Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26251 del 22/11/2013


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 26251 Anno 2013
Presidente: TRIOLA ROBERTO MICHELE
Relatore: CARRATO ALDO

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

deposito e pubblicazione
della sentenza impugnata —
questione incidentale di
legittimità costituzionale

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 28514/07) proposto da:
PASSERELLA ANIELLO (C.F.: PSS NLL 47A05 H2430), rappresentato e difeso, in forza
di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Giuseppe Viparelli e Carlo Arrotta ed
elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 19;
– ricorrente –

contro
MAJELLO ANNA, MAJELLO GABRIELLA e CONDOMINIO VIA MACEDONIO MELLONI
N. 11 – NAPOLI, in persona dell’amministratore pro-tempore;

– intimati-

Avverso la sentenza n. 3137/’06 della Corte di appello di Napoli, depositata il 7 novembre
2006 (e non notificata);
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 3 ottobre 2013 dal

Consigliere relatore Dott. Vincenzo Mazzacane;

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Data pubblicazione: 22/11/2013

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Maurizio Velardi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO E DIRITTO
1. Con ricorso depositato il 19 novembre 1989 nella cancelleria dell’allora Pretura di Napoli,
la sig.ra Vitolo Emilia, premesso di essere proprietaria di un terraneo sito in Napoli, via

Passerella Aniello, nonché delle due unità ad esso soprastanti, pure locate a terzi,
chiedeva l’emissione di un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. al fine di conseguire
l’ordine di sgombero dei locali a causa delle infiltrazioni in atto nei suddetti immobili.
Ottenuto il provvedimento cautelare pretorile, la Vitolo, con atto di citazione notificato il 31
ottobre 1990, introduceva il conseguente giudizio di merito nei confronti del Passerella
Aniello dinanzi al Tribunale di Napoli, onde sentir confermato il suddetto provvedimento e
conseguire la condanna dello stesso convenuto al risarcimento dei danni. Costituendosi in
giudizio il Passerella chiedeva il rigetto delle domande attrici e, in via riconvenzionale,
invocava la condanna della Vitolo al risarcimento dei danni per mancato uso della cosa
locata, instando, simultaneamente, per la chiamata in causa del Condominio di via Melloni,
n. 11 di Napoli, nei cui confronti si rendeva necessario estendere il contraddittorio.
Intervenivano, poi, volontariamente in giudizio Majello Anna e Majello Gabriella, a seguito
del decesso della dante causa Vitolo Emilia, mentre il predetto Condominio, evocato in
giudizio, rimaneva contumace.
La Sezione stralcio dell’adito Tribunale di Napoli, con sentenza n. 8727 del 2003,
convalidava il provvedimento d’urgenza e rigettava le altre domande.
Proposto appello da parte del Passerella, al quale resistevano Majello Anna e Majello
Gabriella (che formulavano, a loro volta, appello incidentale), nella contumacia del predetto
Condominio, la Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 3137 del 2006 (depositata il 7

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Macedonio Melloni n. 11, condotto in locazione ad uso rivendita di vini e cibi cotti dal sig.

novembre 2006), dichiarava l’inammissibilità del gravame principale e la conseguente
inefficacia di quello incidentale, compensando tra le parti costituite le spese del grado.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte partenopea ravvisava l’inammissibilità
dell’appello del Passerella sul presupposto che lo stesso (depositato il 13 luglio 2004) fosse
stato proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., considerando che esso si sarebbe

