Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26234 del 18/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 18/10/2018, (ud. 07/06/2018, dep. 18/10/2018), n.26234

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2028-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE EUROPA 190,

presso lo studio dell’Avvocato MAURO PANZOLINI, rappresentato e

difeso dall’Avvocato ANDREA AMBROZ;

– ricorrente –

contro

C.P.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 412/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 14/07/2014 R.G.N. 124/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

7/06/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo del

ricorso, assorbiti gli altri;

udito l’Avvocato ANNA MARIA URSINO per delega verbale dell’Avvocato

ANDREA AMBROZ.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. C.P. adiva il Tribunale di Ascoli Piceno e, premesso di avere stipulato con Poste Italiane s.p.a. due contratti a tempo determinato dei quali il primo, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 dall’1/6/2001 al 30/9/2001, giustificato dal ricorrere di “ragioni di carattere sostitutivo” ed il secondo ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, dal 19/1/2004 al 13/3/2004, chiedeva accertarsi la nullità del termine, la conversione del rapporto in rapporto a tempo determinato e la condanna della società datrice al risarcimento del danno.

1.2. Il giudice di primo grado, accertata la illegittimità del termine apposto al primo contratto, dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, condannando la società alla riammissione in servizio del lavoratore ed al risarcimento del danno determinato, ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32 in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

1.3. La Corte d’appello di Ancona, respingeva l’appello proposto dalla società con la precisazione che la declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine riguardava il secondo contratto.

1.4. Riteneva la Corte di merito, per quanto di interesse nel presente giudizio, che il ricorrente non fosse incorso nella decadenza L. n. 183 del 2010, ex art. 32 che non fosse stata fornita dalla società la prova della effettiva sussistenza delle ragioni sostitutive indicate in contratto.

2. Avverso tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a sei motivi.

3. C.P. è rimasto intimato.

4. La causa è stata rimessa all’udienza pubblica a seguito di ordinanza della Quarta Sezione Lavoro adottata nell’adunanza camerale del 14.12.2017 previa acquisizione, in quella sede, delle conclusioni scritte del Pubblico Ministero.

5. Non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo la società denuncia la violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione alla tardiva impugnazione della clausola del termine apposta ai due contratti stipulati dal C..

1.2. Il motivo è infondato.

Il differimento dell’efficacia della nuova disciplina decadenziale, introdotta dall’art. 32, deve infatti ritenersi operante per tutte le fattispecie alle quali questa nuova disciplina si riferisce.

In proposito questa Corte (cfr. Cass., Sez. U., 14 marzo 2016, n. 4913; Cass. 6 maggio 2016, n. 9268 come già Cass. 8 febbraio 2016, n. 2462; Cass. 14 dicembre 2015, n. 25103; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2494) ha già affermato che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1 bis, introdotto dal D.L. n. 225 del 2010, art. 2, comma 54 convertito con modificazioni dalla L. n. 10 del 2011, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, si applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato L. n. 604 del 1966, art. 6sicchè, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. “collegato lavoro”) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondendo alla ratio legis di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all’introduzione ex novo del suddetto e ristretto termine di decadenza.

Considerato che la ratio del differimento dell’applicabilità del nuovo regime decadenziale è stata individuata nell’esigenza di evitare che l’immediata decorrenza di un termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare chi, intenzionato a contestare la cessazione del rapporto di lavoro o le altre tipologie di atti datoriali indicati nell’art. 32 cit., si fosse trovato ad incorrere inconsapevolemente nella decadenza, non sarebbe giustificata, a fronte del principio di eguaglianza, una differenziazione che limitasse tale differimento alla sola ipotesi dell’impugnativa del licenziamento ed escludesse le altre, tra cui la contestazione della legittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro.

Deve pertanto ritenersi che il legislatore abbia inteso posticipare l’applicabilità del nuovo regime decadenziale nel suo complesso con riferimento a tutti i termini introdotti dall’art. 32 cit..

