Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26283 del 25/11/2013


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Civile Sent. Sez. U Num. 26283 Anno 2013
Presidente: ROVELLI LUIGI ANTONIO
Relatore: RORDORF RENATO

Data pubblicazione: 25/11/2013

SENTENZA

sul ricorso 28495-2012 proposto da:
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE

IL PUBBLICO

2013

MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, elettivamente

486

domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– ricorrente contro

LOMBARDI MASSIMO FELICE, elettivamente domiciliato in

ROMA,

VIA COL DI LANA 28,

presso lo studio

dell’avvocato IOVINO FABRIZIO, che lo rappresenta e
difende, per delega in calce al controricorso;
RENDA SALVATORE ANDREA, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA PAOLO EMILIO 7, presso lo studio
dell’avvocato DI GENNARO MATTEO – STUDIO LEGALE

D’AMICO, per delega in calce al controricorso;
– controricorrenti nonchè contro

CUTELLE’ ALDO;
– intimato –

avverso la sentenza n. 631/2012 della CORTE DEI CONTI III Sezione giurisdizionale centrale – ROMA, depositata
1’11/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 08/10/2013 dal Presidente Dott. RENATO
RORDORF;
uditi gli avvocati Ludovico D’AMICO, Fabrizio IOVINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

TASSONI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUDOVICO

Esposizione del fatto
Il 9 marzo 2009 il Procuratore della Repubblica presso la Sezione
giurisdizionale per la Regione Lazio della Corte dei conti citò in giudizio
dinanzi a detta sezione i sigg.ri Salvatore Andrea Renda, Aldo Cutellé e
Massimo Felice Lombardi, i quali avevano rispettivamente ricoperto le
cariche di direttore generale, sindaco ed amministratore unico di una
società interamente partecipata dal Comune di Civitavecchia, denominata

Procuratore lamentò che i convenuti, nell’espletamento delle rispettive
funzioni, avessero arrecato danno alla società, costituita per l’esercizio del
trasporto pubblico locale, impegnandone le risorse in una non prevista
attività di trasporto merci per conto terzi e remunerando per mansioni
mediatorie, in realtà non effettuate, una diversa società costituita dal sig.
Cutellé e gestita di fatto dal sig. Renda.
L’adito giudice contabile, con sentenza del 4 maggio 2010, accolse le
domande del Procuratore e condannò i convenuti a risarcire il danno
sofferto dalla ETM.
Fu proposto appello e la sezione giurisdizionale centrale della Corte dei
conti, con sentenza depositata 1’11 ottobre 2012, avendo ritenuto che
l’azione per risarcimento dei danni da

mala gestio nei confronti degli

organi di una società di diritto privato, ancorché partecipata da soci
pubblici, rientri nella sfera giurisdizionale del giudice ordinario, riformò la
decisione di primo grado e dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice
contabile.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il Procuratore
generale presso la Corte dei conti, formulando due motivi di doglianza
entrambi volti ad affermare la sussistenza, nel caso in esame, della
giurisdizione del giudice contabile.
I sigg.ri Renda e Lombardi hanno resistito con distinti controricorsi. Il
sig. Lombardi ha anche depositato una successiva memoria. Nessuna
difesa ha svolto invece in questa sede il sig. Cutellé.

Ragioni della decisione
1. Le sezioni unite sono nuovamente chiamate a stabilire se sussista, ed
eventualmente entro quali limiti, la giurisdizione della Corte dei conti nei
confronti di soggetti che abbiano svolto funzioni amministrative o di
3

Etruria Trasporti e Mobilità s.p.a. (in prosieguo indicata come ETM). Il

controllo in società di capitali (nella specie una società per azioni)
costituite e partecipate da enti pubblici, quando a quei soggetti vengano
imputati atti contrari ai loro doveri d’ufficio con conseguenti danni per la
società.
Su tale questione, come più diffusamente si dirà tra un momento,
questa corte è già intervenuta negli ultimi anni con molteplici pronunce.
Conviene dire subito, però, che la fattispecie ora in esame presenta una

cenno in alcune precedenti occasioni: cioè che la società asseritamente
danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo presenta le
caratteristiche di una cosiddetta società in house.
Cosa con tale espressione debba intendersi e perché ciò rilevi ai fini
della giurisdizione lo si chiarirà meglio in seguito. Qui giova sottolineare
che la qualifica della ETM come società

