Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26223 del 28/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 28/09/2021, (ud. 07/07/2021, dep. 28/09/2021), n.26223

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17836/2015 R.G. proposto da:

soc. F. s.n.c. di F.A. & C., in persona del

l.r.p.t., F.A., in proprio e nella qualità di socio

della F. s.n.c. di F.A. & C., nonché di

coerede di F.F., Fo.An., in proprio e nella

qualità di socio della F. s.n.c. di F.A. &

C., nonché di coerede di F.F., P.F., nella

qualità di coerede di F.F., rappresentati e difesi

dall’avv. Giuseppe Pugi, e dall’avv. Giuseppe Gigli, elettivamente

domiciliati presso quest’ultimo in Roma alla via Pisanelli n. 4;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in

Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 72/17/15 della Commissione tributaria

regionale della Toscana, pronunciata in data 29 settembre 2014,

depositata in data 12 gennaio 2015 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 luglio 2021

dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

che:

i contribuenti indicati in epigrafe ricorrono con sei motivi avverso l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 72/17/15 della Commissione tributaria regionale della Toscana, pronunciata in data 29 settembre 2014, depositata in data 12 gennaio 2015 e non notificata, che ha accolto l’appello dell’ufficio, rigettando gli appelli dei contribuenti, in controversia concernente l’impugnazione degli avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione, per l’anno 2007, ai fini ires, irap ed iva, maggiori ricavi per l’importo di Euro 116.981,57;

con la sentenza impugnata la C.t.r. riteneva che i contribuenti non avessero dimostrato l’avvio a distruzione dei pezzi di ricambio acquistati per 93.000,00 Euro, fatto ritenuto dai giudici di appello “di per sé inverosimile”;

la C.t.r. riteneva, inoltre, che non vi erano indizi che potessero indurre a pensare che i suddetti pezzi di ricambio fossero stati venduti sottocosto e che la percentuale di ricarico calcolata dall’ufficio e non contestata dai contribuenti era stata correttamente applicata alla vendita dei pezzi di ricambio in questione;

a seguito del ricorso, l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 7 luglio 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e dell’art. 380-bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

i ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, i ricorrenti denunziano la nullità della sentenza per assenza di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;

secondo la ricorrente, la C.t.r. non avrebbe esposto le ragioni del proprio convincimento, addirittura rigettando le impugnazioni, mai proposte dai contribuenti; il motivo è infondato e va rigettato;

la sentenza, seppure in maniera estremamente sintetica, contiene le ragioni dell’accoglimento dell’appello dell’ufficio, che devono identificarsi nella mancata prova da parte dei contribuenti della distruzione o della vendita sottocosto dei pezzi di ricambio oggetto di accertamento e della congruità della percentuale di ricarico applicata dall’ufficio, determinata in contraddittorio con i contribuenti e senza opposizione da parte di questi ultimi;

con il secondo motivo, i ricorrenti denunziano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, consistente nell’avvio a distruzione dei pezzi di ricambio;

il motivo è inammissibile, in quanto del tutto generico ed inconferente, avendo il giudice di appello esaminato il fatto in oggetto, ritenendolo inverosimile e, comunque, indimostrato;

con il terzo motivo, i ricorrenti denunziano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, consistente nell’esistenza dei formulari di identificazione rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15, e loro annotazione nel registro di carico e scarico dei rifiuti;

i ricorrenti lamentano che la C.t.r. avrebbe completamente omesso di considerare la prova fornita dalla società contribuente che, con la produzione dei formulari di identificazione rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15, e dei registri relativi, aveva dimostrato di aver correttamente avviato a distruzione i beni di magazzino che erano risultati mancanti in sede di verifica;

con il quarto motivo, i ricorrenti denunziano la violazione del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, artt. 1 e 2, in relazione al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 115, come sostituito dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 193, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

secondo i ricorrenti, la C.t.r. non aveva considerato che i formulari di identificazione rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15, costituivano prova documentale idonea a superare la presunzione di cessione, ai sensi del D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1 e 2, come ritenuto anche dall’amministrazione finanziaria con la circolare ministeriale n. 193 del 1998 e la successiva risoluzione 4 aprile 2008, n. 131;

con il quinto motivo, i ricorrenti denunziano la violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, e art. 41-bis, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, art. 1, e all’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

secondo i ricorrenti, dal non aver correttamente valutato la rilevanza della prova costituita dai formulari di identificazione e dal non aver applicato le disposizioni di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1 e 2, consegue la violazione delle disposizioni sull’accertamento delle imposte sui redditi e sull’IVA, recate rispettivamente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 comma 1 e art. 41-bis, e dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, in base alle quali è stato emesso l’avviso di accertamento;