2.1. Con il secondo motivo la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1375 e 2967 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte omesso di esaminare l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso tempestivamente formulata, così violando anche l’art. 2967 c.c. visto che emergeva la prova della sussistenza di circostanze dalle quali si poteva desumere una volontà, sia espressa che per fatti concludenti, atta a sostenere la presunzione di estinzione del rapporto per mutuo consenso.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Si richiama, al riguardo, Cass. 24 luglio 2013, n. 17931 nonchè Cass. 10 marzo 2016, n. 4687 secondo cui: “Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge”, come nel caso in esame.

3.1. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (art. 360 c.p.c., n. 3), degli artt. 345 e 355 c.p.c. in relazione al non rilevato errore della sentenza di primo grado circa la legittimità del termine apposto al contratto del 23 maggio 2001 ed alla mancata rimessione della causa al giudice di primo grado.

3.2. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse ed è comunque infondato.

I rilievi riguardano il contratto del 23 maggio 2001 rispetto al quale la Corte territoriale ha condiviso le censure dell’appellante relative alla legittimità del termine (v. punti 5.1 e 5.3) tanto che, poi, in dispositivo ha specificato che la declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine riguardava il contratto stipulato in data 17 gennaio 2004.

D’altra parte, essendo stato devoluto al giudice del gravame l’esame delle ulteriori questioni riproposte dal controricorrente (v. pag. 9 dello stesso ricorso per cassazione e punto 5.3 della sentenza), la Corte territoriale, non avendo riformato la sentenza di primo grado per vizi ricollegabili alle cause di nullità espressamente indicate agli artt. 353 e 354 c.p.c., era tenuta ad esaminare il merito della causa con riferimento agli ulteriori profili ritualmente dedotti, senza alcuna possibilità di rimessione al primo giudice, secondo quanto esplicitato dal citato art. 354 c.c., la cui disposizione esprime una norma conforme a Costituzione, giacchè non esiste garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione di merito (v. Cass. 6 settembre 2007, n. 18691; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24017).

4.1. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla produzione documentale sul dato numerico della concentrazione delle assunzioni a termine verificatesi nel contesto cronologico di riferimento.

4.2. Il motivo è infondato.

Va innanzitutto osservato che nella parte in cui il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.senza, però, censurare l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della regola di giudizio fondata sull’onere della prova e dunque per avere attribuito l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata, il rilievo si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 360 c.p.c., comma 1, perchè, nonostante il richiamo normativo in esso contenuto, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinchè si fornisca un diverso apprezzamento delle prove (Cass., Sez. U., 10 giugno 2016, n. 11892).

Quanto alle ulteriori doglianze, va ricordato che la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892) e che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è configurabile solo allorchè il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. U., n. 11892/2016 cit.; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame.

Per il resto il motivo, nonostante il formale richiamo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, si risolve nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012.

Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le Sezioni Unite di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sè, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito. Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).

Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.

A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).

Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonchè il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.

L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il tassello mancante (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

Invece, con il mezzo in disamina, si lamentano, in sostanza, vizi di motivazione che non sarebbero stati denunciabili neppure alla luce del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: la censura, infatti, suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (e così delle circostanze asseritamente risultanti dai documenti che si assume non siano stati esaminati dalla Corte territoriale e che avrebbero consentito di ritenere assolto l’onere della prova sul numero delle assunzioni riferite al medesimo contesto cronologico di quella del C., gravante sulla società), affinchè se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata. Ma non può il ricorso per cassazione enucleare vizi di motivazione dal mero confronto tra le risultanze di causa, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.).

5.1. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al requisito di elasticità della causale di assunzione ed all’onere della prova.

