Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2630 del 05/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 2630 Anno 2014
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso 18891-2011 proposto da:
RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A. 06382641006, in

k.cmAljetettdtx.
L-e, 4
persona del
Aw,f,:gvt4ì. Lm
T Urgrtivam nte domiciliata in ROMA, VIA BOEZIO 14,
presso

lo

studio

dell’avvocato

D’ANGELANTONIO

CLAUDIO, che la rappresenta e difende unitamente
ì 2013

all’avvocato LAX PIERLUIGI, giusta delega in atti;
– ricorrenti –

3300

contro

GALLO FRANCESCO GLLFNC51R26H501M;
– intimato –

Data pubblicazione: 05/02/2014

Nonché da:
GALLO

FRANCESCO

GLLFNC51R26H501M,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 35, presso lo
studio dell’avvocato

D’AMATI

DOMENICO,

che

lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati

delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale contro

RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A. 06382641006, in
L
*L41494ne,Vjutlui Adeg,
persona del
e a e rappresentan e pro
tempore,
abc, ft’olAtt-a.x
r\FTéttivam nte domiciliata in ROMA, VIA BOEZIO 14,
presso lo studio dell’avvocato D’ANGELANTONIO
CLAUDIO, che la rappresenta e difende unitamente
Ackeet. 0.e/te.0
all’avvocato LAX PIERLUIGI, giusta delega ttn—a-fril
– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 5002/2010 della CORTE
D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/07/2010 R.G.N.
581/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/11/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA
TRIA;
udito l’Avvocato D’ANGELANTONIO CLAUDIO;
udito l’Avvocato D’AMATI GIOVANNI NICOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il

D’AMATI NICOLETTA, D’AMATI GIOVANNI NICOLA, giusta

rigetto del ricorso principale, accoglimento del

ricorso incidentale.

Udienza del 19 novembre 2013 — Aula B
n. 17 del ruolo — RG n.18891/11
Presidente: Stile – Relatore: Tria

1.— La sentenza attualmente impugnata — decidendo in sede di rinvio da Cass. 21 febbraio
2006, n. 3720 — in parziale accoglimento dell’appello di Francesco Gallo avverso la sentenza del
Pretore di Roma del 15 novembre 1995 e in parziale riforma di tale ultima sentenza: 1) dichiara la
sussistenza tra il Gallo e la RAI-Radio televisione Italiana s.p.a. (d’ora in poi: RAI) di un rapporto
di lavoro subordinato, con decorrenza dal 5 ottobre 1988 e in atto al momento dell’emanazione
della sentenza di appello in sede rescissoria; 2) condanna la RAI al pagamento in favore del Gallo, a
titolo risarcitorio, delle retribuzioni che sarebbero maturate dal 24 ottobre 1994 al 31 dicembre
1996, nella misura mensile di euro 1549,37, oltre accessori di legge.
La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a) dal chiaro contenuto della sentenza di rinvio emerge che la questione che si deve risolvere,
in questa sede, è limitata all’accertamento della natura — subordinata o autonoma — del rapporto
intercorso tra le parti in base alle lettere-contratto stipulate nell’arco di tempo dal 6 ottobre 1989 al
3licembre 1993, come indicato in ricorso;
b) quanto all’orario di lavoro, l’istruttoria svolta ha consentito di accertare che l’impegno del
Gallo era giornaliero e che — come osservato dalla Corte di cassazione in sede di rinvio — il
lavoratore non era libero di scegliere le ore della sua giornata da utilizzare per la preparazione della
rassegna stampa cui era addetto, perché la rassegna doveva essere “pronta per le otto di mattina e
poi per le dieci, per il secondo lancio”;
c) per quel che riguarda l’assoggettamento a vincolo gerarchico è emerso che la rassegna
stampa doveva uniformarsi a “linee di massima sui contenuti e le modalità di impaginazione” che
venivano date dal Capo Ufficio Stampa e che si traducevano in vere e proprie direttive su forme e
contenuti della rassegna;
d) conseguentemente, il Gallo, pur non provvedendo al ritaglio ed incollatura di pezzi
selezionati (operazioni che venivano effettuate da due impiegati), comunque nella scelta degli
articoli da inserire nella rassegna i aveva una discrezionalità limitata non solo dai criteri generali
fissati dalla RAI, ma anche dalle suddette quotidiane direttive del Capo Ufficio Stampa;
e) tutti i suindicati elementi — insieme con la stretta collaborazione con gli impiegati addetti al
taglio e all’incollatura dei pezzi, la utilizzazione degli strumenti e materiali della società, lo
svolgimento dell’attività lavorativa negli uffici aziendali, la corresponsione di una retribuzione
predeterminata — inducono a ravvisare l’inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale e
gerarchica della RAI;
1