invero, una volta riconosciuta la non operatività della presunzione di cessione di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1 e 2, nell’interpretazione data dalla stessa amministrazione finanziaria con le menzionate circolari 23 luglio 2008, n. 193, e risoluzione n. 44 del 2008, n. 131, il procedimento cosiddetto “analitico – induttivo” seguito dalla G.d.F. e dall’Agenzia, con riferimento evidente al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e al D.P.R. n. 633 del 1973, art. 54, corrispondente comma 4, in materia di IVA, risulta irrimediabilmente viziato, laddove la ricostruzione dei ricavi con il metodo del “costo del venduto” non ha tenuto conto, nel relativo computo, del costo dei beni avviati a distruzione per Euro 93.000 risultante dai formulari di identificazione e dai prospetti allegati, importo da computarsi in diminuzione del costo del venduto stesso (o, viceversa, delle giacenze iniziali);

i motivi devono essere esaminati congiuntamente perché connessi;

il terzo è fondato, con conseguente assorbimento del quarto e del quinto;

il D.P.R. n. 441 del 1997, art. 1, ai commi 1 e 2, prevede: “1. Si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti. Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa.

2. La presunzione di cui al comma 1 non opera se è dimostrato che i beni stessi:

a) sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti;(…)”;

il successivo art. 2, al comma 4, recita: “4. La distruzione dei beni o la trasformazione in beni di altro tipo e di più modesto valore economico è provata:

a) da comunicazione scritta da inviare agli uffici di cui al comma 2, lett. a), nei termini e con le modalità ivi previsti, indicando luogo, data e ora in cui verranno poste in essere le operazioni, le modalità di distruzione o di trasformazione, la natura, qualità e quantità, nonché l’ammontare complessivo, sulla base del prezzo di acquisto, dei beni da distruggere o da trasformare e l’eventuale valore residuale che si otterrà a seguito della distruzione o trasformazione dei beni stessi. Tale comunicazione non è inviata qualora la distruzione venga disposta da un organo della pubblica amministrazione;

b) dal verbale redatto da pubblici funzionari, da ufficiali della Guardia di finanza

o da notai che hanno presenziato alla distruzione o alla trasformazione dei beni, ovvero, nel caso in cui l’ammontare del costo dei beni distrutti o trasformati non sia superiore Euro 10.000, da dichiarazione sostitutiva di atto notorio ai sensi della L. 4 gennaio 1968, n. 15. Dal verbale e dalla dichiarazione devono risultare data, ora e luogo in cui avvengono le operazioni, nonché natura, qualità, quantità e ammontare del costo dei beni distrutti o trasformati (4);

c) da documento di cui al D.P.R. 14 agosto 1996, n. 472, progressivamente numerato, relativo al trasporto dei beni eventualmente risultanti dalla distruzione o trasformazione”;

questa Corte è ferma nel ritenere che “in tema di accertamento delle imposte sul reddito, in caso di “differenze inventariali”, ovvero differenze registrabili tra le quantità di merci giacenti in magazzino e quelle desumibili dalle scritture di carico e scarico, operano le presunzioni di cessione e di acquisto dei beni in evasione di imposta, di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 44, annoverabili tra le presunzioni legali cosiddette “miste”, che consentono, entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova stabiliti a fini antielusivi, la dimostrazione contraria da parte del contribuente, il quale sarà tenuto a provare, con le modalità tassativamente indicate dal D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1 e 2, che la contrazione registratasi nella consistenza del magazzino è frutto dell’impiego produttivo dei beni e non di cessioni o acquisizioni non contabilizzate” (Cass. civ. sez. trib., 30/10/2018, n. 27549);

invero, la prova della distruzione diretta dei beni implica il rispetto della procedura amministrativa regolata dal D.P.R. n. 441 del 1997, art. 2, comma 4, il cui espletamento è funzionale a consentire un effettivo controllo fiscale;

in particolare, nell’ipotesi in cui si scelga la distruzione volontaria dei beni, anche per motivi legati all’obsolescenza degli stessi, la dismissione postula diversi passaggi, che vanno dalla necessità della preventiva comunicazione all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate (con indicazione di luogo, data e ora delle operazioni, delle modalità di distruzione, della natura, qualità e quantità dei beni medesimi, dell’ammontare complessivo, sulla base del prezzo di acquisto, dei beni da distruggere o da trasformare, dell’eventuale valore residuale che si otterrà a seguito della distruzione o trasformazione dei beni stessi) alla verbalizzazione puntuale delle operazioni distruttive;

in conclusione, la mancata dimostrazione in ordine all’espletamento della procedura prevista per legge in caso di distruzione delle rimanenze di magazzino, autorizza l’amministrazione finanziaria a riprendere a tassazione il maggior valore delle rimanenze determinato in base al procedimento cosiddetto “analitico-induttivo”, con riferimento al D.P.R. n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e al D.P.R. n. 633, art. 54, corrispondente comma 4, in materia di IVA;

tuttavia, nel caso in cui l’impresa non provveda direttamente alla distruzione dei beni, ma li consegni agli appositi soggetti autorizzati ai sensi delle vigenti leggi sullo smaltimento dei rifiuti, la prova di distruzione dei beni, non deve essere fornita con la procedura descritta nei punti precedenti, ma è data semplicemente dall’annotazione sul formulario di identificazione previsto dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 15 (cd. legge “Ronchi” in materia di smaltimento rifiuti e di tutela ambientale);

