Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2622 del 04/02/2021

Cassazione civile sez. II, 04/02/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 04/02/2021), n.2622

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8232/2016 proposto da:

A.C.J., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO n. 38, presso lo studio dell’avvocato PIETRO NOCITA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO GIULIO CIANCI;

– ricorrente –

contro

C.F., D.B.P., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA EMANUELE GIANTURCO 11, presso lo studio dell’avvocato

EMILIANO MARCHISIO, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIOVANNI LAZZARIN;

– controricorrenti –

e contro

CO.OD.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6417/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/11/2020 dal consigliere Dott. LUCA VARRONE;

Udito il Sostituto Procuratore Generale Dottor CAPASSO Lucio, che ha

concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato Alberto Giulio Cianci per la ricorrente e l’avvocato

Giovanni Lazzarin per i controricorrenti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.B.P. conveniva in giudizio dinanzi il Tribunale di Roma, F.S., in qualità di tutore provvisorio di Co.Ug., deducendo di aver subito ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali a causa della condotta illecita tenuta da questi.

In particolare, oggetto della vertenza era la richiesta di restituzione di alcuni arredi siti in un appartamento in (OMISSIS), immobile che il Co. aveva dato in comodato al D.B., poichè gli stessi non erano stati rinvenuti e il Co. aveva presentato una denuncia querela per appropriazione indebita e anche una richiesta di sequestro dinanzi al pretore di Roma.

Nel 1992 le parti a composizione della lite avevano sottoscritto una scrittura privata con la quale avevano convenuto che tutti i beni non restituiti dal D.B., esclusi quelli sottoposti a sequestro, dovevano considerarsi perduti, dispersi o distrutti, con corresponsione della somma di Lire 1.200.000.000 in favore del Co., il quale dichiarava di rinunciare a ogni diritto sui beni e all’instaurazione di ulteriori contenziosi con remissione della querela. Anni dopo la stipula della suddetta scrittura privata, parte dei suddetti beni erano stati ritrovati, restaurati e ceduti dall’attore alla moglie C.F..

Quest’ultima, nel (OMISSIS), li aveva messi in vendita tramite una casa d’aste veneziana. Il Co., venuto a conoscenza di tale circostanza, aveva presentato una denuncia-querela alla Procura della Repubblica di Venezia per il reato di appropriazione indebita, omettendo di riferire dell’accordo transattivo e, a seguito della presentazione della querela, era stato eseguito il sequestro dei beni presso la casa d’aste e anche presso l’abitazione dei coniugi D.B.. Tale evento aveva avuto grande diffusione sulla stampa nazionale e aveva causato gravi pregiudizi all’immagine e alla reputazione di entrambi i coniugi, nonchè ingenti danni patrimoniali agli stessi per la mancata vendita della maggior parte dei beni offerti all’asta. Sulla base di tali fatti l’attore chiedeva che Co.Ug. venisse condannato al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali quantificati nella misura di Euro 2.582.284,49.

1.2 Co.Ug. si costituiva in giudizio formulando domanda riconvenzionale tendente ad ottenere la declaratoria di nullità per errore e per dolo ex art. 1971 c.c., della transazione contenuta nella scrittura privata del 1992, con chiamata in causa di C.F.. Al riguardo deduceva che tale scrittura era stata redatta sul falso presupposto che i beni controversi fossero stati perduti o distrutti e che tale intesa, comunque, non era idonea a trasferire la proprietà dei beni medesimi.

1.3 C.F., nel costituirsi in giudizio, chiedeva che fosse accertata e dichiarata la proprietà dei beni in capo a lei ed al marito, con conseguente ordine di sequestro degli stessi e condanna del Co. al pagamento di Euro 150.000 a titolo risarcitorio per il deprezzamento subito dai medesimi beni rimasti invenduti. In linea subordinata, nel caso in cui fosse stata accolta la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, chiedeva la restituzione della somma versata in forza della citata transazione.

