Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2629 del 04/02/2021

Cassazione civile sez. II, 04/02/2021, (ud. 24/11/2020, dep. 04/02/2021), n.2629

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14833/2016 proposto da:

SPAZIO BIANCO ASSOCIAZIONE ONLUS, elettivamente domiciliato in ROMA,

via Filippo Ermini, 68, presso lo studio dell’avvocato Claudia

Salustri, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Momaroni;

– ricorrente –

contro

Z.M.V., elettivamente domiciliato in Roma, Via

America 11, presso lo studio dell’avvocato Massimo Biancolillo, che

la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 230/2016 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 20/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

 

Fatto

RITENUTO

che:

I fatti nella sentenza impugnata sono così riassunti: “Con atto di citazione tempestivamente e ritualmente notificato la Dott.ssa Z.M.V. proponeva appello avverso la sentenza n. 344/2015 emessa dal Tribunale di Perugia in data 24.2.2015 con la quale era stata rigettata la domanda della stessa volta avente ad oggetto il pagamento della somma di Euro 15.150,00, al netto delle ritenute, per l’attività professionale svolta a favore dell’Associazione Spazio Bianco da settembre 2008 e per tutto l’anno 2009 per un totale di n. 570 ore di servizio e la redazione di n. 20 relazioni tecniche; era stata altresì rigettata la domanda riconvenzionale svolta dall’Associazione Spazio Bianco avente ad oggetto la restituzione della somma erogata alla Dott.ssa Z. per importo di Euro 8,200,00, somme non dovute dal momento che la predetta dall’aprile 2008 era socia dell’Associazione e per questo svolgeva la sua attività come volontaria; con spese compensate tra le parti. In particolare la Dott.ssa Z. contestava la sentenza di primo grado che aveva escluso il suo diritto ad essere retribuita sulla base del richiamo della L. n. 266 del 1991, art. 2, comma 3, che prevede che la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi altra forma di rapporto di lavoro subordinato autonomo e con ogni rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte; chiedeva pertanto in riforma della sentenza di primo grado l’accoglimento della sua domanda con vittoria di spese del doppio grado di giudizio. Si costituiva l’Associazione Spazio Bianco (…), contestando quanto ex adverso affermato e chiedendo il rigetto dell’appello con conferma integrale della sentenza impugnata”.

La Corte d’appello accoglieva l’impugnazione e condannava l’Associazione Spazio Bianco al pagamento, in favore dell’appellante della somma di Euro 15.150,00, oltre interessi dalla domanda, nonchè al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio.

Per la cassazione della sentenza l’Associazione Spazio Bianco ha proposto ricorso affidato a cinque motivi. Z.M.V. ha resistito con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’appello della Z. non presentava gli elementi indispensabilmente richiesti dall’art. 342 c.p.c., a pena di inammissibilità dell’impugnazione. La ricorrente censura conseguentemente omissione di pronuncia sulla relativa eccezione, proposta e coltivata nel corso di tutto il grado di giudizio.

Il motivo è in parte infondato in parte inammissibile. Il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito. Si chiarisce nello stesso tempo che il mancato esame di una questione puramente processuale può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte (Cass. n. 321/2916; n. 22860/2004).

In effetti la ricorrente censura anche la violazione dell’art. 342 c.p.c.. Per questa parte, però, la censura è inammissibile, perchè non soddisfa le condizioni di specificità imposte a chi intende denunciare in cassazione la violazione, da parte del giudice d’appello, dell’art. 342 c.p.c..

L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 20404/2005; n. 22880/2017).

Mutatis mutandis chi si duole del mancato rilievo della inammissibilità della impugnazione o del singolo motivo è gravato dal medesimo onere, che non è stato assolto dalla attuale ricorrente, che ha omesso la trascrizione delle parti di interesse dell’impugnazione altrui.

