Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26293 del 17/10/2019

Cassazione civile sez. III, 17/10/2019, (ud. 05/04/2019, dep. 17/10/2019), n.26293

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Domenico – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22678-2017 proposto da:

G.V., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati

STEFANO VANCINI, STEFANIA MINELLI;

– ricorrente –

contro

K.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI CORRIDORI

48, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GALLO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 169/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 27/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

05/04/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.V. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 169/17, del 27 febbraio 2017, della Corte di Appello di Bologna, che – respingendo il gravame da esso esperito avverso la sentenza n. 949/16, del 20 maggio 2016, del Tribunale di Modena ha confermato l’intervenuta risoluzione, per inadempimento di K.C.B.A., del contratto di affitto di azienda di autolavaggio concluso il 28 giugno 2000, nonchè la condanna del medesimo K., per quanto qui ancora di interesse, sia a restituire all’odierno ricorrente il portale semovente per il lavaggio delle auto, già di proprietà dello stesso G., sia a corrispondergli la somma di Euro 8.435,00, quali canoni di affitto non corrisposti e indennità da occupazione abusiva, credito che compensava parzialmente con quello, pari ad Euro 807,00, spettante al predetto affittuario a titolo di risarcimento danni.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver concluso con il K., in data 28 giugno 2000, un contratto di affitto di azienda – con durata semestrale prorogabile – avente ad oggetto l’autolavaggio di veicoli, contratto prorogatosi, in assenza di disdetta, fino al 31 dicembre 2011.

Deduce, altresì, il ricorrente che l’affittuario tratteneva l’azienda dopo la scadenza del contratto, rendendosi anche moroso, a partire dal mese di agosto del 2012, nella corresponsione dei canoni di affitto. Pertanto, essendo rimasta priva di effetto una diffida stragiudiziale ad adempiere, inviata nell’ottobre del 2012, il G., perdurando la morosità del K., con ricorso depositato il 7 marzo 2013 promuoveva giudizio ex art. 447-bis c.p.c., innanzi al Tribunale di Modena, avvalendosi di clausola risolutiva espressa contenuta nel contratto.

In particolare, l’attore chiedeva accertarsi l’inadempimento del K. e, per l’effetto, dichiarare risolto il contratto, con condanna del convenuto al pagamento dei canoni di affitto maturati, nonchè al risarcimento del danno per occupazione “sine titulo” e, infine, alla restituzione dell’azienda.

Resisteva alla domanda attorea il K., il quale assumeva di avere legittimamente sospeso il pagamento del canone, sia in ragione di inadempimento del G. rispetto all’obbligo di sostenere le spese per la manutenzione straordinaria dell’azienda, sia per avere il proprietario del terreno sul quale insisteva l’azienda stessa receduto dal contratto di locazione stipulato con il medesimo G..

Istruita la causa mediante prove orali, nonchè attraverso consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale emergeva che tutti gli interventi eseguiti dall’affittuario, all’infuori di tre, erano, in realtà, di ordinaria manutenzione, il giudice di prime cure così provvedeva. Esso accertava, innanzitutto, l’intervenuta risoluzione del contratto, condannando il convenuto al pagamento dei canoni di affitto dal mese di ottobre 2012 fino alla data della risoluzione del contratto (che identificava in quella – 7 marzo 2013 – di presentazione del ricorso ex art. 447-bis c.p.c., da intendersi quale manifestazione della volontà dell’affittante di avvalersi della clausola risolutiva espressa), nonchè delle indennità di occupazione fino al momento della restituzione dell’azienda di autolavaggio, che identificava nella sostituzione, avvenuta il 30 aprile 2013, dell’originario portale semovente di lavaggio dei veicoli, con altro acquistato dallo stesso affittuario. Inoltre, condannava il G. a corrispondere al K. la somma di Euro 807,00 a titolo di danni (o meglio, di corrispettivo per spese sostenute dall’affittuario in relazione ad interventi di manutenzione straordinaria, contrattualmente, invece, a carico dell’affittante), disponendone la compensazione con il maggiore importo dovuto al G., per i titoli sopra meglio delineati, e pari a Euro 8.435,00.

Non ritenendosi integralmente soddisfatto dalla pronuncia del primo giudice, l’odierno ricorrente esperiva gravame, lamentando, innanzitutto, l’omessa pronuncia sulla restituzione dell’azienda e il vizio di ultrapetizione, sul presupposto che il compendio aziendale non fosse costituito dal solo portale di autolavaggio, bensì da ulteriori cespiti, quali le idropulitrici, la pompa sommersa, l’impianto elettrico, il disoleatore, il pozzo artesiano e una tettoia metallica rivestita con pannelli di policarbonato antirumore, oltre ai beni immateriali rappresentati dall’avviamento e dalle autorizzazioni amministrative. L’allora appellante si doleva, inoltre, della errata quantificazione delle spese straordinarie sostenute dall’affittuario, dei canoni oggetto di morosità, nonchè dei danni da esso subiti.