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

f) ne consegue che deve affermarsi la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso fra
le parti, al di là della qualificazione giuridica ad esso data, di volta in volta, nelle diverse lettere di
incarico sottoscritte nel tempo, nelle quali spesso si fa riferimento ad attività in parte diverse da
quelle realmente svolte;

h) tale risarcimento può essere commisurato alle retribuzioni perdute, con decorrenza dal
momento in cui l’interessato, offrendo le proprie prestazioni lavorative, ha determinato una
situazione di mora credendi, cosa nella specie si è verificata con la proposizione del ricorso
introduttivo del presente giudizio;
i) per quel che riguarda la relativa quantificazione — considerato che l’obbligo del lavoratore
di collocare le proprie energie sul mercato del lavoro in modo da limitare le conseguenze
pregiudizievoli dell’inadempimento datoriale rileva sia ai fini dell’art. 1227 cod. civ. sia ai fini del
giudizio di prevedibilità del danno risarcibile ex art. 1225 cod. civ. — si può ritenere congruo
limitare il danno risarcibile ad un periodo di un triennio quale lasso di tempo sufficiente per reperire
una nuova occupazione, analoga a quella di cui si discute;
1) pertanto, essendo il rapporto in oggetto cessato definitivamente il 31 dicembre 1993, al
Gallo vanno riconosciute a titolo di risarcimento del danno le retribuzioni che sarebbero maturate
dalla data di notifica del ricorso di primo grado fino allo scadere del triennio, nei termini dianzi
indicati;
m) deve essere, infine, respinta la domanda di risarcimento dei danni per omesso versamento
dei contributi previdenziali perché l’interessato non ha “formulato in proposito specifiche
allegazioni, al di là della mera pacifica omissione contributiva, dalle quali poter desumere, se
provata, la ricorrenza in concreto di un danno pensionistico”.
2.— Il ricorso della RAI s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste,
con controricorso, Francesco Gallo, che propone, a sua volta, ricorso incidentale per due motivi, cui
replica la RAI, con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi perché proposti avverso la medesima
sentenza.

I

Sintesi dei motivi di ricorso principale

1.— Il ricorso principale è articolato in cinque motivi, di cui il primo proposto in via principale
e gli altri in via subordinata.
2

g) le conseguenze dell’accertamento della scadenza del termine nullo dell’ultimo dei contratti
non possono essere determinate ai sensi dell’art. 18 St. lav., in quanto, in base alla giurisprudenza di
legittimità, la cessazione del rapporto per scadenza del termine nullo non si configura come
licenziamento, ma come inadempimento contrattuale, che comporta il diritto al risarcimento del
danno del dipendente che cessi l’esecuzione delle prestazioni alla suddetta scadenza;

Si contesta la qualificazione “dei rapporti intercosi fra le parti” come rapporti di lavoro
subordinato e si sottolinea che il Gallo: 1) non doveva osservare un orario di lavoro preciso, salvo
quello della pubblicazione della rassegna stampa (che preparava insieme con altri) che doveva
essere pronta per le ore 8 del mattino; 2) riceveva dal Capo Ufficio Stampa solo indicazioni di
massima, sull’ordine di inserimento degli argomenti e degli articoli riportati nella rassegna (che
erano tutti quelli riguardanti la RAI e l’informazione).
In questa situazione, si sostiene che ai rapporti di lavoro intercorsi fra le parti avrebbe dovuto
essere riconosciuta natura autonoma, sulla base dei seguenti elementi:
a) la volontà espressa dalle stesse parti in merito alla qualificazione del lavoro svolto, al
corrispettivo pattuito, alla forma di pagamento concordata e praticata (fatture soggette a IVA e
ritenuta d’acconto);
b) il tipo di prestazione dovuta che era costituito dal preciso risultato dell’approntamento della
rassegna stampa per l’ora stabilita e non da una generica messa a disposizione delle energie
lavorative del Gallo;
c) l’assenza della subordinazione, intesa come soggezione del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che deve estrinsecarsi in ordini specifici sulla
modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non soltanto sul loro risultato.
Sui primi due punti la Corte romana ha omesso di motivare, mentre sul terzo ha ritenuto che
le direttive del Capo Ufficio Stampa fossero da qualificare come caratteristiche della
subordinazione, mentre si trattava di mere indicazioni di massima.
A ciò si aggiunge che avrebbe dovuto essere il Gallo a dimostrare la natura subordinata del
rapporto e anche su questa questione la Corte d’appello ha omesso di motivare.
1.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.
Si sostiene che la Corte territoriale abbia pronunciato ultra petita laddove, motu proprio, ha
affermato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato “con decorrenza dal 5
ottobre 1988 tuttora in atto” e ove ha condannato la RAI al pagamento a titolo risarcitorio delle
retribuzioni che sarebbero maturate dal 24 ottobre 1994 al 31 dicembre 1996.
Infatti, il Gallo — sia nel ricorso introduttivo sia in sede di rinvio — si sarebbe limitato a
chiedere la dichiarazione di inesistenza, inefficacia e illegittimità del licenziamento intimatogli il 31
dicembre 1993, con le consequenziali pronunce ed è noto che l’impugnazione del licenziamento e

3

1.1.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2094, 2222 e 2697 cod. civ. b) in relazione all’art. 360,
n. 5, cod. proc. civ., omessa o, quanto meno, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti
controversi e decisivi per il giudizio.

l’azione di nullità del termine apposto al contratto sono azioni totalmente diverse per petitum, causa
petendi e disciplina.