1.4 C.F. proponeva atto di citazione, chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa

del sequestro penale dei beni, che aveva impedito la vendita del compendio e che aveva pregiudicato la sua immagine nell’ambiente dalla stessa frequentato per la diffusione della notizia su testate giornalistiche. Inoltre, chiedeva una dichiarazione di inefficacia ai sensi dell’art. 2901 c.c., della donazione effettuata da Co.Ug. in favore della moglie della nuda proprietà di un appartamento sito in (OMISSIS), in quanto tale trasferimento aveva lo scopo di pregiudicare le ragioni creditorie fondate sul richiesto risarcimento.

1.5 Con ulteriore atto di citazione i coniugi D.B. convenivano Co.Ug., richiamando quando dedotto nelle rispettive precedenti citazioni e chiedendo l’accertamento del loro diritto di proprietà sui beni oggetto della controversia, con conseguente ordine di dissequestro degli stessi e con condanna del convenuto al pagamento della somma di Euro 150.000, o in subordine, alla restituzione di quanto corrisposto in attuazione dell’accordo transattivo del 1992.

2. I suddetti giudizi venivano riuniti ed espletata l’istruttoria processuale il Tribunale dichiarava valida ed efficace tra le parti la scrittura privata sottoscritta in data 15 aprile 1992 e in virtù di quanto convenuto nella transazione, a seguito del rinvenimento dei beni ritenuti distrutti, dichiarava il D.B. titolare del diritto di proprietà sugli stessi e condannava gli eredi di Co.Ug. a consegnare tali beni, detenuti in custodia giudiziaria, ai coniugi D.B.. Il Tribunale, inoltre, rigettava tutte le domande di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali proposte in via principale ed in via riconvenzionale, così come la domanda ex art. 2901 c.c., proposta dalla signora C..

3. Avverso la suddetta sentenza proponeva appello Co.Jo.Av., moglie di Co.Ug., i coniugi D.B. proponevano appello incidentale e Co.Od. proponeva a sua volta appello incidentale.

4. La Corte d’Appello rigettava sia l’appello principale che quelli incidentali. Preliminarmente il giudice del gravame delimitava l’oggetto del giudizio di appello, evidenziando che lo stesso era circoscritto alla validità della scrittura privata intercorsa nel 1992 tra Co.Ug. e D.B.P. e agli effetti derivanti dalla stessa oltre che alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni preteso dai ricorrenti incidentali.

La Corte d’Appello condivideva la qualifica di transazione della scrittura privata intercorsa tra Co.Ug. e D.B.P.. Nella specie la pretesa avanzata da Co. consisteva nel diritto ad ottenere la restituzione di beni mobili presenti nell’appartamento locato al D.B. mentre quest’ultimo resisteva a tale pretesa sostenendo di non essere responsabile della sorte dei beni in questione in quanto nel contratto di locazione era inserita una clausola che prevedeva l’esonero da ogni responsabilità del conduttore in ordine alla conservazione degli oggetti contenuti nel locale locato. La controversia, dunque, non riguardava la titolarità del diritto di proprietà dei beni ma il diritto del locatore ad ottenere la restituzione. A fronte di tale richiesta il conduttore, a causa di vari traslochi, non era in grado di fornirne l’esatta localizzazione dei beni. Da tale vicenda erano nati vari giudizi, sia civili che penali, e a seguito del ritrovamento e della restituzione di gran parte di tali beni e al fine di porre fine alle liti, era stata sottoscritta la scrittura privata in oggetto.

Con tale scrittura le parti avevano effettuato una ricognizione dello stato di fatto dei beni, prendendo atto che gli stessi erano perduti, distrutti o dispersi e raggiungendo un accordo transattivo riguardo alle loro pretese con reciproci sacrifici e vantaggi. Nello specifico il Co., a fronte della corresponsione in suo favore della somma indicata, rinunciava a richiedere la restituzione dei beni e ogni diritto sui medesimi e si impegnava contestualmente con separata clausola a desistere dall’instaurazione di successivi giudizi per i medesimi fatti regolati dalla transazione. Il D.B. a fronte dell’esborso di una considerevole somma di denaro otteneva il vantaggio di chiudere tutti procedimenti giudiziari azionati nei suoi confronti, definendo i rapporti con il Co. senza essere più sottoposto al rischio delle conseguenze da essi derivanti.