Si deve aggiungere che la trascrizione dell’atto di impugnazione è stata fatta dalla controricorrente a confutazione della censura. Le parti trascritte di tale atto evidenziano che esso aveva i requisiti prescritti dalla norma dell’art. 342 c.p.c., intesa alla luce degli insegnamenti di Cass., S.U., n. 27199/2017.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 266 del 1991, art. 2, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’adesione della Z. all’Associazione Spazio Bianco escludeva, per norma imperativa di legge, il diritto alla retribuzione comportando il radicale mutamento del rapporto di lavoro originario. L’imperatività della norma rendeva irrilevante il fatto che, per un limitato periodo, Spazio Bianco avesse continuato (per errore di diritto e ignoranza del dettato normativo) a corrispondere somme alla professionista. Tale circostanza non poteva essere intesa quale vincolo o obbligo futuro dell’Associazione nei confronti della sua associata, che da un certo momento aveva liberamente deciso di diventare volontaria a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze che tale condizione comportava sul diritto al compenso per l’attività prestata in favore della stessa Associazione.

In particolare, l’errore di diritto commesso dalla Corte d’appello consiste nell’avere ammesso la coesistenza del rapporto volontaristico e del rapporto lavorativo retribuito in capo all’associato, il quale, in dipendenza dell’adesione, aveva, per ciò solo, scelto di operare volontariamente e gratuitamente.

Il motivo è infondato.

Si richiamano in proposito i seguenti principi.

La prestazione di volontariato, per sua natura gratuita e spontanea, non è soggetta alla disciplina sul volontariato, ma alla disciplina giuslavoristica del rapporto di lavoro, se, indipendentemente dal nomen juris, il volontario sia assunto e retribuito con un compenso che superi il mero rimborso spese (Cass. n. 12964/2008; n. 10974/2010).

Alla stregua di quanto disposto dalla L. 11 agosto 1991, n. 266, art. 2 (secondo cui “l’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”, ed inoltre “la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte”) non ricorrono gli estremi della prestazione di volontariato nel caso in cui, per l’attività espletata, siano state corrisposte somme di danaro, essendo onere della parte convenuta in giudizio per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dimostrare che la loro corresponsione sia avvenuta, invece, a titolo di rimborso spese, non superando l’ammontare di queste (Cass. n. 9468/2013).

La decisione impugnata è in linea con tali principi.

La corte d’appello è partita dalla considerazione che con Delib. 8 maggio 2007, l’Associazione aveva incaricato la Dott.ssa Z. di svolgere la sua attività di psicologa, riconoscendole un compenso per tale attività, con l’intesa che il medesimo sarebbe stato regolato quando l’Associazione avrebbe ricevuto i fondi dal Comune di Perugia. Essa ha proseguito nella propria analisi, rilevando che: la Z., in data 8 aprile 2008, aveva compilato un modulo con il quale aveva richiesto l’adesione all’Associazione come socia, esonerando la stessa Associazione da ogni responsabilità riguardante la sua opera di volontario. Successivamente, in data 9 settembre 2009, aveva sottoscritto altro modulo, chiedendo di prestare attività di volontariato. Tuttavia – ha proseguito la corte d’appello – la professionista aveva continuato a prestare la propria attività in conformità alla iniziale Delib. 8 maggio 2007; nello stesso tempo l’Associazione, a fronte delle fatture presentate, aveva continuato ad effettuare i pagamenti: il che, secondo la corte di merito, era fatto pacifico, se è vero che l’Associazione aveva proposto domanda riconvenzionale, chiedendo la restituzione dell’importo corrisposto alla Dott.ssa Z.. Se ne deduceva che il rapporto, nonostante l’adesione, era proseguito secondo i termini originari, il che trovava conferma ne) fatto che l’Associazione, investita della richiesta del pagamento, senza contestare l’importo e le ore di lavoro svolte, aveva chiesto alla creditrice solamente di attendere, in attesa della erogazione dei fondi, “dimostrando in questo modo di riconoscere pienamente operante la Delib. 8 maggio 2007 nella quale esplicitamente si condizionava il pagamento alla erogazione dei fondi”. Al riguardo la corte di merito poneva l’accento, in particolare, sulla missiva dell’Associazione del 31 luglio 2010, con la quale, appunto, l’Associazione, da un lato, riconosceva che i pagamenti pregressi furono fatti quali compenso per l’attività svolta, dall’altro, si riconosceva debitrice delle ulteriore somme. Non avendo l’Associazione dimostrato che i pagamenti furono eseguiti a titolo di rimborso spese, in presenza del riconoscimento del debito, la professionista non doveva fornire altra prova ai fini della dimostrazione del proprio diritto.