La ricorrente ribadisce, da altro punto di vista (omessa o viziata motivazione), la propria
critica alla affermazione — della Corte d’appello — della sussistenza tra le parti di un rapporto di
lavoro subordinato “con decorrenza dal 5 ottobre 1988 tuttora in atto”, sostenendo che il
comportamento delle parti tradottosi nella totale mancanza di operatività del rapporto di lavoro per
un tempo apprezzabile “deve essere valutato in modo socialmente tipico come dichiarazione
risolutoria”.
1.4.- Con il quarto motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e/o falsa applicazione degli arti. 1217 e ss., 2697 e 2729 cod. civ. c) in relazione all’art. 360, n. 5,
cod. proc. civ., omessa o, quanto meno, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti
controversi e decisivi per il giudizio.
Con riguardo alla disposta condanna della RAI, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni che
sarebbero maturate dal 24 ottobre 1994 al 31 dicembre 1996 la sentenza impugnata sarebbe affetta
anche dal vizio di ultrapetizione o di erronea, omessa o insufficiente motivazione.
Infatti, come già detto, il Gallo — sia nel ricorso introduttivo, sia in sede di rinvio — avrebbe
sempre chiesto l’applicazione dell’art. 18 St. lav. e, quindi, il pagamento delle retribuzioni maturate
e maturande dalla data del licenziamento a quella della reintegra, invece la Corte d’appello ha
riconosciuto il credito del Gallo “con una diversa decorrenza (24 ottobre 1994 anziché 31 dicembre
1993) e a un diverso titolo (risarcimento anziché retribuzione)”.
Il tutto violando le su richiamate norme del codice civile dalle quali si desume che, in caso di
scadenza di un contratto a termine illegittimo, è il lavoratore che deve provare gli eventuali danni
subiti a causa della mancata esecuzione del contratto.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 1225 cod. civ., il risarcimento andava limitato al danno
prevedibile in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto e comunque, in base agli artt. 1227,
secondo comma, e 2729 cod. civ., andava detratto l’aliunde perceptum o percepibile secondo
l’ordinaria diligenza.
1.5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 32, comma 5,
della legge n. 183 del 2010, dedotto come jus superveniens.

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1.3.- Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ. c) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. omessa
o, quanto meno, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il
giudizio.

Si sostiene che l’art. 32, commi da 5 a 7, della legge n. 183 del 2010, entrati in vigore il 24
novembre 2010, quindi dopo il deposito della sentenza impugnata, si applicano ugualmente al
presente giudizio che era pendente alla data suddetta.
Conseguentemente, la RAI può essere condannata, al massimo, al pagamento di una indennità
onnicomprensiva non superiore a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto corrisposta
al Gallo.

II — Sintesi dei motivi di ricorso incidentale
2.- Il ricorso incidentale è articolato i due motivi.
2.1.- Con il primo motivo si denunciano, in relazione all’art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc.
civ.: a) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1219, 1223, 2697, 2729 cod. civ. nonché degli
artt. 112, 421 e 432 cod. proc. civ.; b) omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa
fatti decisivi per il giudizio.
Si contesta la statuizione della Corte territoriale relativa alla limitazione del risarcimento del
danno derivante dalla cessazione del rapporto all’importo della retribuzione globale di fatto del
triennio successivo alla intimazione della cessazione stessa.
Si precisa che in sede di rinvio, come nei precedenti gradi del giudizio, il Gallo ha chiesto, fra
l’altro, la condanna della RAI al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate
medio tempore e la azienda non ha dedotto nulla a proposito dell’entità del risarcimento richiesto,
né ha eccepito l’aliunde perceptum o fatto carico al lavoratore di negligenza per il mancato
reperimento di altra occupazione.
La Corte romana ha — con violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. — limitato d’ufficio la
condanna al suddetto triennio, in assenza di contestazioni della RAI rispetto alla richiesta del
lavoratore e in assenza di prove sulla negligenza del Gallo, finendo così per porre
inammissibilmente a carico del lavoratore l’onere della prova positiva della continuativa
permanenza del proprio stato di disoccupazione e giustificando con una motivazione palesemente
inadeguata e affetta da errori logico-giuridici la propria scelta di ridurre, nella suddetta misura, il
risarcimento dovuto.
Viceversa la Corte romana, piuttosto che fare ricorso alla prova presuntiva — senza, peraltro,
indicarne gli elementi di giudizio gravi, precisi e concordanti, di base — avrebbe semplicemente
dovuto determinare l’importo del risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione relativa al
periodo intercorso tra la formale messa in mora della RAI e la riammissione in servizio del Gallo.
2.2.- Con il secondo motivo si denunciano, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.:
a) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2116 cod. civ.; b) omessa e/o insufficiente e/o
contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio.

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Si rileva che — sia del ricorso introduttivo, sia in sede di rinvio — il Gallo aveva, fra l’altro,
chiesto la condanna generica della RAI al risarcimento del danno per l’omesso versamento dei
contributi previdenziali, in misura da determinare in separato giudizio.