in house

del Comune di

Civitavecchia discende da un accertamento in fatto compiuto dal giudice di
primo grado, il quale ne ha dato dettagliatamente atto nella propria
sentenza (si vedano, in particolare, le pagg. 9 e 10), nella quale è infatti
puntualizzato: che l’anzidetta società è stata costituita dall’ente pubblico
comunale, il quale ne è l’unico socio e le cui azioni non possono essere
neppure parzialmente alienate a terzi; che essa ha per oggetto l’esercizio
del servizio di trasporto pubblico locale e di altri servizi inerenti alla
mobilità urbana ed extraurbana (quali il servizio degli ausiliari della sosta e
quello dei parcheggi); che la parte più importante dell’attività sociale è
svolta in favore del comune partecipante; e che sulla medesima società
detto comune esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri
servizi.
A tali accertamenti non risulta siano state mosse contestazioni
specifiche negli atti di gravame proposti dagli interessati contro la
sentenza di primo grado, né il giudice d’appello li ha rimessi in
discussione, in punto di fatto, sicché (pur non risultando possibile in
questa sede l’esame diretto dello statuto della società ETM, non prodotto
agli atti del giudizio di cassazione) si può tenere senz’altro per fermo che
la società di cui si discute presenta le caratteristiche sopra riferite.
2. Si è già ricordato all’inizio come sul tema della giurisdizione contabile
in materia di responsabilità di gestori ed organi di controllo delle società
4

connotazione particolare, cui solo di sfuggita v’era stata occasione di far

partecipate da enti pubblici le sezioni unite di questa corte si siano già
ripetutamente espresse, sin da quando ha cominciato ad avere grande
diffusione il fenomeno dell’uso dello strumento societario privato da parte
delle pubbliche amministrazioni anche per la realizzazione di finalità
tipicamente pubblicistiche, e poi con crescente frequenza negli ultimi anni.
Sarebbe inutile ripercorrere qui le diverse tappe di questo iter
giurisprudenziale, al quale ovviamente anche la dottrina ha dato il suo

apporto critico, pur manifestando posizioni talora alquanto divaricate.
Converrà solo richiamare brevemente i punti salienti dell’orientamento da
ultimo consolidatosi, diffusamente esposti nella sentenza n. 26806 del
2009 (alla quale anche la giurisprudenza successiva si è allineata quasi
senza eccezioni: si vedano, ad esempio, Sez. un. 10299/13, 7374/13,
20940/11, 20941/11, 14957/11, 14655/11, 16286/10, 8429/10, e
519/10).
2.1. Premesso che l’art. 103, comma 2, Cost., impone, al di fuori delle
materie di contabilità pubblica, di trovare il fondamento della giurisdizione
della Corte dei conti in una specifica disposizione di legge (rinvenibile
all’origine nella previsione dell’art. 13 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214,
secondo cui la Corte dei conti giudica sulla responsabilità per danni
arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni,
con il successivo ampliamento dovuto all’ art. 1, comma 4, della legge 14
gennaio 1994, n. 20, che ha esteso il giudizio della stessa Corte dei conti
alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni
cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di
appartenenza), la richiamata pronuncia delle sezioni unite muove da un
duplice rilievo: anzitutto che nell’attuale assetto normativo il
perseguimento delle finalità istituzionali proprie della pubblica
amministrazione si realizza anche mediante attività disciplinate in tutto o
in parte dal diritto privato, onde il dato essenziale che radica la
giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall’evento dannoso
verificatosi a carico della stessa pubblica amministrazione e non più dal
quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta
produttiva del danno; in secondo luogo, che le società di capitali
eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il
perseguimento delle finalità loro proprie non cessano sol per questo di
5

essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non diversamente
disposto, riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile, come
confermato anche dal dettato dell’art. 2449 dello stesso codice (nella cui
relazione accompagnatoria è detto infatti espressamente che “è lo Stato
medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per
assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove
possibilità realizzatrici”).