Il giudice d’Appello, tuttavia, rigettava il proposto gravame.

3. Avverso la sentenza della Corte felsinea ha proposto ricorso per cassazione il G., sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. In particolare, il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, “sub specie”, di omessa valutazione della CTU e dei documenti nn. 3), 4), 5), del fascicolo di parte ricorrente in primo grado.

Si censura l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, laddove ravvisa l’inadempimento di maggiore gravità in quello ascritto all’appellante G., in ragione della “inettitudine del portale di lavaggio, oggetto materiale del contratto, a consentire un ordinato e proficuo sviluppo dell’attività di impresa”, come confermato anche dalla circostanza che lo stesso aveva causato sette sinistri, con danneggiamento delle vetture della clientela.

Si tratterebbe, tuttavia, di affermazione errata, non avendo la Corte felsinea considerato le altre risultanze emerse ed evidenziate dalla CTU, avendo, così, il giudice di appello interpretato erroneamente il solo dato della vetustà del portale. Dalla relazione del consulente, infatti, emergerebbe che la quasi totalità degli interventi eseguiti dall’affittuario presentavano carattere ordinario, non esistendo agli atti del giudizio alcuna prova (o anche solo indizio) circa l’effettiva esecuzione di interventi di natura straordinaria, nè tantomeno sulla loro reale necessità. Tale errata valutazione dei fatti e delle prove si sarebbe, pertanto, tradotta in una errata statuizione circa il mancato adempimento delle obbligazioni derivanti, a carico del G., dal rapporto di affitto di azienda, ciò che, pertanto, vizierebbe la conclusione raggiunta dal giudice d’Appello, secondo cui il maggiore inadempimento nello svolgimento della relazione contrattuale sarebbe da imputare all’affittante.

Inoltre, la Corte avrebbe omesso di considerare che nella propria relazione il consulente tecnico afferma di aver “potuto riscontrare il funzionamento di tutte le spazzole (due verticali e due orizzontali), degli spruzzatori acqua di lavaggio e delle lame d’aria per asciugatura”, concludendo, pertanto, nel senso che il portale di autolavaggio, a dispetto della sua vetustà, risultava ancora funzionante.

Si confermerebbe, in questo modo, vieppiù, che “l’unico inadempimento provato è solo quello del K. in merito al pagamento del canone, ciò che avrebbe dovuto indurre la Corte d’Appello a confermare che la risoluzione del contratto d’affitto era avvenuta per fatto e colpa della affittuario”.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 2729 c.c., oltre che degli artt. 1577,1578 e 1587 c.c. e, infine, dell’art. 2561 c.c., comma 2, artt. 2555 e 1617 c.c.

Sul presupposto che l’affittuario non abbia validamente provato l’avvenuta causazione dei sinistri (conseguiti, a suo dire, al malfunzionamento del portale di lavaggio), il ricorrente sottolinea come la sentenza impugnata abbia “sussunto erroneamente nella propria motivazione un fatto destituito di ogni e qualsiasi prova, senza alcuna rispondenza neppure con i caratteri delle presunzioni”, donde la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c.

Inoltre, poichè la consulenza tecnica d’ufficio, come già evidenziato, avrebbe negato il cattivo funzionamento del portale di lavaggio, la Corte felsinea avrebbe dovuto, per ciò solo, escludere che l’affittuario potesse sospendere il pagamento dei canoni. Nel giungere, invece, a diversa conclusione la sentenza impugnata avrebbe, pertanto, violato gli artt. 1577,1578 e 1587 c.c.

Il tutto, poi, non senza tacere sia che la sostituzione del portale di lavaggio risulterebbe avvenuta senza alcuna preventiva richiesta o comunicazione all’affittante, affinchè il medesimo potesse intervenire, ciò che integrerebbe un’ulteriore violazione dell’art. 1577 c.c., e che, in ogni caso, la sostituzione era comunque a carico dell’affittuario ex art. 2561 c.c., comma 2, norma in base alla quale l’affittuario deve gestire l’azienda nella prospettiva di tutelare l’interesse del concedente a non vedere ridotta l’efficienza del complesso aziendale, in vista di un ritorno nella posizione di imprenditore.