Si sostiene che la suddetta statuizione sia frutto di un omesso esame della domanda del Gallo
— diretta non ad ottenere la liquidazione del danno ma una pronuncia di condanna generica al
riguardo — e sia anche viziata da disapplicazione dell’art. 2116 cod. civ.

III — Esame delle censure — Premessa
3.- Prima di passare all’esame delle censure, si ritiene opportuno, per chiarezza espositiva,
ricordare che, per “diritto vivente”:
a) il giudizio di rinvio, come regolato dal codice di procedura civile, non costituisce la
rinnovazione o la prosecuzione del giudizio di merito, ma costituisce la fase rescissoria rispetto a
quella rescindente del giudizio di cassazione, sicché in quella fase non possono formare oggetto di
discussione tutte le questioni che costituiscono presupposti, esplicitamente o implicitamente, decisi
nella pronuncia della Corte di cassazione (vedi, per tutte: Cass. SU 2 dicembre 2008, n. 28544);
b) in ragione della struttura “chiusa” propria del giudizio di rinvio, cioè della cristallizzazione
della posizione delle parti nei termini in cui era rimasta definita nelle precedenti fasi processuali
fino al giudizio di cassazione e più precisamente fino all’ultimo momento utile nel quale detta
posizione poteva subire eventuali specificazioni (nei limiti e nelle forme previste per il giudizio di
legittimità, in particolare quelle dell’art. 372 cod. proc. civ.), il giudice di rinvio, al fine di
procedere al giudizio nei termini rimessigli dalla cassazione con rinvio, può prendere in
considerazione fatti nuovi incidenti sulla posizione delle parti — senza violare il divieto di esame di
punti non prospettati o prospettabili dalle parti fino a quel momento — soltanto a condizione che si
tratti di fatti dei quali, per essere avvenuta la loro verificazione dopo quel momento, non era stata
possibile l’allegazione, con l’eccezione che la nuova attività assertiva ed istruttoria non sia
giustificata proprio dalle statuizioni della Corte di cassazione in sede di rinvio (Cass. 30 marzo
2011, n. 7281; Cass. 8 giugno 2005, n. 11962; Cass. 30 ottobre 2003, n. 16294; Cass. 28 ottobre
2005, n. 21006; Cass. 10 febbraio 2001, n. 1917);
c) in particolare, nel giudizio di rinvio, i limiti dei poteri attribuiti al giudice sono diversi a
seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione
di norme di diritto ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia,
ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, infatti, il giudice di rinvio è tenuto
soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto
enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la
valutazione dei fatti acquisiti al processo, trattandosi di preclusione processuale che opera su tutte le

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La Corte romana ha respinto tale domanda affermando che l’interessato non aveva “formulato
in proposito specifiche allegazioni, al di là della mera pacifica omissione contributiva, dalle quali
poter desumere, se provata, la ricorrenza in concreto di un danno pensionistico”.

d) conseguentemente, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza del giudice di
rinvio fondato sulla deduzione della infedele esecuzione dei compiti affidatigli con la precedente
pronuncia di annullamento, il sindacato della Corte di cassazione si risolve nel controllo dei poteri
propri del suddetto giudice di rinvio, per effetto di tale affidamento e dell’osservanza dei relativi
limiti, la cui estensione varia a seconda che l’annullamento stesso sia avvenuto per violazione di
norme di diritto ovvero per vizi della motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in
quanto, nella prima ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato
nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei
fatti, già acquisiti al processo, mentre, nel secondo caso, la sentenza rescindente — indicando i punti
specifici di carenza o di contraddittorietà della motivazione — non limita il potere del giudice di
rinvio all’esame dei soli punti indicati, da considerare come isolati dal restante materiale probatorio,
ma conserva al giudice stesso tutte le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di
merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo
della sentenza di annullamento. In quest’ultima ipotesi, poi, il giudice di rinvio, nel rinnovare il
giudizio, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente od
implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza del
discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento
annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e
sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (vedi, per tutte: Cass. 14 giugno 2006, n. 13719; Cass.
3 febbraio 2009, n. 2606).
Nella specie, dalla sentenza rescindente (Cass. 21 febbraio 2006, n. 3720) si desume che
l’annullamento è stato disposto per vizi di motivazione, riscontrati nella sentenza di appello del
Tribunale di Roma, in ordine a punti decisivi della controversia riguardanti la determinazione della
natura del rapporto del Gallo (se subordinata o autonoma) e la relativa giustificazione.
Come ha preliminarmente sottolineato anche la Corte romana nella sentenza attualmente
impugnata, questa era la questione da risolvere in sede rescissoria, sicché questo è il perimetro entro
il quale vanno inseriti i presenti ricorsi ed entro il quale le relative censure possono essere
considerate ammissibili.