giuridica, la società si configura come un soggetto di diritto pienamente
autonomo e distinto, sia rispetto a coloro che, di volta in volta, ne
impersonano gli organi sia rispetto ai soci, ed è titolare di un proprio
patrimonio, riferibile ad essa sola e non a chi ne detenga le azioni o le
quote di partecipazione. Pertanto, non solo risulta impossibile imputare
personalmente agli amministratori o ad altri soggetti investiti di cariche
sociali la titolarità del rapporto di servizio intercorrente tra l’ente pubblico
e la società cui sia stato affidato l’espletamento di compiti riguardanti un
pubblico servizio, ma soprattutto non può dirsi arrecato alla pubblica
amministrazione il danno che gli atti di mala gestio, posti in essere dagli
organi sociali, abbiano inferto al patrimonio della società.
La responsabilità nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei
terzi in genere che grava sugli organi sociali, assoggettati alle medesime
norme sia quando designati dai soci secondo le regole generali dettate in
proposito dal codice sia quando eventualmente designati dal socio pubblico
in forza dei particolari poteri a lui spettanti (art. 2449, cit., comma 2),
opera quindi sempre nei termini stabiliti dagli artt. 2392 c.c. e segg., non
diversamente che in qualsivoglia altra società privata.
Di conseguenza il danno cagionato dagli organi della società al
patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile può dar vita all’azione
sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali,
non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella
giurisdizione della Corte dei conti: perché non implica alcun danno
erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato
(appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel
soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono
unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari
6

In ossequio ad un principio comune a tutti gli enti dotati di personalità

conferimenti restano confusi ed assorbiti nel patrimonio sociale medesimo.
E l’esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell’impossibilità di
realizzare, altrimenti, un soddisfacente coordinamento sistematico tra
l’ipotizzata azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio
delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate
dal codice civile.
Risulta viceversa configurabile l’azione del procuratore contabile quando

componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente
pubblico che sia stato danneggiato dall’azione illegittima non di riflesso,
quale conseguenza indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale,
bensì direttamente. Si è allora innegabilmente in presenza di un cosiddetto
danno erariale, ossia di un danno provocato dall’agente al patrimonio
dell’ente pubblico, come ad esempio accade nel caso del danno
all’immagine della pubblica amministrazione, la cui riconducibilità entro i
parametri della giurisdizione del giudice contabile è confermata dal
disposto dell’art. 17, comma 30-ter, della legge 3 agosto 2009, n. 102
(quale risulta dopo le modifiche apportate dal c1.1. in pari data, n. 103,
convertito con ulteriori modificazioni nella legge 3 ottobre 2009, n. 141).
E’ in questo quadro di principi generali che deve essere perciò letta anche
la disposizione dell’art. 16-bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha
convertito il d.l. 31 dicembre 2007, n. 248), la quale ha introdotto per le
società quotate un’eccezione alla giurisdizione contabile da riferire,
appunto, alla sola area in cui detta giurisdizione risulterebbe altrimenti
applicabile.
L’azione del procuratore contabile appare poi anche configurabile nei
confronti (non già dell’amministratore della società partecipata, per il
danno arrecato al patrimonio sociale, bensì) di chi, quale rappresentante
dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso,
abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, così
pregiudicando il valore della partecipazione. Ciò che ben può accadere
quando il socio pubblico, in presenza di atti di mala gesti° imputabili agli
amministratori o agli organi di controllo della società partecipata, trascuri
ingiustificatamente di esercitare le azioni di responsabilità alle quali egli sia

7

sia volta a far valere la responsabilità dell’amministratore o del

direttamente legittimato, ove ne sia derivata una perdita di valore della
partecipazione.
3. Il collegio è persuaso che l’orientamento ora richiamato, ispirato
dall’esigenza di ricondurre la soluzione del problema di giurisdizione entro
un quadro coerente di principi giuridici che sono a fondamento del sistema
ordinamentale, debba essere in via generale tenuto fermo, anche alla luce
della normativa sopravvenuta. Normativa alla quale il carattere spesso