in calce alla sentenza impugnata — l’avvenuto deposito della sentenza stessa (al quale
ricondurre la giuridica esistenza del provvedimento ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p.c.),
e non dalla data del 28 luglio 2003, alla quale di riferiva l’annotazione successivamente
apposta dallo stesso cancelliere relativa all’attestazione dell’intervenuta pubblicazione della
sentenza medesima.
2. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto rituale ricorso per cassazione il
Passerella riferito a due motivi, in ordine al quale nessuna delle parti intimate ha svolto
attività difensiva in questa sede. All’esito della camera di consiglio e della relativa votazione
sulla soluzione decisoria da adottare, il Presidente del collegio ha affidato la stesura della
motivazione della presente ordinanza al Cons. Carrato.
3. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la violazione e l’errata applicazione dell’art.
327 c.p.c. in riferimento all’art. 133 c.p.c., ha assunto che la Corte territoriale aveva
illegittimamente dichiarato l’appello inammissibile in quanto tardivo avendo fatto decorrere
il termine annuale (maggiorato di quello imputabile alla sospensione feriale) per
l’impugnazione, anziché dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado del 28
luglio 2003, coincidente con quella annotata nel registro cronologico ed attestata dalla
cancelleria nell’avviso di deposito notificato ai procuratori, da quella antecedente dell’8
aprile 2003, in base ad una generica attestazione di deposito apposta in calce alla
sentenza stessa. A sostegno della formulata censura il Passerella ha inteso affermare che
alla prima attestazione non si sarebbe potuta riconoscere alcuna valenza certificativa
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dovuto far decorrere dalla data dell’8 aprile 2003, in cui era stata annotato dal cancelliere —

ufficiale, sia perché appariva del tutto incerta l’attribuzione al cancelliere, sia perché la
relativa stampigliatura non consentiva di determinare con certezza se l’atto depositato a
quella data rispondesse a tutti i requisiti di esistenza della sentenza. A tal riguardo lo
stesso ha ulteriormente evidenziato che, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., mentre il deposito
della sentenza costituisce elemento essenziale per l’esistenza della stessa, le altre

l’annotazione nel registro cronologico e la comunicazione alle parti costituite), pur essendo
estrinseche all’atto e, quindi, non incidenti sull’esistenza e sulla validità dello stesso,
concorrono, tuttavia, al raggiungimento del complessivo obiettivo a cui è finalizzata la
norma, ossia a rendere la decisione pubblica ed accessibile alle parti ed a chiunque vi
abbia interesse.
A corredo di tale doglianza il ricorrente ha ritualmente prospettato — ai sensi dell’art. 366 bis
c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella specie, risultando la sentenza impugnata
pubblicata il 7 novembre 2006) — il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se è vero che,
quanto meno ai fini della decorrenza de/termine per l’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c.,
la data di pubblicazione della sentenza deve coincidere con quella indicata dalla cancelleria
nell’avviso di deposito comunicato alle parti, ai sensi del secondo comma dell’art. 133
c.p.c., specie se corrispondente a quella formalmente annotata come <> essa
costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente
nell’ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un’interpretazione del
giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomffilachia, senza forti
ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le
quali l’esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza,
anche alla luce dell’ad. 360 bis, primo comma, n. 1, c.p.c. (nella specie, peraltro, non
applicabile “ratione temporis9, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse
interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di
applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione”.
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per sollevare la conferente questione incidentale di costituzionalità, che si prospetta — nel

Pertanto, alla luce di questa impostazione ermeneutica sulla necessaria effettività del
“valore del precedente” costituito dal principio di diritto enunciato dalla Sezioni unite in
materia processuale orientato a garantire stabilità agli indirizzi giurisprudenziali di legittimità
(soprattutto se affermato da poco per risolvere un contrasto perpetuatosi per lungo tempo,
come verificatosi nell’ipotesi in questione, senza trascurare la circostanza ulteriore che già