IV

Esame dei motivi del ricorso principale

4.- Il ricorso principale non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
4.1.- Il primo motivo è inammissibile, in quanto, nonostante il formale richiamo alla
violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione del motivo, in realtà tutte le censure si
risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del
materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e, in particolare, dell’affermazione
della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, con conseguente inserimento
del lavoratore nella organizzazione aziendale e gerarchica della RAI.
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questioni costituenti il presupposto logico ed inderogabile della pronuncia di cassazione, prospettate
dalle parti o rilevate d’ufficio (vedi, per tutte: Cass. 5 aprile 2013, n. 8381);

Le suddette valutazioni del Giudice d’appello, effettuate sulla base delle risultanze probatorie,
sono altresì congruamente motivate e l’iter logico—argomentativo che sorregge la decisione sul
punto è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile
contraddizione.
Nella descritta situazione, tutte le doglianze formulate con il primo motivo non risultano
attenere all’iter logico—argomentativo che sorregge la decisione — che, peraltro, risulta congruo e
corretto — ma si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle
stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice del merito in senso contrario
alle aspettative della società ricorrente e quindi si traducono nella richiesta di una nuova valutazione
del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità (vedi, tra le tante: Cass. 18
ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3
gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16
febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
4.2.- Con il secondo, il terzo e il quarto motivo, da esaminare insieme data la loro intima
connessione, la ricorrente sostiene che sentenza impugnata sarebbe affetta anche dal vizio di
ultrapetizione o dal vizio di erronea, omessa o insufficiente motivazione, laddove la Corte
territoriale: a) ha affermato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato “con
decorrenza dal 5 ottobre 1988 tuttora in atto”; b) ha condannato la RAI al pagamento a titolo
risarcitorio delle retribuzioni che sarebbero maturate dal 24 ottobre 1994 al 31 dicembre 1996.
Infatti, ad avviso della ricorrente, il Gallo — sia nel ricorso introduttivo sia in sede di rinvio —
si sarebbe limitato a chiedere la dichiarazione di inesistenza, inefficacia e illegittimità del
licenziamento intimatogli il 31 dicembre 1993, con le consequenziali pronunce.
Pertanto, la Corte romana non avrebbe tenuto conto dei seguenti elementi: 1) l’impugnazione
del licenziamento e l’azione di nullità del termine apposto al contratto sono azioni totalmente
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Al riguardo va osservato che alla suddetta conclusione la Corte d’appello è pervenuta
uniformandosi ai consolidati indirizzi di questa Corte in materia (vedi, da ultimo: Cass. 26 agosto
2013, n. 19568) e, in particolare, ponendo l’accento sui seguenti elementi: 1) l’impegno giornaliero
del lavoratore, che — come sottolineato osservato dalla sentenza rescindente — comportava che egli
non libero di scegliere le ore della sua giornata da utilizzare per la preparazione della rassegna
stampa cui era addetto, visto che la rassegna doveva essere “pronta per le otto di mattina e poi per le
dieci, per il secondo lancio”; 2) la sussistenza dell’assoggettamento a vincolo gerarchico,
desumibile dalla necessità che la rassegna stampa si uniformasse non solo ai criteri generali fissati
dalla RAI ma anche a “linee di massima sui contenuti e le modalità di impaginazione” che venivano
date quotidianamente dal Capo Ufficio Stampa e che si traducevano in vere e proprie direttive su
forme e contenuti della rassegna stessa; 3) la stretta collaborazione con gli impiegati addetti al
taglio e all’incollatura dei pezzi da inserire nella rassegna; 4) la utilizzazione degli strumenti e
materiali della società; 5) lo svolgimento dell’attività lavorativa negli uffici aziendali; 6) la
corresponsione di una retribuzione predeterminata; 7) ininfluenza della qualificazione giuridica
data, di volta in volta, al rapporto nelle diverse lettere di incarico sottoscritte nel tempo (su tale
ultima statuizione: vedi, per tutte: Cass. 27 luglio 2009, n. 17455).