assumere una valenza sistematica, che vada oltre il dettato della singola
disposizione, onde parrebbe quanto mai azzardato il voler trarre da essa
argomenti di ordine generale, tali da incidere sui principi giuridici su cui è
basata la citata giurisprudenza di questa corte in materia, o anche solo
indici dell’esistenza di principi in tutto o in parte diversi da quelli. La
disciplina speciale dettata per le cosiddette società pubbliche – come
anche la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare – non ha tuttora
assunto le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sé stante, ma
continua ad apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale,
sia pure con ampio ambito di applicazione.
Ciò dicasi, in particolare, per l’inclusione delle società a partecipazione
pubblica nel novero delle amministrazioni pubbliche cui si estende l’opera
di supervisione, monitoraggio e coordinamento nell’approvvigionamento di
beni e servizi, demandata al commissario straordinario nominato dal
Governo a norma dell’art. 2 del d. I. 7 maggio 2010, n. 52 (convertito con
modificazioni dalla legge 6 luglio 2012, n. 94), inclusione ovviamente
ispirata dall’esigenza di evitare aggravamenti anche solo indiretti della
spesa pubblica, ma che non consente certo sol per questo di qualificare ad
ogni effetto come enti pubblici le società a partecipazione pubblica cui
detta norma si riferisce; e lo stesso dicasi per l’assoggettamento delle
società partecipate a vincoli economici derivanti dal c.d. patto di stabilità e
per i conseguenti maggiori controlli, da parte degli enti pubblici
partecipanti, a tal fine imposti dall’art.

147-quater del testo unico sugli

enti locali (articolo introdotto dal d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito
con modificazioni dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213).
Analogamente le disposizioni contenute nell’art. 4 del d.l. 6 luglio 2012,
n. 95 (convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), nel
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frammentario e l’esser frutto di esigenze contingenti impediscono di

dettare regole particolari in tema di nomina e di compensi spettanti ai
componenti dei consigli di amministrazione ed ai dipendenti delle società a
partecipazione pubblica, non si discostano dalla logica da cui è già ispirato
il citato art. 2449 c.c. – che s’è visto essere coerente con l’inquadramento
generale di tali enti, per tutto il resto, nel novero delle società azionarie
soggette alla disciplina privatistica – ed, anzi, il comma 13 del medesimo
art. 4 ribadisce espressamente che,

“per quanto non diversamente

partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società
di capitali”. Il che dimostra con evidenza come non possa essere in alcun
modo attribuita una valenza di ordine generale, che vada al di là della
specifica portata di tale disposizione eccezionale, neppure alla previsione
del precedente comma 12, per la quale gli amministratori ed i dirigenti
delle anzidette società, in caso di violazione dei vincoli di spesa stabiliti dai
commi precedenti,

“rispondono, a titolo di danno erariale, per le

retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contrati stipulati”.
Né in virtù di tali disposizioni, né di altre altrettanto frammentarie e
disorganiche che sono sparse nell’ordinamento e delle quali sarebbe qui
superfluo dare dettagliatamente conto, è dato insomma sottrarsi alla
drastica alternativa già precedentemente segnalata: alternativa per la
quale, fin quando non si arrivi a negare la distinzione stessa tra ente
pubblico partecipante e società di capitali partecipata, e quindi tra la
distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, la giurisdizione della Corte dei
conti in tema di risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di
controllo al patrimonio della società potrebbe fondarsi soltanto: o su una
previsione normativa che eccezionalmente lo stabilisca, quantunque si
tratti di danno arrecato ad un patrimonio facente capo non già ad un
soggetto pubblico bensì ad un ente di diritto privato – previsione certo
possibile, ma che allo stato non appare individuabile in termini generali
nell’ordinamento -; oppure sull’attribuzione alla stessa società partecipata
della qualifica di ente pubblico, onde il danno arrecato al suo patrimonio
potrebbe qualificarsi senz’altro come danno erariale. Soluzione,
quest’ultima, che appare però ben difficilmente predicabile, perché trova
un solido ostacolo nel disposto dell’art. 4 della legge 20 marzo 1975, n.
70, a tenore del quale occorre l’intervento del legislatore per l’istituzione di
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stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque (alle società a

un ente pubblico; e pare difficile dubitare che siffatta norma esprima un
principio di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la rilevanza
degli effetti giuridici potenzialmente implicati nel riconoscimento della
natura pubblica di un ente. Di modo che, se in via di principio può
ammettersi che un siffatto riconoscimento sia desumibile anche per
implicito da una o più disposizioni di legge, occorre nondimeno che la
volontà del legislatore in tal senso risulti da quelle disposizioni in modo