I, 29 ottobre 2012, n. 18569 — rv. 624046, e Cass., sez. III, 4 aprile 2013, n. 8216 — rv.
625830), si ritiene inconferente reinvestire nuovamente le Sezioni unite — a così breve
distanza temporale — dell’esame della questione processuale in discorso, per risollecitare
una pronuncia conducente all’affermazione di un principio di diritto di contenuto opposto
rispetto a quello enunciato a risoluzione del pregresso contrasto.
Solo incidentalmente si evidenzia, peraltro, che la più recente dottrina, la quale ha avuto
modo di occuparsi della portata innovativa della suddetta sentenza n. 13620 del 2012, ha
rilevato, in senso critico, che il principio affermato consente che il “vincolo” solo
processuale delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite si estenda alla
soluzione nel merito delle singole questioni prospettate (assumendo, perciò, connotati
sostanziali), in modo tale da vincolare (o, comunque, condizionare in modo determinante)
la giurisprudenza di legittimità con riferimento a qualsiasi fonte normativa. Si è, inoltre,
incisivamente osservato che il precedente delle Sezioni unite — il quale costituisce il
presupposto per l’applicazione dell’art. 374, comma 3, c.p.c. — si verrebbe a rivelare,
secondo la lettura proposta con la sentenza delle S.U. appena ricordata, come il limite di
applicazione della norma stessa, comportando la sua inoperatività (ovvero impedendosi, in
concreto, alla Sezione semplice di rimettere la questione alle Sezioni unite) ogni qualvolta
sia intervenuta (soprattutto in tempi recenti ovvero prossimi rispetto alla riproposizione della
questione) una precedente pronuncia risolutiva della questione oggetto di pregresso
contrasto da parte delle medesime Sezioni unite.
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singole sezioni hanno inteso successivamente recepire detto principio di diritto: Cass., sez.

Tutto ciò, naturalmente, non impedisce al collegio — proprio valorizzando la peculiare forza
del “diritto vivente” riconducibile alle pronunce delle Sezioni unite — di verificare la
compatibilità dell’approccio ermeneutico sotteso a dette pronunce con i principi
costituzionali in concreto involti dalla questione risolta (con la definizione del relativo
contrasto presente all’interno delle sezioni semplici). A tal proposito si rileva che —

una questione sollevata dinanzi alla Corte costituzionale in via incidentale non può ritenersi
“di mera interpretazione” — come tale inammissibile — ma “di legittimità costituzionale”,
quando il giudice “a quo”, pur non condividendo l’interpretazione di una norma
consolidatasi nella giurisprudenza della Corte di cassazione, non ne chiede una revisione
sul piano ermeneutico, ma, assumendo quella interpretazione come “diritto vivente”, ne
invoca una verifica sul piano della costituzionalità (v., ad es., Corte cost., sent. n. 110 del
1995; Corte cost., sent. n. 188 del 1995; Corte cost., sent. n. 480 del 2005). In altri termini,
la giurisprudenza del Giudice delle leggi ha univocamente ritenuto ammissibili questioni di
legittimità costituzionale aventi ad oggetto una o più norme nella relativa interpretazione
consolidatasi quale diritto vivente, poiché, avendo il giudice remittente la facoltà di
uniformarsi o meno allo stesso diritto vivente, nella suddetta ipotesi non può essergli
addebitato di aver richiesto un non consentito avallo ad una propria interpretazione in
contrasto con l’esegesi delle norme denunciate consolidatasi in termini di diritto vivente,
poiché proprio tale diritto vivente rappresenta l’oggetto dei possibili dubbi di costituzionalità
(cfr., da ultimo, Corte cost., ord. n. 253 del 2012, nonché, sulla facoltà del giudice
remittente di uniformarsi o meno al diritto vivente, Corte cost., sentenze nn. 338 del 2011 e
117 del 2012).
7. Ciò posto, ritiene il collegio che sussistono le condizioni per sollevare la questione
incidentale di legittimità costituzionale in relazione al richiamato principio di diritto,
costituente “diritto vivente”, affermato dalle Sezioni unite con la più volte ricordata sentenza
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nell’ambito della stessa giurisprudenza costituzionale — è stato reiteratamente chiarito che

n. 13794 del 2012, poiché la interpretazione da quest’ultima privilegiata appare
contrastante con i parametri normativi di cui agli artt. 3, comma 2, e 24, commi primo e
secondo, della Costituzione.
La questione — in tal senso inquadrata — non è manifestamente infondata perché
l’interpretazione fornita dalle Sezioni unite di questa Corte, con la richiamata sentenza, per