Inoltre, si evidenzia come nel conteggio dei reciproci rapporti di dare avere la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare le spese sostenute, da esso G., per l’installazione del disoleatore, per l’acquisto della pompa sommersa per l’aspirazione dell’acqua del pozzo, per la relazione tecnica sulla trivellazione del pozzo e per il rilascio dell’autorizzazione amministrativa per il relativo uso, nonchè i costi per la realizzazione dell’impianto elettrico e per l’acquisto di due idropulitrici.

Infine, la violazione degli artt. 2555 e 2561 c.c. è motivata sul rilievo che l’obbligo restitutorio, conseguente alla risoluzione del contratto di affitto di azienda, non avrebbe dovuto riguardare il solo portale vetusto, dovendo avere ad oggetto, invece, unitamente a quello nuovo acquisito in sostituzione del precedente, anche altri cespiti del compendio aziendale, quali la tettoia metallica e i pannelli di policarbonato per attutire il rumore, nonchè beni immateriali come l’avviamento e le licenze ed autorizzazioni rilasciate dalle competenti autorità alla parte concedente.

4. Ha resistito alla descritta impugnazione, con controricorso, il K., eccependone, preliminarmente, l’inammissibilità (sul rilievo, per un verso, che quelle proposte sarebbero censure esclusivamente attinenti al merito della decisione, nonchè, per altro verso, ricorrendo, nella specie, un’ipotesi di cosiddetta “doppia conforme di merito”), o comunque l’infondatezza.

5. Ha presentato memoria il ricorrente, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, sebbene per quanto di ragione.

7. I motivi – che possono essere scrutinati congiuntamente, data la loro connessione – sono fondati solo laddove censurano la sentenza impugnata, per violazione dell’art. 2555 c.c., laddove essa ha ritenuto che l’obbligo di restituzione dell’azienda potesse ritenersi soddisfatto con la messa a disposizione del vecchio portale semovente di lavaggio.

7.1. Inammissibile è, invece, la censura che investe la sentenza impugnata, laddove essa – a dire del ricorrente – avrebbe individuato l’inadempimento di maggiore gravità in quello ascritto all’appellante G., e ciò in ragione della “inettitudine del portale di lavaggio, oggetto materiale del contratto” (ovvero, quello originariamente presente presso l’impianto) “a consentire un ordinato e proficuo sviluppo dell’attività di impresa”, come confermato anche dalla circostanza che lo stesso aveva causato sette sinistri, con danneggiamento delle vetture della clientela.

La censura, tuttavia, si fonda su di un presupposto errato, ovvero che la Corte territoriale abbia escluso che la risoluzione fosse addebitabile all’affittuario, tanto che la sua illustrazione si conclude con la richiesta di accertare che “l’unico inadempimento provato è solo quello del K. in merito al pagamento del canone, ciò che avrebbe dovuto indurre la Corte di Appello” – secondo l’odierno ricorrente – “a confermare che la risoluzione del contratto d’affitto era avvenuta per fatto e colpa della affittuario”.

Invero, in difetto di gravame incidentale da parte del convenuto/appellato, la statuizione relativa all’intervenuta risoluzione del contratto di affitto per inadempimento dell’affittuario non poteva essere messa in discussione, nè, d’altra parte, ciò è avvenuto. Dell’inadempimento del G., per vero, la sentenza impugnata ha tenuto conto solo ai fini di determinare quale fosse l’importo dovuto al medesimo, nel senso che la Corte territoriale ha confermato la decisione del giudice di prime cure di compensare il credito dell’affittante (relativo sia ai canoni non corrisposti dall’affittuario, sia alle indennità di occupazione “sine titulo”) con un credito risarcitorio spettante allo stesso affittuario per danni subiti in costanza di rapporto.

Tanto basta, dunque, a determinare l’inammissibilità del motivo, in applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

7.2. Egualmente inammissibili sono tutte le censure che ipotizzano violazione di norme di diritto, individuate negli artt. 115 e 116 c.p.c., nell’art. 2729 c.c., nonchè negli artt. 1577,1578 e 1587 c.c. e, infine, nell’art. 2561 c.c., comma 2.

Esse, difatti, si basano sul presupposto sia dell’assenza di prova circa il malfunzionamento del vecchio portale semovente di lavaggio, poi sostituito (o, addirittura, sull’esistenza di una prova contraria, che sarebbe stata raggiunta in forza dall’espletata CTU), sia di un errata valutazione degli interventi di manutenzione effettuati, tanto in relazione alla loro natura ed oggetto, quanto al soggetto che era tenuto a provvedervi o che risulta averli operati.

Si tratta, tuttavia, di censure che non sono neppure astrattamente riconducibili al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), se è vero che “la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina” postula “che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01, in senso analogo anche Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03).