Ciò premesso si rivelavano infondati gli assunti prospettati dalle parti appellanti che censuravano la sentenza nella parte in cui aveva affermato la validità e l’efficacia dell’accordo transattivo.

La Corte d’Appello precisava che, con riguardo all’invalidità della transazione, mancava la prova del dolo del D.B., in quanto le indagini penali nei suoi confronti si erano concluse rispettivamente, la prima, con la remissione della querela, e l’altra con un provvedimento di archiviazione, e non era stato fornito alcun ulteriore elemento di prova in base al quale desumere un comportamento fraudolento del D.B., finalizzato all’appropriazione del bene. In difetto di tali elementi e in considerazione del considerevole lasso di tempo intercorso tra la stipula della scrittura privata e il ritrovamento dei beni, non poteva ritenersi raggiunta la prova della sussistenza del dolo nella formazione della transazione. Siffatto onere probatorio, secondo i principi generali, incombeva senz’altro sulla parte che aveva denunciato il vizio chiedendo l’annullamento del contratto.

La Corte d’Appello rigettava anche la censura relativa all’annullabilità della transazione per la sussistenza di un errore lesivo della libera formazione del consenso. La presenza di un eventuale errore sulle circostanze di fatto presupposto della transazione rileverebbe soltanto nel caso in cui l’errore avesse inciso sul percorso formativo della volontà nel momento della definizione dell’accordo transattivo. Nella specie, al contrario, non risultava che all’epoca della sottoscrizione dell’accordo il Co. versasse in errore sulla circostanza di fatto presupposto dell’accordo. Dalle risultanze istruttorie, infatti, emergeva che i beni prima della sottoscrizione della scrittura privata risultavano effettivamente smarriti o distrutti. In particolare, dopo il sequestro penale e la riconsegna di alcuni dei beni al Co. quelli oggetto della transazione non erano più stati rinvenuti. Lo smarrimento, dunque, era un fatto reale e il successivo ritrovamento a distanza di anni non rappresentava un fatto dal quale desumere la sussistenza di un errore inficiante la volontà del Co.. La causa di annullamento del contratto non era esistente al momento genetico del negozio e lo smarrimento o la distruzione dei beni era stato proprio l’oggetto della controversia tra le parti nella transazione.

Infine, la transazione era idonea a produrre effetti traslativi della proprietà dei beni. Infatti, nella scrittura privata del 1992 il Co., in virtù delle concessioni del D.B., aveva dichiarato di rinunciare ad ogni sua pretesa o diritto sui beni, manifestando l’inequivocabile volontà di astenersi in futuro dal richiederne la restituzione. In particolare il Co. a fronte della corresponsione in suo favore della somma di 1.200.000.000 di Lire aveva dichiarato di ritenersi pienamente soddisfatto e di non pretendere alcunchè in ordine ai beni smarriti. Ciò nella consapevolezza del loro possibile ritrovamento ed al fine di evitare la sottoposizione della controversia a successivi giudizi. Dunque, l’attribuzione dei beni a D.B.P. era l’effetto della regolamentazione degli interessi avvenuta con la transazione la quale1 nel premettere che essi erano smarriti o distrutti, presupponeva la possibilità di un loro ritrovamento, dal quale però, nell’intenzione delle parti, non sarebbe potuta discendere alcuna conseguenza in grado di intaccare la nuova composizione degli interessi, in quanto Co.Ug. si considerava egualmente soddisfatto. Le parti, quindi, nella loro autonomia negoziale, avevano voluto estinguere, attraverso reciproche rinunce, la situazione precedente, dando luogo ad un nuovo assetto di interessi, potenzialmente in grado di condurre all’effetto del trasferimento della proprietà. Trattandosi di beni mobili non era necessaria l’adozione di particolari forme o di eseguire la trascrizione della transazione.