cui le attività di mero deposito della sentenza e quella di effettiva pubblicazione della stessa
risultano (come dovrebbe accadere di regola) contestuali con quella in cui le due attività si
scindono ed hanno luogo in due momenti temporali diversi, spesso anche distanti
apprezzabilmente (tenendosi conto, peraltro, che il novellato art. 327, comma 1°, c.p.c. —
ancorché non applicabile nella specie “ratione temporis” — ha addirittura ridotto il termine
c.d. “lungo” per la proposizione dell’impugnazione ordinaria a sei mesi a decorrere “dalla
pubblicazione della sentenza”).
Invero, optandosi per l’applicazione del principio di diritto affermato con la sentenza n.
13794 del 2012, si assegnerebbe preferenza ad un’attività processuale (quella di mero
deposito della sentenza con l’apposizione di un visto del cancellerie del tipo “depositata in
data….”) che — in modo irragionevole ed in virtù di un approccio ermeneutico “in malam
partem” — risulterebbe lesivo della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti
costituite in giudizio (in relazione alla portata precettiva dell’art. 24, commi 1° e 2°, Cost.),
nei cui riguardi, invece, il termine appena indicato dovrebbe cominciare a decorrere dalla
effettiva pubblicazione della sentenza, che è l’attività alla quale il cancelliere pone
riferimento, in relazione all’art. 133, comma 2, c.p.c., nel biglietto contenente il dispositivo
da comunicare alle parti e con riferimento alla quale le stesse prendono formale
conoscenza dell’avvenuta pubblicazione del provvedimento. Del resto, il cancelliere è
tenuto a rilasciare, di norma, le copie autentiche delle sentenze solo una volta che esse
siano state effettivamente pubblicate ed annotate nell’apposito registro cronologico ed è
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un verso tende a determinare una disparità di trattamento tra la situazione processuale in

corrispondentemente logico ritenere che l’attività di attestazione del passaggio in giudicato,
a tale pubblico ufficiale conferita dall’art. 124 disp. att. c.p.c., non possa che assumere
come momento di decorrenza del termine di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c. — in caso di
mancata notificazione della sentenza — quello della pubblicazione ufficiale della stessa.
A tal riguardo si osserva che non sembra plausibile configurare una distinzione tra il

“certificazione del compimento di tale attività”; sembra, invece, ragionevole ritenere che sia
appunto la certificazione del cancelliere, quale atto di certezza legale, a rendere ufficiale la
consegna della sentenza, quale modalità di esternazione della decisione. Sicché la
sentenza, la cui deliberazione ha natura di atto meramente interno, acquista efficacia
esterna per effetto del suo deposito attestato dal cancelliere, perché questa attestazione,
che ha efficacia di certezza pubblica, vincola, fino a querela di falso, ad assumere per vero
l’avvenuto deposito della decisione nella data indicata. Non si profila, quindi, congruo
leggere (cfr. Cass. n. 6991 del 2007) l’art. 133 c.p.c. tenendo distinto il comma 1, che
attribuisce al deposito l’efficacia di rendere pubblica la sentenza, dal secondo comma, che
impone al cancelliere di dare atto del deposito, perché senza attestazione del cancelliere
non v’è pubblicazione della sentenza (e lo stesso comma 2 del citato art. 133 c.p.c,
riconduce a quest’ultima attività il conseguente obbligo del cancelliere di provvedere, entro
il termine – considerato ordinatorio – di cinque giorni, alla comunicazione, con apposito
biglietto, alle parti costituite del dispositivo della sentenza con riferimento al quale deve,
perciò, intendersi completato il procedimento di rituale pubblicazione).
Con quanto appena affermato, ovviamente, non si vuole avallare la tesi alla stregua della
quale il termine lungo ex art. 327, comma 1°, dovrebbe decorrere a far data dall’avvenuta
comunicazione della pubblicazione della sentenza a cura della cancelleria (la cui questione
è stata, peraltro, già ritenuta — con riguardo al processo ordinario di cognizione manifestamente infondata, avuto riguardo al ravvisato bilanciamento tra l’indispensabile
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deposito della sentenza, come “consegna ufficiale” del documento al cancelliere, e la

esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche ed il diritto di difesa: cfr. Corte
cost. sentenze nn. 584 del 1990 e 297 del 2008; sul punto v. anche Cass. nn. 16311 del
2004 e Cass. n. 17704 del 2010), bensì si vuole porre in risalto che tale termine debba
decorrere dalla “pubblicazione in senso proprio”, in tal senso intendendosi il riferimento a
tale termine contenuto nel citato art. 327, comma 1°, del codice di rito civile.