L’insieme di queste considerazioni della corte di merito esprime un apprezzamento di fatto, coerente con i principi di cui sopra e che, di per sè, non rileva errori logici o giuridici.

Esso è perciò incensurabile in questa sede.

Il terzo motivo denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La adesione all’Associazione dell’8 aprile 2008 e la successiva dichiarazione del 9 settembre 2009, da parte della dottoressa Z., costituiscono elementi decisivi ai fini del decidere, che il giudice di secondo grado non ha tuttavia esaminato. Da tali documenti emergeva con chiarezza la univoca dichiarata volontà della dottoressa Z. di mutare il suo rapporto: non più professionista esterna all’Associazione ma componente della medesima, che da quel momento in avanti avrebbe agito non più per lucro personale, ma con intento volontaristico, avendo nel frattempo abbracciato le finalità statutarie di Spazio Bianco.

Il motivo è infondato.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 27415/2018; S.U., n. 8053/2014).

In questo senso è chiaro che la ricorrente non denuncia un “omesso esame” ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, ma vorrebbe in questa sede accreditare una interpretazione di fatti, già considerati dalla corte d’appello, diversa da quella data dal giudice di merito: ciò, appunto, in cassazione non è consentito.

Il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si censura il vizio di ultrapetizione della sentenza laddove la corte di merito ha riconosciuto, in assenza di eccezione di parte, che la missiva dell’Associazione del 31 luglio 2010 contenesse un riconoscimento di debito.

Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 1988 c.c. e omesso esame di fatti decisivi.

Nel caso concreto non sono ravvisabili i presupposti per attribuire alla lettera raccomandata del 31 luglio 2010 efficacia di ricognizione di debito ex art. 1988 c.c.. In tale lettera, come risulta con chiarezza dal suo contenuto, si manifesta esclusivamente la disponibilità dell’Associazione a reperire una soluzione equilibrata e bilaterale, tenuto conto dei vantaggi goduti dalla Z.. Pertanto, illegittimamente la corte d’appello ha riconosciuto, in favore della professionista, l’inversione dell’onere della prova. Ad ogni modo l’art. 1988 c.c., pone una presunzione semplice di esistenza del rapporto fondamentale suscettibile di prova contraria. Al riguardo l’attuale ricorrente aveva fatto presente che i pagamenti effettuati dopo l’adesione erano stati corrisposti per errore di diritto.

I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

La corte di merito, lungi dall’aver rilevato d’ufficio una eccezione in senso stretto, ha esaminato il contenuto della corrispondenza prodotta in causa e ne ha dedotto che la Associazione, con tale corrispondenza, non aveva negato l’esistenza del debito, ma aveva sollevato il problema della disponibilità dei fondi.

Si legge in tale documento, trascritto nel ricorso, che la possibilità di Spazio Bianco “di corrispondere ai suoi aderenti e collaboratori somme è strettamente collegata e condizionata dalla possibilità di disporre di fondi. Anche in tal senso in tale ottica e quadro va ricondotto il rapporto e la stessa possibilità di corrispondere emolumenti o corrispettivi richiesti”.

In rapporto a un siffatto contenuto del documento la valutazione della corte di merito non rileva vizi logici o errori giuridici: altra cosa è negare in principio che il debito esista, altra cosa è sostenere che, in assenza di una certa condizione, il creditore non potrebbe ugualmente pretenderne il compenso.

Pertanto, pure tale ulteriore censura, al pari delle precedenti, si traduce inammissibilmente nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice di merito (cfr. Cass., n. 2465/2015).

L’indagine sul contenuto e sul significato delle dichiarazioni della parte al fine di stabilire se esse importino una ricogrúizione di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito ed e incensurabile in sede di legittimità, se risulti sorretta da adeguata motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto (Cass. n. 1653/1975; n. 20422/2019).

Si deve ancora aggiungere che le eccezioni in senso stretto non richiedono formule sacramentali (Cass. n. 5872/2011).

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

PQM

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021

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