5.2. Il motivo è infondato.

Oltre a richiamarsi quanto evidenziato al paragrafo precedente sub 5.2 circa le denunciate violazioni di legge, va osservato che anche in questo caso la ricorrente oppone a quella del giudice di merito una propria diversa lettura delle risultanze di causa. L’accertamento dei giudici di appello non è stato svolto con riferimento all’ufficio postale di assegnazione ma, correttamente, con riguardo all’intero Polo corrispondenza (OMISSIS) di cui al contratto sottoscritto tra le parti. Ferma restando la validità del criterio elastico di valutazione delle esigenze sostitutive quale accolto dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. già Cass. n. 1576/2010), va in effetti ritenuto corretto il convincimento espresso dalla Corte territoriale circa la non decisività delle allegazioni della società a dare conto della suddetta correlazione causale e sulla non invocabilità del principio di cui all’art. 421 c.p.c., non essendo state le prime idonee a dimostrare che nel settore interessato dalle esigenze sostitutive (vale a dire l’intero Polo corrispondenza Marche Umbria) il numero delle assunzioni a termine riferite al medesimo contesto cronologico (16 gennaio – 13 marzo 2004) non fosse stato eccedente rispetto alle assenze di personale di ruolo con diritto alla conservazione del posto.

Nè, invero, può sostenersi che la Corte territoriale abbia posto a carico della società oneri ulteriori rispetto a quelli normalmente richiesti in un’ipotesi quale quella in esame ricadente nell’ambito della disciplina di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 atteso che l’accertamento del rapporto tra assunti a termine ed assenti con diritto alla conservazione del posto rientrava nell’ambito della verifica della effettiva ricollegabilità causale dell’assunzione in questione all’esigenza indicata in contratto.

E’ vero che, come da questa Corte già più volte precisato nel quadro ricostruttivo delle assunzioni a termine effettuate ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2, – v. in particolare, fra le altre, Cass. 26 gennaio 2010, n. 1577 e Cass. 26 gennaio 2010, n. 1576 -, caratterizzato dalla definizione di un criterio elastico nella valutazione dell’adempimento dell’onere di specificazione delle ragioni di carattere sostitutivo, correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto (criterio che si riflette poi sulla relatività della verifica dell’esigenza sostitutiva in concreto), per la legittimità della apposizione del termine è sufficiente l’accertamento della congruità del rapporto tra le assenze del personale stabile e il numero dei contratti a termine conclusi per tale esigenza, in un determinato periodo, non essendo, peraltro, affatto necessario un carattere di temporaneità ex se dell’esigenza stessa e neppure un carattere di straordinarietà ovvero un superamento di un (non meglio identificato) tasso fisiologico di assenteismo (v. fra le altre Cass. 14 febbraio 2013, n. 6979 nonchè la più recente Cass. 20 marzo 2015, n. 5697).

Di tale congruità deve tuttavia essere fornita la prova il cui onere è a carico del datore di lavoro.

6.1. Con il sesto motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 42e dell’art. 429 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al riconoscimento sull’indennità degli interessi e della rivalutazione monetaria.

6.2. Il motivo è infondato.

Contrariamente all’assunto della ricorrente, l’indennità in esame deve essere annoverata tra i crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., comma 3, giacchè, come più volte è stato affermato da questa Corte, tale ampia accezione si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva (ad esempio, fra le altre, per i crediti liquidati L. n. 300 del 1970, ex art. 18 v. Cass. 23 gennaio 2003, n. 1000, Cass. 6 settembre 2006, n. 19159; per l’indennità L. n. 604 del 1966, ex art. 8 v. già Cass. 21 febbraio 1985, n. 1579; per le somme a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c. v. Cass. 8 aprile 2002, n. 5024). D’altra parte l’indennità in esame rappresenta comunque il ristoro (seppure forfetizzato e onnicomprensivo) dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto (si veda in particolare Cass. 11 febbraio 2014, n. 3029).

7. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

8. Nulla va disposto per le spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

9. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 considerato che, in base al tenore letterale della disposizione, l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018

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