— in ipotesi – emergente, nella specie, in relazione al combinato disposto degli artt. 133,
commi 1° e 2°, e 327, comma 1°, c.p.c.) andrebbe attribuita preferenza alla soluzione
ermeneutica conforme a quella costituzionalmente orientata, ovvero espressiva del
generale canone di coerenza sistematica dell’ordinamento giuridico (processuale, nella
fattispecie), tale da non determinare situazioni di irragionevolezza e da garantire, in modo
certo ed univoco, le posizioni delle parti processuali nell’esercizio del diritto assoluto di
difesa, di cui il diritto di impugnazione rappresenta una estrinsecazione essenziale.
Diversamente opinando si configurerebbe il rischio di esporre le suddette parti ad una
indebita penalizzazione del loro ruolo, qualora le stesse dovessero essere ritenute gravate
di un non previsto onere (peraltro non riconducibile allo scopo di assicurare al processo
uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione) di verificare la possibile scissione —
che si realizza nella pratica giudiziaria (ed invero molto frequentemente, solo che si pensi
alle numerosissime pronunce della giurisprudenza di legittimità sulla inerente questione,
tanto da determinarsi un contrasto) — tra le attività di “mero deposito” e quella di
pubblicazione in senso stretto (come tale attestata dal cancelliere) e, in quanto tale, avente
rilevanza esterna nel processo e nei confronti delle parti medesime.
Si è, anzi, sostenuto, in proposito, che al cancelliere non dovrebbe nemmeno essere
riconosciuta la facoltà di scindere il procedimento unitario di pubblicazione della sentenza,
segmentando in fasi successive l’attività di deposito (della minuta o dell’originale) e di
pubblicazione, non potendo avere margine di discrezionalità sulla data in cui rendere
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In relazione, perciò, ad una possibile equivocità interpretativa del dato normativo (per come

effettivamente pubblica la sentenza stessa, ragion per cui, ove tale evenienza si verifichi, i
relativi effetti negativi non possono ripercuotersi in danno delle parti incolpevoli.
Alla stregua di queste argomentazioni, quindi, il collegio — al fine di rafforzare la ritenuta
lesione, per effetto del “diritto vivente” rappresentato dalla sentenza delle Sezioni unite n.
13794 del 2012, degli artt. 3, comma 2, e 24, commi 10 e 2°, Cost. – intende nuovamente

di un termine che inizia a decorrere dalla “pubblicazione della sentenza”. La parte che
deve sottostare al termine è quindi indotta, sia dal principio di affidamento, sia da
un’interpretazione letterale di questa disposizione, ad ancorare la propria attività alla
pubblicazione e non al (mero) deposito della sentenza. Pertanto la ricerca della data di
deposito, quale veicolo per conoscere la data di pubblicazione ex art. 133 c.p.c., è
esigibile solo ove nell’atto da impugnare non sia presente una specifica attestazione che
riguardi la pubblicazione. Il conflitto tra le due attestazioni — ad avviso del collegio — deve,
perciò, essere necessariamente risolto attribuendo ad una di esse un senso diverso da
quello che è foriero delle conseguenze della pubblicazione della sentenza, che è il
momento in cui l’atto è reso conoscibile alle parti e che fa decorrere il tempo utile per la
proposizione del gravame.
Orbene, l’orientamento recepito con la sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del 2012 è
costretto a risolvere forzatamente la contraddizione conferendo all’attestazione di
“pubblicazione” un senso che è estraneo – e anzi opposto – a quello proprio del termine,
individuandolo nelle attività di annotazione nei registri di cancelleria, che è attività
meramente interna dell’ufficio. Per contro si appalesa — in linea generale — ispirata ad un
sicuro criterio di ragionevolezza una lettura che attribuisca all’attestazione di “deposito” il
senso di “deposito in minuta”. Questa impostazione trova conforto anche nella previsione
di cui all’art. 119 disp. att. c.p.c. (laddove, al comma 2°, si discorre di “minuta consegnata
al cancelliere”), che prescrive la consegna di una minuta da parte dell’estensore al
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sottolineare che la decadenza dall’impugnazione deriva, come si è ricordato, dallo spirare