4.2.1.- In primo luogo, va precisato che quando col ricorso per cassazione venga denunciato
un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza (e, quindi, anche in caso di
ultrapetizione), la relativa censura deve essere proposta dal ricorrente in conformità alle regole
fissate al riguardo dal codice di rito, e oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni
dettate dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. (vedi, per
tutte: Cass. SU 22 maggio 2012, n. 8077).
Quanto ai limiti in cui si può prospettare il vizio di ultrapetizione con riferimento alla
sentenza emessa in sede di giudizio di rinvio, va ricordato che, in base a consolidati e condivisi
indirizzi di questa Corte:
a) nel giudizio di rinvio il vizio di ultrapetizione è configurabile nel senso che così come è
inibito alle parti prendere conclusioni diverse dalle precedenti o che non siano conseguenti alla
cassazione allo stesso modo non sono modificabili i termini oggettivi della controversia espressi o
impliciti nella sentenza di annullamento e tale preclusione investe tutte le questioni (espressamente
dedotte o che avrebbero potuto essere dedotte dalle parti o anche rilevabili d’ufficio), ove esse
tendano a porre nel nulla od a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione e
l’operatività del principio di diritto, che in essa viene enunciato non in via astratta, ma agli effetti
della decisione finale della causa (vedi, per tutte: Cass. 12 gennaio 2010, n. 327);
b) pertanto, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. può riscontrarsi in tale sede solo quando
il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della causa petendi, ponga a
fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo che sia fuori dai termini oggettivi della
controversia espressi o impliciti nella sentenza di annullamento (arg. ex Cass. 16 luglio 2002, n.
10316; Cass. 25 luglio 2011, n. 16190), salvo restando il potere-dovere del giudice di qualificare
giuridicamente l’azione e di interpretare il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicare
una norma di legge diversa da quella invocata dalla parte interessata. Tuttavia, il giudice, al fine di
evitare di incorrere nel vizio di ultrapetizione, nel giudizio di rinvio non deve attribuire un bene
diverso da quello domandato, quale risultante dalla fase rescindente, né introdurre nel tema
controverso nuovi elementi di fatto, ai sensi sia dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., che
impone al giudice di uniformarsi a quanto stabilito dal Corte di cassazione, sia dell’art. 394,
secondo comma, cod. proc. civ., che limita la posizione delle parti a quella già definita nel
procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata (Cass. 5 gennaio 2011, n. 199; Cass. 3
novembre 1997, n. 10753; nonché Cass. 1° settembre 2004, n. 17610; Cass. 24 maggio 2005, n.
10922; Cass. 17 luglio 2007, n. 15925).
Inoltre, in linea generale, la spettanza al giudice del merito dell’interpretazione della domanda
comporta che, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata —
ed era compresa nel thema decidendum tale statuizione, ancorché in ipotesi erronea, non può
essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una
9

diverse per petitum, causa petendi e disciplina; 2) in ogni caso la decorrenza del credito
riconosciuto al Gallo avrebbe dovuto essere quella del 31 dicembre 1993 anziché del 24 ottobre
1994; 3) il credito richiesto aveva natura retributiva, mentre quello riconosciuto ha natura
risarcitoria.

4.2.2.- In applicazione dei suddetti principi il secondo motivo di ricorso è inammissibile, sia
perché è formulato senza il dovuto rispetto delle prescrizioni dettate dagli artt. 366, primo comma,
n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. (in particolare senza riprodurre le parti interessanti
del ricorso introduttivo del giudizio e di quello introduttivo del giudizio di rinvio e senza dare
indicazioni per il loro reperimento nel fascicolo), sia perché con esso si prospetta direttamente una
ultrapetizione della sentenza, senza invece denunciare eventualmente un vizio di motivazione sul
punto contestato e comunque senza considerare che il thema decidendum quale definito nella fase
rescindente riguardava proprio l’accertamento della natura del rapporto di lavoro intercorso fra le
parti, come si è detto.
Anche il terzo e il quarto motivo sono inammissibili nelle parti relative alla denunciata
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in quanto, benché in essi si faccia riferimento anche a vizi
della motivazione, in realtà le relative censure non risultano attenere all’iter logico-argomentativo
che sorregge la decisione — il quale, peraltro, risulta congruo e corretto — ma si risolvono
sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse
circostanze di fatto già valutate dal Giudice del merito in senso contrario alle aspettative della
ricorrente e, quindi, si traducono in una inammissibile richiesta di una nuova valutazione da parte di
questa Corte del materiale probatorio.
4.2.3.- Il terzo motivo risulta inammissibile anche con riguardo al profilo di censura relativo
alla ipotizzata violazione dell’art. 1372 cod. civ. — per mancata valutazione come dichiarazione
risolutoria del comportamento delle parti tradottosi nella totale mancanza di operatività del rapporto
di lavoro per un tempo apprezzabile — sia perché il vizio lamentato — in astratto e per come viene
denunciato — non è configurabile come violazione di legge, ma caso mai come vizio di motivazione,
sia perché comunque, anche un ipotetico difetto di motivazione deve riguardare un fatto ritualmente
entrato nel thema decidedum e posto all’attenzione del Giudici del merito e che abbia formato
oggetto del dibattito processuale. Invece, nella specie, ciò non risulta visto che, nel silenzio sul
punto in contestazione sia della sentenza attualmente impugnata sia di quella rescindente, la
ricorrente non offre alcun elemento al riguardo.
Comunque, anche in ipotesi di configurazione della censura come denuncia di una omessa
pronuncia sul suindicato fatto, la ricorrente — sempre tenendo conto dei limiti derivanti dal carattere
“chiuso” del giudizio di rinvio — aveva l’onere — non assolto — di rispettare il principio di specificità
del motivi del ricorso, secondo cui, a pena di inammissibilità, il ricorrente, nella suddetta ipotesi,
deve precisare dove il fatto era stato ritualmente inserito nel dibattito processuale, per consentire al
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motivazione sul punto, dimostrando così di considerare una certa questione come ricompresa tra
quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere
accertato l’erroneità di quella medesima motivazione. In tal caso, il dedotto errore del giudice non
si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in
concreto della volontà della parte, e non a quello inerente a principi processuali, pertanto detto
errore può concretizzare solo una carenza nell’interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio
sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. 18
aprile 2006, n. 8953; Cass. 31 luglio 2006, n. 17451; Cass. 22 marzo 2007, n. 7049).