La restante parte della motivazione della sentenza impugnata, avente ad oggetto le domande proposte con l’appello incidentale, non rileva nel presente giudizio.

5. Co.Jo.Av. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di sei motivi di ricorso.

6. C.F. e D.B.P. hanno resistito con controricorso.

7. La ricorrente, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge: art. 1362,1364 c.c., in riferimento all’art. 1346 c.c.; erronea interpretazione dell’oggetto della scrittura privata.

La censura attiene alla violazione delle regole di interpretazione del contratto in relazione alla identificazione del suo oggetto. Infatti, dall’esame della scrittura privata risultava che la stessa avesse ad oggetto i beni espressamente qualificati dalle parti come “perduti, dispersi ovvero distrutti” ed era diretta a regolare tra le stesse, l’una proprietaria e l’altra custode, le conseguenze economiche della loro perdita dispersione o distruzione. Nell’identificare l’oggetto della transazione nel contesto delle due prestazioni sinallagmatiche si affermava espressamente che Co.Ug. in relazione agli oggetti “perduti distrutti o dispersi” dichiarava di ricevere da D.B.P. la somma di Lire 1.200.000.000 a saldo e stralcio di ogni e qualsiasi suo diritto sugli oggetti medesimi.

L’oggetto del contratto, dunque, era riferibile nella sua materialità ai beni perduti dispersi o distrutti e, dunque, alla loro mancanza rispetto ai quali il proprietario rinunciava a ogni e qualsiasi suo diritto, in quanto non più esistenti e reperibili, ma non certo destinati ad un trasferimento di proprietà della controparte. Il canone interpretativo dell’art. 1364 c.c., della ricerca della comune intenzione delle parti avrebbe dovuto portare a ritenere esclusi dall’oggetto della scrittura privata tutti i beni che non fossero perduti dispersi ovvero distrutti e, dunque, quelli ritrovati perchè erano in realtà detenuti da D.B. presso il suo magazzino. I beni perduti distrutti o dispersi erano l’oggetto del contratto mentre invece quelli esistenti ed addirittura detenuti da uno dei contraenti all’insaputa dell’altro non erano inclusi nella transazione.

La sentenza sarebbe erronea nella parte in cui afferma che l’espressione beni “perduti smarriti o distrutti” presupponeva la possibilità del loro ritrovamento.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge: art. 1346,1418 c.c., attribuzione alla scrittura privata di un oggetto impossibile.

Il secondo motivo attiene alla invalidità del contratto avente un oggetto impossibile, come quello di specie, avente ad oggetto il trasferimento di beni considerati espressamente come non più esistenti e, dunque, non suscettibili di essere trasferiti in proprietà di terzi. L’espressione beni “perduti, distrutti o dispersi” non potrebbe comportare il trasferimento della proprietà perchè altrimenti si dovrebbe ammettere la validità di un contratto di compravendita di beni non più esistenti in natura con oggetto chiaramente impossibile.

Ne consegue che, anche se te parti della transazione non avevano previsto l’ipotesi di un successivo ritrovamento dei beni, in ogni caso non vi era alcuna volontà di prevederne il trasferimento in caso di ritrovamento.

L’interpretazione secondo la quale la transazione presupponeva la possibilità del ritrovamento comporterebbe la qualificazione della scrittura privata come vendita a sorte o vendita di cose future nella quale il compratore assume il rischio della mancata produzione del bene. Seguendo questa interpretazione le parti avrebbero accettato la possibilità di un futuro ritrovamento dei beni dal quale sarebbe derivata la loro attribuzione in favore di D.B.P., tuttavia, la vendita a sorte, ponendo una deroga alla regola generale sul rischio non può presumersi, dovendo, invece, risultare da un’espressa volizione delle parti e da clausole appositamente stabilite ed accettate.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge: artt. 1376,1470 c.c.; erronea affermazione degli effetti traslativi della proprietà della scrittura privata, per l’inesistenza nel nostro ordinamento di un atto di rinuncia alla proprietà con effetti traslativi.

