Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26266 del 20/12/2016


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Cassazione civile, sez. un., 20/12/2016, (ud. 22/03/2016, dep.20/12/2016),  n. 26266

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente di Sezione –

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente di Sezione –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12591/2010 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO

90, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI VACCARO, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONINO MINACAPILLI, per delega a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – UFFICIO LOCALE DI (OMISSIS), AGENZIA DELLE

ENTRATE DI (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 122/2009 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di PALERMO, depositata il 06/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/03/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO GRECO;

udito l’Avvocato Antonino MINACAPILLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.M. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, uno dei quali attinente alla giurisdizione, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità dell’atto di irrogazione di sanzione emesso a suo carico dall’Agenzia delle entrate per l’anno 2003 sulla base del verbale di ispezione dell’INPS, nel corso della quale era stata rilevata la presenza di due lavoratori dipendenti le cui posizioni non erano regolarizzate.

La ditta era risultata sprovvista di libro paga e matricola e del registro delle presenze; in particolare, i due lavoratori irregolari non erano stati denunziati agli enti previdenziali e non risultavano assunti.

L’Agenzia delle entrate non ha svolto attività nella presente sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, denunciando la nullità della sentenza per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., il ricorrente si duole che il giudice d’appello non abbia di fatto permesso di esercitare il diritto di difesa, soprattutto a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 144 del 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 22 febbraio 2002, n. 12, art. 3, comma 3, convertito nella L. 23 aprile 2002, n. 73, nella parte in cui non ammetteva la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare aveva avuto inizio successivamente al 10 gennaio dell’anno di verifica: “alla luce di tale sentenza i giudici tributari avrebbero dovuto e potuto esercitare i poteri di accesso, di richiesta di dati previsti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, ed acquisire dall’INPS tutta la documentazione attestante l’insussistenza delle contestazioni violazioni formali e la illegittimità delle sanzioni irrogate”.

Il motivo è inammissibile in quanto, muovendo da un’erronea interpretazione della portata della sentenza della Corte costituzionale n. 144 del 2005, non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Questa Corte ha infatti chiarito, con riguardo alle sanzioni amministrative per l’impiego di lavoratori non regolarmente denunciati, che si presume, in difetto di prova contraria – ammessa a seguito della sentenza n. 144 del 2005 della Corte Costituzionale, e il cui onere è a carico del datore di lavoro -, che il rapporto di lavoro decorra dal primo gennaio dell’anno dell’accertamento e non dal giorno di quest’ultimo (Cass. sez. un. 3 novembre 2009, n. 23206).

Si è in particolare precisato che “la sentenza della Corte costituzionale del 12 aprile 2005, n. 144, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, art. 3, comma 3, (conv. nella L. 23 aprile 2002, n. 73) nella parte in cui non consente al datore di lavoro di provare che il rapporto di lavoro irregolare abbia avuto inizio successivamente al 1 gennaio dell’anno in cui è stata constatata la violazione, non ha inciso sul divieto di ammissione della prova testimoniale nel processo tributario posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, ma il datore di lavoro e il lavoratore hanno la facoltà di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, che, quali elementi indiziari, possono concorrere a formare il convincimento del giudice” (Cass. n. 8987 del 2013).

Nel caso in esame il giudice d’appello ha correttamente osservato che la sentenza del giudice delle leggi ha modificato la portata della presunzione legale della norma, “dando al contribuente il diritto di dimostrare, con dati ed elementi concreti, che il rapporto di lavoro ha avuto inizio in una data successiva a quella di inizio dell’anno la parte ricorrente non ha fornito in alcun modo ed in alcuna sede la prova della data di assunzione dei lavoratori nè concrete circostanze di fatto idonee a dimostrare l’effettivo periodo di lavoro irregolare”.

Con il secondo motivo, formulato in subordine, denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illegittimità della sentenza impugnata, “stante la inesistente, apparente e comunque insufficiente motivazione”, “non essendosi pronunciata sugli articolati motivi di appello proposti dalla ditta M.M.”.

Il motivo è inammissibile, in quanto, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, “l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, dello stesso codice, che consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, (Cass. n. 22759 del 2014, n. 27387 del 2005, n. 12475 del 2004).

Con il terzo motivo, formulato in estremo subordine, denuncia l’illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 1, stante il sopravvenuto difetto di giurisdizione delle Commissioni tributarie in materia di lavoro sommerso, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 130 del 2008, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 1, nella parte in cui devolve alla giurisdizione tributaria le controversie relative all’irrogazione di sanzioni in materia estranea alla disciplina dei rapporti tributari.

Il motivo è inammissibile, essendosi formato il giudicato sulla spettanza della giurisdizione al giudice tributario, e non essendo perciò impugnabile sul punto la sentenza d’appello.

Questa Corte ha infatti chiarito come “l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 c.p.c., (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito” (Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883).

Nella specie il giudice d’appello ha rilevato: “preliminarmente questa Commissione non prende in considerazione la richiesta di difetto di giurisdizione, in quanto l’Ufficio nel costituirsi in giudizio, non ha prodotto appello incidentale”.

Secondo l’orientamento di questa Corte, infatti, “poichè ogni statuizione di merito comporta una pronuncia implicita sulla giurisdizione, il giudice dell’impugnazione non può riesaminare d’ufficio quest’ultima, in assenza di specifico gravame sul punto, nè le parti possono limitarsi a sollecitare in tal senso il giudice, rimanendo irrilevante, pertanto, che nella sentenza d’appello la questione di giurisdizione sia stata egualmente trattata” (Cass., sez. un., 22 aprile 2013, n. 9693, e 18 dicembre 2008, n. 29523).

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese, considerato il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

PQM

Ta Corte di cassazione, a sezioni unite, dichiara il ricorso inammissibile.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2016

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