4.2.4.- Il quarto motivo, è inammissibile anche nella parte relativa alla violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 1225, 1227 e 2729 cod. civ., prospettata dalla ricorrente, sul rilievo secondo
cui la Corte romana non avrebbe tenuto conto di tali norme al fine di disporre una limitazione della
quantificazione del danno da risarcire.
Ebbene, come è noto, il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto è
configurabile quando in relazione ad un fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando
doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male
applicata, dovendo il ricorrente, in ogni caso, prospettare l’erronea interpretazione di una norma da
parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ed indicare, a pena d’inammissibilità, le
ragioni per le quali ritiene che vi sia stata la violazione di legge ipotizzata (vedi per tutte: Cass. 24
ottobre 2007, n. 22348).
Nella specie, la formulazione della censura risulta corretta, tuttavia il motivo è inammissibile
per carenza di un concreto interesse della società ricorrente a denunciare la pretesa violazione di
legge nel senso precisato. Infatti, la Corte romana ha fatto applicazione delle norme richiamate
proprio nel senso indicato dalla ricorrente, anche se — come si dirà a proposito del ricorso
incidentale — pervenendo ad un risultato non conforme alla giurisprudenza di questa Corte, ma per
ragioni diverse da quelle poste a fondamento della suindicata censura della RAI.
Né, d’altra parte, la ricorrente ha precisato in che termini dalla suddetta applicazione delle
invocate disposizioni residuino comunque, in ipotesi, dei profili di lesione dei propri diritti, né ha
contestato la motivazione adottata sul punto dalla Corte d’appello.
5.- Anche il quinto motivo è inammissibile.
Con esso, infatti, la ricorrente non solo prospetta come violazione di legge la mancata
applicazione, da parte della Corte d’appello, dell’art. 32, commi da 5 a 7, della legge n. 183 del
2010, pur dando atto che tale legge è entrata in vigore il 24 novembre 2010, cioè dopo la
pubblicazione della sentenza impugnata (luglio 2010), ma comunque chiede l’applicazione di una
normativa che riguarda una fattispecie — quella della conversione dei contratti a termine — che non
ricorre nel presente giudizio, nel quale, come precisato anche nella sentenza rescindente, si discute
della determinazione della natura del rapporto di lavoro in oggetto.
Né la ricorrente dimostra — in conformità con il principio di specificità dei motivi del ricorso
per cassazione — che la suddetta questione sia ritualmente entrata nel thema decidendum, il che
porta ad escludere qualsiasi rilevanza del suddetto jus superveniens anche nel presente giudizio di
cassazione.
11

giudice di verificarne la ritualità e tempestività, e quindi la decisività della questione, e perché, pur
configurando la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. un error in procedendo, per il quale la Corte
di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il
potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la
medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (tra le molte:
Cass. 17 gennaio 2007, n. 978; Cass. SU 14 maggio 2010, n. 11730).

IV — Esame dei motivi del ricorso incidentale
6.- Deve, invece, essere accolto il ricorso incidentale, per le ragioni e nei limiti di seguito
precisati.
6.1.- Quanto al primo motivo, si osserva che la Corte romana, così come è accaduto in
analoghe controversie, anche nel presente giudizio, pur muovendo da esatti presupposti è tuttavia
pervenuta alla concreta quantificazione del danno risarcibile, in modo non conforme ai principi
affermati da questa Corte in materia, che il Collegio condivide.

a) la cessazione del rapporto per scadenza del termine nullo non si configura come
licenziamento, ma come inadempimento contrattuale, che comporta il diritto al risarcimento del
danno del dipendente che cessi l’esecuzione delle prestazioni alla suddetta scadenza;
b) tale risarcimento può essere commisurato alle retribuzioni perdute, con decorrenza dal
momento in cui l’interessato, offrendo le proprie prestazioni lavorative, ha determinato una
situazione di mora credendi, cosa nella specie si è verificata con la proposizione del ricorso
introduttivo del presente giudizio (vedi, per tutte: Cass. SU 8 ottobre 2002, n. 14381);
c) per quel che riguarda la relativa quantificazione si deve tenere conto dell’obbligo del
lavoratore di collocare le proprie energie sul mercato del lavoro in modo da limitare le conseguenze
pregiudizievoli dell’inadempimento datoriale, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ.
Sulla base di tali premesse, tuttavia, il Giudice del merito ha ritenuto che — presuntivamente,
in base ad un giudizio di prevedibilità del danno risarcibile ex art. 1225 cod. civ. — si potesse
ritenere congruo limitare tale danno ad un periodo di un triennio quale lasso di tempo sufficiente per
reperire una nuova occupazione, analoga a quella di cui si discute.
Orbene, secondo i su richiamati orientamenti:
a) l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento
dannoso (di cui al primo comma dell’art. 1227 cod. civ.) va distinta da quella (disciplinata dal
secondo comma del medesimo articolo) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia
prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire alla relativa causazione;
b) infatti, solo per la seconda di tali situazioni costituisce oggetto di una eccezione in senso
proprio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 112 cod. proc. civ., mentre, ove il convenuto si sia
limitato a contestare in toto la propria responsabilità, il giudice del merito può pronunciarsi anche
d’ufficio sul concorso del fatto colposo del danneggiato che abbia contribuito a cagionare il danno,
perché si deve escludere che tale fattispecie (vedi, fra le tante, Cass. 31 gennaio 2011, n. 2139;
Cass. 22 agosto 2003 n. 12352; Cass. 8 aprile 2002 n. 5024).
Inoltre, proprio in relazione a fattispecie analoghe alla attuale è stato precisato che nell’ipotesi
di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto del riconoscimento ad opera del giudice
della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, l’eccezione, con la quale il datore di lavoro
12