pubblica, lungi dal ravvisarsi disposizioni normative che
inequivocabilmente attribuiscano loro la qualifica di ente pubblico, s’è già
visto come il legislatore si sia preoccupato a più riprese di ribadirne, in via
generale e fatta salva l’applicazione di singole regole speciali,
l’assoggettamento alla disciplina dettata dal codice civile per le società di
diritto privato, con le già richiamate conseguenze in punto di riparto di
giurisdizione (solo in presenza di società di fonte legale, regolate da una
disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica, quale ad esempio la
Rai, è parso necessario pervenire a conclusioni diverse: si vedano Sez. un.
22 dicembre 2009, n. 27092).
4. Nelle considerazioni ora svolte assume un ruolo centrale, come s’è
già sottolineato, la distinzione tra la società di capitali (soggetto di diritto
privato) ed i propri soci (ancorché eventualmente pubblici). Distinzione
che – è appena il caso di ricordarlo – in via di principio non vien meno
neppure nell’eventualità in cui la società sia unipersonale ed il capitale
sociale appartenga quindi ad un unico socio, in base alle regole di matrice
comunitaria introdotte nel nostro ordinamento prima per le sole società a
responsabilità limitata e poi anche per le società azionarie.
E’ proprio partendo da questo profilo che si manifesta, però, la
necessità di un’ulteriore riflessione quando ci si trovi in presenza di quel
particolare fenomeno giuridico, al quale si è già dovuto far cenno all’inizio
di questa sentenza, che ha trovato ampia diffusione negli ultimi decenni e
che va sotto il nome di in house providing.
4.1. La direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno,
lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative della
prestazione dei servizi d’interesse economico generale (art. 1, par. 6). E’
perciò certamente consentito che, in conformità ai principi generali del
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assolutamente inequivoco. Ma, quanto alle società a partecipazione

diritto comunitario, gli enti pubblici scelgano se espletare tali servizi
direttamente o tramite terzi e che, in quest’ultimo caso, individuino
diverse possibili forme di esternalizzazione, ivi compreso il l’affidamento a
società partecipate dall’ente pubblico medesimo. In tale ambito, peraltro,
si possono dare ipotesi ben distinte: l’affidamento a società totalmente
estranee alla pubblica amministrazione, l’affidamento a società con
azionariato misto, in parte pubblico ed in parte privato, ed infine

Giustizia europea (sin dalla nota sentenza Teckal del 18 novembre 1999,
n. 107/98) ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di
evidenza pubblica, muovendo dal presupposto che non sussistono
esigenze di tutela della concorrenza quando la società affidataria sia
interamente partecipata dall’ente pubblico, eserciti in favore del medesimo
la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo
in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente
sui propri stessi uffici. Siffatte indicazioni sono state pienamente recepite,
in ambito nazionale, sia dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (si
vedano tra le tante, a mero titolo d’esempio, le pronunce n. 7636/04,
962/06, 1513/07, 2765/09, 5808/09, 7092/10 ed 1447/11), sia da ultimo
dalla Corte dei conti (si veda la sentenza n. 546/13). Anche queste stesse
sezioni unite hanno avuto occasione, sia pur fuggevolmente, di farvi
recentemente riferimento (si vedano le ordinanze del 5 aprile 2013, n.
8352, e del 3 maggio 2013, n. 10299) se ne è occupata più volte, infine,
la Corte costituzionale (da ultimo nella sentenza 20 marzo 2013, n. 46,
sulla quale si dovrà poi brevemente tornare).
Pur trattandosi all’origine di una figura di stampo eminentemente
giurisprudenziale, la società

in house

non ha tardato ad acquisire

cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in
molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle
caratteristiche richieste dalla citata giurisprudenza europea, altre volte con
più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perché tale figura ricorra.
Particolare risalto assume, in questo contesto, il disposto del quarto
comma dell’art. 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali (d. Igs. n. 267 del 2000), come riformulato dall’art. 14 del d.l. 30
settembre 2003, n. 269 (convertito con modificazioni dalla legge 24
11

l’affidamento a società c.d. in house. Solo in quest’ultimo caso la Corte di

novembre 2003, n. 326), che, in presenza di determinate condizioni,
consente espressamente l’affidamento di servizi pubblici, anziché ad
imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a
società di capitali costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente
da soci pubblici, purché esse realizzino la parte più importante della
propria attività con l’ente o con gli enti che le controllano e purché questi
ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui

E’ dunque possibile considerare ormai ben delineati nell’ordinamento i
connotati qualificanti della società

in house, costituita per finalità di

gestione di pubblici servizi e definita dai tre requisiti già più volte ricordati:
la natura esclusivamente pubblica dei soci, l’esercizio dell’attività in
prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo
corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. Ma
s’intende che, per poter parlare di società in house, è necessario che detti
requisiti sussistano tutti contemporaneamente e che tutti trovino il loro
fondamento in precise e non derogabili disposizioni dello statuto sociale.
4.2. Poche brevi osservazioni paiono ancora opportune per meglio
puntualizzare le tre caratteristiche salienti della società in house.
In ordine alla prima di esse giova ricordare come già la giurisprudenza
europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad
una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (si vedano le
sentenze della Corte di giustizia 10 settembre 2009, n. 573/07, Sea, e 13
novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso
si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si
vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/10 ed 8970/09). E’ quasi
superfluo aggiungere che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto
inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle
partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.
Il requisito della prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente
o degli enti partecipanti alla società, pur presentando innegabilmente un
qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria
non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale
concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi. Ma, come
puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439 (anche sulla scorta
12

propri servizi.

della giurisprudenza comunitaria: si veda, in particolare, la sentenza della
Corte di Giustizia 11 maggio 2006, n. 340/04, Carbotermo), non si tratta
di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguardo
esclusivo al fatturato ed alle risorse economiche impiegate, dovendosi
invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo
in cui l’attività accessoria eventualmente si ponga. In definitiva – e
segnatamente per quel che interessa ciò che si andrà a dire in ordine alla

che soprattutto importa è che l’eventuale attività accessoria, oltre ad
essere marginale, rivesta una valenza meramente strumentale rispetto
alla prestazione del servizio d’interesse economico generale svolto dalla
società in via principale.
Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, quel che
rileva è che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di
dettare le linee strategiche e le scelte operative della società

in house, i

cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera
e propria subordinazione gerarchica. L’espressione “controllo” non allude
perciò, in questo caso, all’influenza dominante che il titolare della
partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di
esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli
organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente
esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non
riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio
(fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e
sino a punto che agli organi della società non resta affidata nessuna
autonoma rilevante autonomia gestionale (si vedano, in tal senso, le
chiare indicazioni di Cons. Stato, Ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1, e della
conforme giurisprudenza amministrativa che ne è seguita).
4.3. Le caratteristiche ora sommariamente descritte – e soprattutto la
terza – bastano a rendere evidente l’anomalia del fenomeno dell’in house
nel panorama del diritto societario.
E’ già anomalia non piccola il fatto che si abbia qui a che fare con
società di capitali non destinate (se non in via del tutto marginale e
strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriali a fine di lucro, così
da dover operare necessariamente al di fuori del mercato. Forse entro
13

reale natura delle società in house ai fini del riparto di giurisdizione – quel

certi limiti una siffatta anomalia la si potrebbe ancora giustificare, in un
contesto storico nel quale la causa lucrativa delle società di capitali è
andata via via sbiadendosi in favore di una concezione che vede in quelle
società dei modelli organizzativi utilizzabili per scopi diversi. Ma ciò che
davvero è difficile conciliare con la configurazione della società di capitali,
intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa
agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un

dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della
partecipazione sociale.
Si potrebbe obiettare che il fenomeno della eterodirezione di società non
è certo sconosciuto al diritto societario, e che anzi, dopo la riforma attuata
col d. Igs. n. 6 del 2003, esso ha trovato esplicito riconoscimento negli
artt. 2497 e segg. c.c. Ma non è la stessa cosa. Nei gruppi societari il
potere di direzione e coordinamento spettante all’ente capogruppo attiene
all’individuazione delle linee strategiche dell’attività d’impresa senza mai
annullare del tutto l’autonomia gestionale della società controllata. Gli
amministratori di quest’ultima sono perciò tenuti ad adeguarsi alle
direttive loro impartite, ma conservano nondimeno una propria sfera di
autonomia decisionale (giacché, pur con gli adattamenti resi necessari
dall’esser parte di un gruppo imprenditoriale più vasto, continua ad
applicarsi alla singola società il disposto dell’art. 2380-bis, comma 1, c.c.)
né, soprattutto, essi possono prescindere dal valutare se ed in qual misura
quelle direttive eventualmente comprimano in modo indebito l’interesse
della stessa società controllata: interesse di cui sono garanti ed in virtù del
quale hanno il dovere, se del caso, di discostarsi da direttive illegittime. La
disciplina della direzione e del coordinamento dettata dai citati artt. 2497 e
segg., insomma, è volta a coniugare l’unitarietà imprenditoriale della
grande impresa con la perdurante autonomia giuridica delle singole società
agglomerate nel gruppo, che restano comunque entità giuridiche e centri
d’interesse distinti l’una dalle altre. Altrettanto non sembra potersi dire
invece per la società in house, sia per la già ricordata subordinazione dei
suoi gestori all’ente pubblico partecipante, nel quadro di un rapporto
gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di
eventuale motivato dissenso, sia per l’impossibilità stessa d’individuare
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potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento

nella società un centro d’interessi davvero distinto rispetto all’ente
pubblico che la ha costituita e per il quale essa opera.
Allo stesso modo, ove si abbia a che fare con una società a
responsabilità limitata, non sembra possibile ricondurre sic et simpliciter il
“controllo analogo”, caratteristico del fenomeno dell’in house, ad uno dei
“particolari diritti riguardanti l’amministrazione” che l’atto costitutivo può
riservare ad un socio (art. 2468, comma 3, c.c.): giacché neppure siffatti

amministratore non socio, ad un rapporto di natura gerarchica da cui
quest’ultimo sia vincolato, restando comunque intatto il suo primario
dovere di perseguire l’interesse sociale, che conserva pur sempre un
qualche grado di autonomia rispetto a quello personale del socio.
La società

in house,

come in qualche modo già la sua stessa

denominazione denuncia, non pare invece in grado di collocarsi come
un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di
una propria articolazione interna. E’ stato osservato, infatti, che essa non
è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che
l’affidamento pubblico mediante

in house contract neppure consente

veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte
cost. n. 46/13, cit.); di talché “l’ente in house non può ritenersi terzo
rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno
dei servizi propri dell’amministrazione stessa” (così Cons. Stato, Ad. plen.,
n. 1/08, cit.). Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è
dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house)
non si realizza più in termini di alterità soggettiva.
L’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove
manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma
organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una società di
capitali, intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un
autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse
suo proprio, non è più possibile parlare.
5. Alla luce di quanto fin qui detto si comprende bene come le
conclusioni cui questa corte è pervenuta nell’individuare i limiti della
giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità
degli organi di società a partecipazione pubblica non possano valere, tal
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diritti speciali di amministrazione sono equiparabili, in presenza di un

quali le si è esposte nei paragrafi 2 e 3 della presente sentenza, anche
quando si tratti di società in house. Non possono valere perché – ciò sia
detto quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione – queste
ultime hanno della società solo la forma esteriore ma, come s’è visto,
costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da
cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa
autonomi.

vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure
possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli
amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti
di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale
instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti ad una struttura
corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa pubblica
amministrazione, è da ritenersi che essi siano personalmente a questa
legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che
accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente
pubblico. L’analogia tra le due situazioni, che si è visto essere una delle
caratteristiche salienti del fenomeno dell’in house, non giustificherebbe
una conclusione diversa nei due casi, né quindi un diverso trattamento in
punto di responsabilità e di relativa giurisdizione.
D’altro canto, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità
tra l’ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo,
è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente
e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale,
ma non di distinta titolarità. Dal che discende che, in questo caso, il danno
eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli
amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza
imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato,
ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale,
che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla
relativa azione di responsabilità.
6. Il ricorso deve quindi esser accolto, in base al principio di diritto qui
di seguito enunciato: “La Corte dei conti ha giurisdizione sull’azione di
responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta corte
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Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a

quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi
sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house,
per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per
l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser
soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore
degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a
forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri

La sentenza impugnata va quindi cassata, con rinvio della causa alla
Corte dei conti per un nuovo giudizio.

P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso e cassa l’impugnata sentenza, dichiarando
che la Corte dei conti ha giurisdizione sulla presente causa, che rinvia alla
medesima Corte dei conti.
Così deciso, in Roma, l’8 ott9lbre 2013.

uffici”.

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