presidente del Collegio e da questi al cancelliere, che ne affida la scritturazione al
dattilografo di ruolo. Ultimata la scritturazione, presidente ed estensore verificano la
corrispondenza dall’originale alla minuta, sottoscrivono la sentenza e la avviano alla
pubblicazione da parte del cancelliere. Ora, nel corso del tempo l’attestazione del deposito
in minuta è invalsa negli uffici giudiziari quale momento utile a fissare l’adempimento

dell’estensore. L’avvento dell’utilizzazione degli strumenti elettronici ha progressivamente
compresso tali fasi, in virtù della (ormai sempre più invalsa) scritturazione diretta da parte
dell’estensore e alla consegna al cancelliere di un testo che: a) a volte deve essere
controfirmato dal presidente; b) a volte consta della sola motivazione e deve essere
completato con “l’intestazione” della sentenza (cioè con l’epigrafe predisposta sovente
dalla cancelleria); c) a volte è completo, ma perviene al cancelliere quando questi non è in
condizione, per il carico di lavoro, di provvedere al deposito nel senso proprio di cui all’art.
133 c.p.c. .
A tal proposito è particolarmente rilevante segnalare che il differimento del formale
deposito per la condizione delle cancellerie è spesso di alcuni giorni e talvolta di molte
settimane. L’uso dell’attestazione “depositato in minuta” mantiene quindi attualità al fine di
scandire i tempi dell’attività giurisdizionale e quelli della cancelleria. È dunque ben più
consono rispetto ai precisati parametri costituzionali ritenere che, in presenza di una
doppia contraddittoria attestazione – tra deposito e pubblicazione della sentenza – la prima
si riferisca al deposito della minuta, cioè a un’attività codificata, interna al procedimento di
pubblicazione della sentenza e riconoscibile nella prassi giudiziaria. Né appare
trascurabile un altro fondamentale argomento: l’interpretazione rigorista alla quale hanno
aderito le Sezioni unite con la menzionata sentenza n. 13794 del 2012 si risolve — in modo
irragionevole e discriminatorio (per la ritenuta gravità della difficoltà, in tal caso,
dell’esercizio del diritto di difesa, v., da ultimo, Cass. n. 6304 del 2013 e Cass. n. 6991 del
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(rilevante anche disciplinarmente) dell’attività di predisposizione della sentenza da parte

2007) – nella sottrazione alle parti di una frazione, che può essere anche molto consistente
e che può risultare (in situazioni particolarmente patologiche) anche di alcuni mesi, del
tempo utile per l’impugnazione, che — nell’attuale regime processuale – deve essere non
inferiore a sei mesi (un anno prima della modifica dell’art. 327 c.p.c.). Anteriormente alla
“pubblicazione” la sentenza, per quanto depositata, non è infatti nota ai contendenti. Né