In particolare, la Corte d’appello ha esattamente rilevato che:

Peraltro, nell’anzidetta ipotesi, ai fini della sottrazione dell’ aliunde perceptum dalle
retribuzioni dovute al lavoratore, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza
del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte
venga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito,
tale essendo il fatto idoneo a ridurre l’entità del danno risarcibile (Cass. 10 aprile 2012, n. 5676
cit.).
Nella specie, la Corte d’appello, con motivazione decisamente insufficiente, ha ridotto l’entità
del danno risarcibile in base alla presunzione, non fondata su alcuna massima di esperienza, che il
lavoratore avrebbe potuto trovare nuova idonea occupazione nell’arco di tre anni successivi alla
data di cessazione definitiva del rapporto, senza spiegare in base a quali elementi ha potuto
presumere che quel lasso di tempo fosse congruo per consentire al Gallo di trovare altra
occupazione e senza neppure considerare che il dovere di cooperazione del creditore derivante dalla
regola di correttezza posta dall’art. 1175 cod. civ. concerne la cooperazione nell’adempimento del
debitore, non il dovere di attivarsi per ridurre le conseguenze risarcitorie del già realizzatosi altrui
inadempimento.
6.2.- Anche il secondo motivo del ricorso incidentale va accolto.
Va, infatti, ricordato che, per un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, nel caso di
omissione contributiva sussiste l’interesse del lavoratore ad agire per il risarcimento del danno (ex
art. 2116 cod. civ.) ancor prima del verificarsi degli eventi condizionanti l’erogazione delle
prestazioni previdenziali, avvalendosi della domanda di condanna generica — ammissibile anche nel
rito del lavoro (Cass. 5 maggio 2004, n. 8576; Cass. 16 ottobre 2007, n. 21620) — diretta ad
accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare danno, salva poi la facoltà di
esperire, al momento del prodursi dell’evento dannoso, l’azione risarcitoria ex art. 2116, secondo
comma, cod. civ. oppure quella diversa, in forma specifica, ex art. 13 della legge 12 agosto 1962 n.
1338 (Cass. 3 dicembre 2004, n. 22751; Cass. 15 giugno 2007, n. 13997; Cass. Cass. 7 agosto 2002,
n. 11872; Cass. 20 marzo 2001, n. 3963).
Nella specie, come risulta anche dalla sentenza impugnata, il lavoratore
aveva chiesto la
IQ
condanna del datore di lavoro a risarcirgli il danno cagionato da13 ,vasamento dei contributi
previdenziali — che, per sua natura, è una condanna generica visto che, come si è detto, tale danno si
attualizza soltanto al raggiungimento dell’età pensionabile e non è quindi quantificabile prima di
tale evento condizionante — mentre la Corte territoriale — con motivazione insufficiente, poco chiara
13

deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova
occupazione ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare
l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva
in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi
possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il
giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione
possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei
ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass.
SU 3 febbraio 1998, n. 1099; Cass. 26 ottobre 2010, n. 21919; Cass. 10 aprile 2012, n. 5676).

e poco coerente — ha respinto la domanda “di risarcimento dei danni per l’omesso versamento dei
contributi” perché l’interessato non ha “formulato in proposito specifiche allegazioni, al di là della
mera pacifica omissione contributiva, dalle quali poter desumere, se provata, la ricorrenza in
concreto di un danno pensionistico”, così mostrando di aver qualificato la domanda come istanza di
condanna specifica, pur dopo averne esattamente individuato il contenuto (Cass. 26 marzo 2012, n.
4805).

Conclusioni

7.- In sintesi, per quanto si è detto, il ricorso principale deve essere respinto e quello
incidentale deve, invece, essere accolto. La sentenza impugnata va, quindi, cassata, in relazione al
ricorso accolto, con rinvio alla stessa Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che — sulla
base dei suesposti principi (con particolare riguardo a quelli indicati ai precedenti punti 3, 6.1 e 6.2)
— provvederà a determinare il risarcimento spettante al resistente nonché a valutare in modo
adeguato la domanda del lavoratore di condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni per
l’omesso versamento dei contributi, adottando le consequenziali pronunce, dando adeguata ragione
del proprio convincimento e provvedendo altresì in ordine alle spese processuali del presente
giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e accoglie quello incidentale. Cassa la
sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio
di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 19 novembre 2013.

V

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