Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26259 del 16/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 16/10/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 16/10/2019), n.26259

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26458-2017 proposto da:

D.R.R.B., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO LUCIO

APULEIO 11, presso lo studio dell’avvocato FABIO LOMBARDI,

rappresentato e difeso da se medesimo e dall’avvocato GIAN PIERO

AGNELLI;

– ricorrente –

contro

D.L., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 12,

presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA BENVENUTI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato RICCARDO DELLACASA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2255/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 25/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/05/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSETTI

MARCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2013 D.R.R.B., di professione avvocato, convenne dinanzi al Tribunale di Monza il suo collega D.L., esponendo che:

-) nell’esercizio della propria attività professionale, si avvalse della collaborazione dell’avv. D.L. quale procuratore domiciliatario;

-) concluso il giudizio in relazione al quale si era avvalso della domiciliazione presso l’avv. D.L., in data 8.11.2010 una sua collaboratrice domandò all’avv. D.L. la trasmissione della ricevuta di pagamento della tassa di registro relativa al suddetto giudizio;

-) per tutta risposta, l’avv. D.L. inviò allo studio dell’odierno ricorrente un telefax – ricevuto da una collega di studio del destinatario – nel quale si affermava che l’avvocato D.R. “avrebbe dovuto scusarsi per il suo comportamento deontologicamente discutibile”.

Ritenendo tale messaggio lesivo del proprio onore e della propria reputazione, l’attore concluse chiedendo la condanna del convenuto al risarcimento del danno patito in conseguenza dei fatti sopra descritti.

2. Con sentenza 14.7.2016 n. 2079 il Tribunale di Monza rigettò la domanda, ritenendo che la frase sopra ricordata non avesse contenuto offensivo, costituendo una “opinione espressa in modo ipotetico”.

La sentenza venne appellata da D.R.R.B..

La Corte d’appello di Milano con sentenza 25.5.2017 n. 2255 rigettò il gravame.

La Corte d’appello condivise le motivazioni del Tribunale, e soggiunse che lo scritto reputato offensivo dall’attore era in realtà solo una risposta polemica, data nel contesto di una controversia insorta tra i due professionisti.

3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da

D.R.R.B. con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Ha resistito D.L. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia la “nullità della sentenza per l’omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio”.

Nell’illustrazione del motivo si formula una censura così riassumibile:

-) la Corte d’appello ha ritenuto che tra l’odierno ricorrente e l’avvocato D.L. fosse insorta una controversia poichè il primo aveva “unilateralmente ridotto la parcella del collega domiciliatario”;

-) da questa circostanza di fatto, secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe tratto la conclusione che l’avvocato D.L., nell’inviare all’odierno ricorrente il fax sopra ricordato, avesse agito senza colpa, in quanto quella risposta era giustificata dalle circostanze;

-) tuttavia non era affatto vera la circostanza che l’odierno ricorrente avesse unilateralmente ridotto la parcella inviatagli dal collega.

1.2. Il motivo è inammissibile per due indipendenti ragioni.

In primo luogo il motivo è inammissibile perchè, essendovi state due decisioni conformi nei gradi di merito, non è consentito in questa sede invocare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, giusta la previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5.

Tale norma, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134), giusta la previsione del D.L. citato, art. 54, comma 2, si applica ai ricorsi avverso sentenze pronunciate all’esito di giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all’11 settembre 2012 (così già Sez. 5 -, Ordinanza n. 11439 del 11/05/2018, Rv. 648075 – 01): e nel caso di specie il giudizio di appello è iniziato nel 2016, dunque molto dopo l’introduzione della novella codicistica suddetta.

1.3. In secondo luogo il motivo è inammissibile per totale estraneità alla ratio decidendi su cui si fonda la sentenza impugnata.

La Corte d’appello, infatti, non ha mai affermato quel che il ricorrente vorrebbe farle dire: ovvero che lo scritto inviato dall’avvocato D.L. all’avvocato D.R.R.B. aveva contenuto diffamatorio, ma fu redatto senza colpa.

La Corte d’appello ha, invece, affermato un principio ben diverso: e cioè che quello scritto non aveva contenuto nè ingiurioso, nè diffamatorio.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 88,89 e 92 c.p.c.

Deduce che l’avvocato D.L., in primo grado, aveva inserito nei propri scritti defensionali varie affermazioni calunniose, in particolare affermando di “non ricordare di aver mai inviato il telefax oggetto di causa, il quale ben potrebbe essere stato artificiosamente predisposto dallo stesso attore”. Aggiunge di avere chiesto alla Corte d’appello di ordinare la cancellazione di tali sconvenienti espressioni, nonchè il rimborso delle spese causategli dalla controparte attraverso la violazione dell’art. 88 c.p.c., giusta la previsione di cui all’art. 92 c.p.c., e che la Corte d’appello avrebbe trascurato di provvedere su tale richiesta.

Afferma infine il ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe erronea in punto di diritto nella parte in cui ha ritenuto che “la sentenza penale del giudice di pace di Monza non costituirebbe giudicato nella sede civile poichè l’azione di risarcimento sarebbe stata proposta autonomamente dall’avv. D.R.”.

2.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di omessa pronuncia il motivo è infondato, avendo la Corte d’appello escluso che le espressioni usate dall’avv. D.L. nei propri scritti difensivi avessero natura offensiva.

2.3. Nella parte in cui censura nel merito la suddetta valutazione della Corte d’appello il motivo è inammissibile, alla luce del principio secondo cui “l’apprezzamento del giudice di merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonchè l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime, a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano esercizio di potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità” (Sez. 2 -, Ordinanza n. 14364 del 05/06/2018, Rv. 648842 – 02).

2.4. Infine, nella parte in cui discorre di “giudicato”, che si sarebbe formato sulla sentenza pronunciata in sede penale dal Giudice di pace di Monza, il motivo è inammissibile per mancanza di illustrazione. E’ lo stesso ricorrente, infatti, a dedurre nel riassunto dei fatti di causa che in sede penale D.L. venne assolto, sicchè non è per questa Corte possibile comprendere qual frutto egli vorrebbe trarre in questa sede dalla sentenza penale.

3. Le spese.

3.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna D.R.R.B. alla rifusione in favore di D.L. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 3.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55 ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di D.R.R.B. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2019

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