiva condizione psicofisica quale danno-conseguenza dell’inadempimento, non venendo, pertanto, in questione una mera “possibilità di facere” perduta (come può essere la perdita di un vantaggio incerto nell'”an” come la “ipotetica astratta possibilità” di conseguire un risultato utile o più favorevole), quanto piuttosto la ridotta capacità relazionale del soggetto che vien a coincidere con il “danno biologico” e dunque con una perdita “effettiva”.

La “perdita di chances” non corrisponde, infatti, ad un “bonus” (diritto, interesse, situazione di aspettativa legittima) inteso come entità ontologicamente preesistente al “danno-conseguenza”, risarcibile by-passando la prova della relazione eziologica che deve sussistere – sempre – tra condotta lesiva ed evento di danno (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 5641 del 09/03/2018): se così fosse, se cioè alla condotta colposa del debitore corrispondesse “automaticamente” un danno-conseguenza parametrato alla perdita potenziale di guarigione o di miglioramento della status di salute, la obbligazione del contratto d’opera professionale si trasformerebbe in una obbligazione di risultato, e la statistica percentuale delle possibilità di sopravvivenza (o di ritardare la evoluzione della malattia) o delle possibilità di guarigione rileverebbe esclusivamente sul piano della esatta quantificazione del danno. In tal caso il semplice accertamento della negligenza, imprudenza od imperizia o della inosservanza delle “leges artis” consentirebbe di liquidare – in ogni caso – un danno prodottosi per la “mancata possibilità” di ottenere un risultato positivo che, in concreto, finanche una esatta esecuzione della prestazione non avrebbe potuto garantire con certezza.

Ma indipendentemente dalla questione se la nozione di “loss of chances”, possa o meno svolgere alla stessa funzione, cui attende negli ordinamenti di “common law”, volta a ridurre, nell’ambito della disciplina dell’illecito civile (“tort law”) e specificamente della responsabilità sanitaria, la drastiche conseguenze del principio “all or nothing” (consentendo all’attore di sottrarsi all’obbligo puntuale di dover fornire la prova certa della esclusiva imputabilità alla condotta medica del danno alla salute, anticipando appunto la prova alla mera possibilità statistica, in relazione ad un determinato trattamento terapeutico, di conseguire un risultato migliorativo del proprio stato di salute, opportunità che rimane “ex ante” preclusa in presenza di una prestazione difettosa o resa non in conformità alle regole dell’arte medica), deve qui soltanto essere rilevato che, anche tale astratta possibilità statistica, è stata negata con accertamento controfattuale dal Giudice di merito: ed infatti, alla corretta diagnosi non sarebbe “in ogni caso” seguita alcuna prescrizione volta ad anticipare il trattamento terapeutico, sicchè all’errore diagnostico non è ascrivibile alcuna efficienza causale in ordine al ritardo nella somministrazione di interventi di contrasto alla evoluzione della malattia tumorale. Nè viene fornita dai ricorrenti alcuna indicazione di terapie alternative, individuate nel corso della istruttoria svolta nei gradi di merito, che avrebbero potuto essere praticate nell’intertempo trascorso dalla iniziale diagnosi incompleta e l’esame istologico eseguito presso l’Istituto di ricerca milanese. Pertanto, se il peggioramento delle condizioni di salute del paziente, quale danno-conseguenza, non può essere eziologicamente imputato, alla errata interpretazione diagnostica dell’esame istologico iniziale, non è dato comprendere come, poi, al medesimo inesatto adempimento, possa, invece, attribuirsi efficienza causale in ordine alla “perdita di chances” di sopravvivenza o di miglioramento della qualità della vita del paziente: esclusa infatti l’anticipazione della tutela risarcitoria al momento della sola violazione della situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, il semplice modo di atteggiarsi del pregiudizio-conseguenza, secondo che venga in questione la perdita effettiva di un bene – già presente con certezza nel patrimonio giuridico del soggetto leso – o, invece, la perdita di un bene soltanto ipotizzabile – recte di una utilità sperata, ma incerta nell'”an”, ossia non rinvenibile con certezza nel patrimonio del soggetto -, non è idoneo, infatti, a trasformare per ciò stesso, da irrilevante a causalmente incidente, il giudizio espresso sulla inefficienza eziologica della condotta professionale, che non può che essere identico in relazione a qualsiasi tipo di conseguenza pregiudizievole, effettiva od oggettivamente incerta, lamentata dal danneggiato.

In conclusione il ricorso deve essere parzialmente accolto, in relazione al solo quinto motivo, infondati od inammissibili gli altri motivi di ricorso: la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, senza rinvio, potendo la Corte decidere ex art. 384 c.p.c., comma 2 nel merito, con la pronuncia di condanna dell’Azienda sanitaria a corrispondere ai danneggiati anche il risarcimento del danno da ritardo, liquidato secondo i criteri specificati in motivazione.

La rilevante soccombenza delle parti ricorrenti su tutti gli altri motivi di ricorso, induce a liquidare in dispositivo le spese del giudizio di legittimità, che devono essere dichiarate compensate per i 2/3.

P.Q.M.

Accoglie parzialmente il quinto motivo di ricorso; rigetta o dichiara inammissibili gli altri motivi di ricorso, come indicato in motivazione; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto, e, ferme le altre statuizioni di condanna della sentenza impugnata, decidendo nel merito, condanna l’Azienda Ospedaliera “(OMISSIS)” di Caltagirone al risarcimento dell’ulteriore danno da lucro cessante per ritardata corresponsione dell’importo capitale di Euro 10.000,00 rivalutato alla attualità, da liquidarsi, previa devalutazione del predetto importo alla data dell’illecito (OMISSIS), in base agli indici Istat FOI, calcolando sull’importo così determinato e quindi rivalutato anno per anno in base ai predetti indici Istat FOI, gli interessi al tasso legale, tempo per tempo vigenti, fino alla data della presente decisione. Sull’intero importo risarcitorio liquidato per sorte capitale e lucro cessante, decorrono interessi corrispettivi, al tasso legale, dalla data della presente decisione al saldo.

Condanna la parte intimata al pagamento in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che – dichiarate interamente compensate per 2/3 – liquida in Euro 1.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di M.F.B. riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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