proceduto a doppia attestazione e alla seconda ha attribuito la denominazione di
“pubblicazione”, con evidenza ha dato atto della circostanza che, prima di quella data, la
sentenza non era stata ancora “resa pubblica”. Il senso del primo termine, “depositato”, è
quindi da desumere dalla connessione con l’uso del secondo, salvaguardando i diritti dei
litiganti (v., in tal senso, le condivisibili Cass. n. 12681 del 2008; Cass. n. 22057 del 2011 e
Cass. n. 22455 del 2011).
8. Ravvisata la non manifesta infondatezza della descritta questione incidentale di
legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, comma 2, e 24, commi 1 e 2, Cost.,
rileva il collegio che la questione stessa è anche chiaramente rilevante in relazione al
presente giudizio di legittimità, essendosi riferita la sentenza di appello impugnata, ai fini
dell’individuazione della decorrenza del termine di cui all’art. 327, comma 1, c.p.c., proprio
al momento del “mero deposito” della sentenza di primo grado (avvenuto in data 8 aprile
2003), qualificato come idoneo a determinare la giuridica esistenza della sentenza stessa,
anziché a quello della “effettiva pubblicazione” della medesima, attestata dal cancelliere
come verificatasi il successivo 28 luglio 2003 (oltre tre mesi dopo), in tal senso pervenendo
alla declaratoria di inammissibilità del gravame per rilevata intempestività della sua
proposizione. La proposizione dell’appello sarebbe stata, invece, da ritenersi tempestiva
(con conseguente sua ammissibilità) ove la Corte di appello partenopea avesse posto
riferimento alla (seconda) data di attestazione dell’avvenuta pubblicazione effettiva
(coincidente con quella annotata nel registro cronologico delle sentenze e riportata dalla
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sembra verosimile e plausibile opinare diversamente, giacché se la cancelleria ha

stessa cancelleria anche sull’avviso di deposito comunicato ai difensori delle parti
costituite), dal momento che l’atto di appello (relativo ad un giudizio locatizio) risultava
essere stato depositato nella cancelleria del giudice di secondo grado il 13 luglio 2004
(momento da considerare pacificamente dirimente ai fini del rilievo della tempestività del
gravame nel rito speciale ex art. 447 bis c.p.c.: cfr., ad es., Cass. n. 9530 del 2010 e Cass.

di sospensione feriale di altri 46 giorni, pur pacificamente spettante alla parte appellante)
dalla predetta data del 28 luglio 2003, avuto riguardo all’osservanza del disposto di cui
all’art. 327, comma 1°, c.p.c., nella sua versione “ratione temporis” applicabile, ovvero in
quella antecedente alla sua modifica intervenuta per effetto dell’art. 46, comma 17, della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (riferibile ai soli giudizi “ah initio” instaurati dopo l’entrata in
vigore di quest’ultima legge, ossia dopo il 4 luglio 2009).
9. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, bisogna disporre, ai
sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale, con la conseguente sospensione del presente giudizio e
l’assolvimento degli adempimenti notificatori e di comunicazione prescritti dal comma 4 del
citato art. 23.
P.Q.M.

La Corte, letto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 133, commi 1 e 2, e 327, comma 1, c.p.c. (nella sua versione “ratione temporis”
applicabile, antecedente alla modifica apportata con l’art. 46, comma 17°, della legge 18
giugno 2009, n. 69), in relazione agli artt. 3, comma 2, e 24, commi 1 e 2, della
Costituzione, nella parte in cui, secondo il diritto vivente (riconducibile alla interpretazione
riferita ai predetti artt. 133 e 327 c.p.c. operata dalla sentenza delle Sezioni unite n. 13794
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n. 20344 del 2010) e, quindi, entro l’anno (senza, peraltro, nemmeno computare il periodo

del 1° agosto 2012, confermata da successive pronunce di sezioni singole) deve ritenersi
che – nell’eventualità in cui, sulla sentenza, oggetto di impugnazione, siano state apposte
due date, una (precedente) di deposito, senza espressa specificazione che il documento
contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra (successiva) di pubblicazione – tutti
gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza (e, quindi, anche la

dalla prima data del suo deposito e non, invece, dalla seconda data attestante l’effettiva
pubblicazione della sentenza.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente
giudizio.
Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa
ed al Procuratore Generale presso questa Corte, nonché al Presidente del Consiglio dei
ministri. Ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal Cancelliere anche ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 3 ottobre 2013.

decorrenza del termine previsto dallo stesso art. 327, comma 1, c.p.c.), si producono già

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