in tal senso depone anche la circolare n. 193 del 23/7/1998, con cui il ministero delle finanze, dipartimento entrate affari servizio VI, ha chiarito che “i contribuenti che necessitano di avviare a distruzione i beni propri, possono procedere all’operazione mediante consegna dei beni stessi a soggetti autorizzati, ai sensi delle vigenti leggi sullo smaltimento dei rifiuti, all’esercizio di tali operazioni in conto terzi, dimostrando, in tal caso, la distruzione dei beni mediante il formulario di identificazione di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15″, con prescrizioni che, integrate dal D.M. 1 aprile 1998, n. 145, sono tassative (Cass. n. 21260 del 2009; Cass. n. 34038 del 2019; Cass. n. 6707 del 2011);

dunque, nel caso di avvio a distruzione di beni propri mediante consegna a soggetti autorizzati all’esercizio di tali operazioni in conto terzi (ai sensi delle vigenti leggi sullo smaltimento rifiuti), la distruzione è dimostrata mediante il formulario di identificazione rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15, e succ. mod., il quale deve contenere indicazioni specifiche sui seguenti dati: a) nome e indirizzo del produttore detentore; b) origini, tipologia e quantità del rifiuto; c) impianto di destinazione; d) data e percorso dell’istradamento; e) nome e indirizzo del destinatario;

deve, quindi, enunciarsi il seguente principio di diritto: ” in tema di imposte dirette, con riferimento alla presunzione di cessione di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, artt. 1 e 2, i contribuenti, che necessitano di avviare a distruzione i propri beni, possono procedere all’operazione mediante consegna dei beni stessi a soggetti autorizzati all’esercizio di tali operazioni in conto terzi, ai sensi delle vigenti leggi sullo smaltimento dei rifiuti; in tal caso l’avvio a distruzione è dimostrato mediante il formulario di identificazione rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 15, e succ. mod., contenente le indicazioni specifiche richieste dalle prescrizioni che, integrate dal D.M. 1 aprile 1998, n. 145, sono tassative”;

nel caso di specie, la sentenza impugnata afferma soltanto che “l’avvio a distruzione non risulta in alcun modo documentato dalla contribuente”, omettendo di chiarire perché la prova addotta dalla società contribuente non era idonea a dimostrare la distruzione delle rimanenze di magazzino, peraltro contrariamente a quanto espressamente ritenuto dal giudice di prime cure;

questa Corte ha avuto modo di precisare che, nel contenzioso tributario, costituisce principio a tutela della parità delle parti e del regolare contraddittorio processuale quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie rispetto all’accertamento dell’ufficio, deve seguire, ove a quell’onere abbia adempiuto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento ai documenti entrati nel processo (cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21700 del 08/10/2020, in tema di accertamento sintetico – induttivo mediante cd. redditometro, che enuncia il principio di portata generale sia pure con riferimento alla determinazione dell’obbligazione fiscale del soggetto passivo d’imposta in base agli indici di spesa);

dunque, deve ritenersi che, in presenza di presunzioni di legge che onerino il contribuente della prova contraria, ove quest’ultimo abbia prodotto documentazione (peraltro, nel caso di specie, astrattamente idonea a dimostrare l’avviamento a distruzione dei beni), il giudice non può genericamente ritenere non assolto l’onere probatorio a suo carico, ma deve specificamente chiarire i motivi per cui gli elementi prodotti non siano sufficienti ad integrare idonea dimostrazione dei fatti dedotti;

pertanto la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.t.r. della Toscana, in diversa composizione, affinché valuti se i contribuenti hanno prodotto idonea prova contraria alla presunzione di cessione, alla luce del principio di diritto sopra enunciato sulla base della normativa vigente;

con il sesto motivo, i ricorrenti denunziano l’omessa pronuncia della C.t.r. sul motivo di appello relativo al difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, vizio dell’atto già dedotto con i motivi di ricorso in primo grado e richiamato all’atto della costituzione in appello;

secondo i ricorrenti, l’atto impositivo, nella motivazione, non farebbe riferimento alla circostanza che i contribuenti avevano fornito dichiarazioni sull’avvenuto smaltimento delle rimanenze;

il motivo è infondato e va rigettato;

invero, “non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. Cass., n. 24953 del 2020, Cass. n. 14486 del 2004);

nel caso di specie, la censura, anche se ricondotta alla violazione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, che prevede la necessità di motivazione dell’atto impositivo, non è fondata, in quanto la norma prevede che l’avviso debba essere motivato in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato, senza alcun generalizzato obbligo di motivazione rafforzata relativamente al superamento delle giustificazioni fornite dal contribuente;

in conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione al terzo motivo accolto, con rinvio alla C.t.r. della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbiti il quarto ed il quinto e rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla C.t.r. della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2021

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