Nella specie, invece, è proprio l’accertamento in fatto operato dalla Corte felsinea ciò che forma oggetto di censura.

7.3. Fondata è, invece, la censura di violazione dell’art. 2555 c.c.

7.3.1. Sul punto, occorre muovere dal rilievo preliminare – come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte, nell’affrontare il tema (qui non rilevante) della possibilità di acquisto dell’azienda a titolo originario, per effetto di usucapione – che la questione della natura dell’azienda è stata “oggetto in dottrina di un dibattito molto risalente nel tempo e mai sopito”. Difatti, sebbene il codice civile del 1942 abbia “introdotto nell’ordinamento una disciplina dell’azienda, della quale ha dato per la prima volta anche una definizione, con l’intento di disciplinare alcuni – almeno – dei problemi dibattuti in relazione alla sua natura giuridica”, è noto “che la scelta così operata non ha avuto l’effetto di porre termine al dibattito” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 5 marzo 2014, n. 5087, Rv. 629549-01).

Difatti, se l’art. 2555 c.c. “definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzato per l’esercizio dell’impresa”, il “coordinamento di questa definizione, dettata nel Libro quinto del codice civile, con la classificazione dei beni, contenuta negli artt. 810817 c.c. è tradizionalmente ritenuto un banco di prova di qualsiasi concezione dell’azienda”, in quanto “la classificazione dei beni giuridici, nel codice civile, non consentirebbe di qualificare l’azienda – intesa come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista – come bene mobile, o immobile o anche – se non con qualche importante adattamento – come universalità di beni nella definizione dell’art. 816 c.c.”, inquadramento, quest’ultimo, “che suppone non solo la natura mobiliare di tutti i beni ma altresì la loro appartenenza all’unico proprietario” (così, nuovamente, Cass. Sez. Un., sent. n. 5087 del 2014, cit.).

Proprio in ragione di tale difficoltà (che, come detto, trova un riflesso, sul piano dottrinario, nella perdurante contrapposizione tra teorie “unitaria” ed “atomistica” dell’azienda), il Supremo Collegio ha inteso porre l’accento sul fatto che, “nella definizione dell’art. 2555 c.c., l’elemento unificatore della pluralità dei beni – indicato nell’organizzazione per l’esercizio dell’impresa – è ancorato a un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa)”, senza, però, rinunciare ad “una considerazione oggettivata (di “cosa”, oltre che di strumento di attività)” che costituisce “la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti”. (cfr., ancora una volta, Cass. Sez. Un., sent. n. 5087 del 2014, cit.).

7.3.2. Orbene, proprio questo dato, ovvero “l’oggettività dell’azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti” (così, in particolare, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 30 giugno 2015, n. 13319, Rv. 635820-01), è sottolineato, a più riprese, dalla giurisprudenza di questa Corte.

Essa, infatti, ha rimarcato che è “nella organizzazione del complesso dei beni che va riconosciuta la componente immateriale caratteristica dell’azienda, o di un suo ramo, atteso che i beni, singolarmente considerati, prospettano solo la loro specifica essenza, ma la loro “organizzazione”, finalizzata alla produzione, conferisce al complesso dei beni il carattere di complementarietà necessario perchè possa attribuirsi ad esso la definizione di azienda” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 28 aprile 1998, n. 4319, Rv. 51494201).

In questo senso, dunque, va intesa la configurazione dell’azienda “come “universitas juris” comprendente cose materiali, mobili e immobili, beni immateriali, rapporti di lavoro, debiti e crediti con la clientela e in genere tutti gli elementi organizzati in senso funzionale per l’esercizio di un’impresa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 11 agosto 1990, n. 8219, Rv. 468816-01; in senso analogo anche Cass. Sez. Lav., sent. 22 marzo 1980, n. 1939, Rv. 405562-01; Cass. Sez. 1, sent. 7 ottobre 1975 n. 3178; Rv. 377286-01).

7.3.3. Orbene, riguardata alla stregua di tali principi, deve ritenersi errata la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che l’obbligo di restituzione, al G., dell’azienda già oggetto di affitto, potesse essere soddisfatto attraverso la messa a disposizione, unicamente, dell’originario portale semovente di lavaggio.

Così disponendo, infatti, la Corte territoriale ha, di fatto, identificato l’azienda in uno solo dei beni strumentali all’attività di autolavaggio.

7.4. In conclusione, il ricorso va accolto nei limiti anzidetti e la sentenza impugnata va cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, per la decisione nel merito, in conformità con i principi dianzi enunciati, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, per quanto di ragione, cassando in relazione la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 5 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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