A parere del ricorrente nel nostro sistema della proprietà non è possibile ravvisare una figura autonoma che consenta di attribuire effetti reali ad un atto di rinuncia alla proprietà, non essendo ciò compatibile con il principio del consenso traslativo. Nella scrittura privata in esame non era stato espresso alcun consenso al trasferimento della proprietà di una cosa determinata ma solo alla definizione di un’attribuzione risarcitoria per il deperimento dei beni.

La scrittura privata non era un contratto di compravendita ma una transazione sul risarcimento del danno derivante dalla distruzione per lo smarrimento di beni mobili e dunque non poteva comportare effetti reali in ordine a tali beni ritenuti non più esistenti disponibili o irreperibili.

La transazione aveva ad oggetto la responsabilità per la mancata custodia dei beni e la cessazione delle controversie in ordine al risarcimento del danno. Peraltro, l’argomento dell’impossibilità di un atto di rinuncia con effetti traslativi anche se introdotto con la comparsa conclusionale di appello era comunque presente nell’appello incidentale di Co.Od. e, dunque, non vi era alcuna preclusione al suo esame come ritenuto dalla Corte d’Appello.

L’atto di rinuncia alla proprietà di un bene presuppone una volontà chiaramente manifestata e non comporta l’acquisto da parte di un altro soggetto. Tra l’altro non tutti i beni oggetto della transazione erano stati ritrovati, in quanto la stessa comprendeva numerosi altri beni mobili mai più rinvenuti. Non vi era, dunque, alcuna volontà di trasferire i beni ma solo la rinuncia dietro corrispettivo ai diritti derivanti dallo smarrimento, deperimento o distruzione degli stessi.

3.1 I primi tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono in parte inammissibili in parte infondati.

La questione centrale posta dalle suddette censure è quella relativa alla interpretazione della scrittura privata transattiva intercorsa nel 1992 tra Co.Ug. e D.B.P., e della sua validità ed efficacia in ordine all’effetto traslativo della proprietà dei beni mobili oggetto della stessa.

Con riferimento alla dedotta censura di violazione delle regole di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., deve osservarsi che l’interpretazione di un atto negoziale è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016).

Ne consegue l’inammissibilità delle censure che, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche o il vizio di motivazione, si risolvono, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). Deve ribadirsi, infatti, che per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di un accordo negoziale o di una singola clausola sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017).

Osserva Questa Corte che il giudice del gravame, nell’indagare la reale volontà delle parti, ha tenuto conto, ai sensi degli artt. 1362 c.c. e segg., del tenore letterale della scrittura privata, unitamente al complesso delle circostanze, dei comportamenti delle parti, del nesso sinallagmatico delle prestazioni e dello scopo del negozio.

La Corte d’Appello, infatti, in applicazione dei suddetti criteri ha ritenuto che la volontà negoziale complessivamente considerata comprendesse anche quella di trasferire la proprietà dei beni “perduti, smarriti o distrutti” in caso di ritrovamento e che la somma di Lire 1.250.000 (un miliardo duecentocinquanta milioni) era diretta al ristoro del Co. anche nel caso tale eventualità si fosse avverata, implicando la conseguente volontà di trasferire la proprietà al D.B.. Nessun vizio del ragionamento o errore di diritto può addebitarsi alla Corte d’Appello in relazione ai criteri ermeneutici utilizzati nella ricostruzione della volontà delle parti anche in relazione a quelli non invocati dalla ricorrente dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c..

L’interpretazione alternativa offerta con i motivi in esame trova i limiti sopra indicati in quanto quella effettuata dalla Corte d’Appello e prima ancora dal Tribunale non solo è plausibile ed ampiamente motivata ma è anche conforme al tenore letterale della scrittura e al comportamento delle parti ed è rispondente allo scopo pratico perseguito dalle stesse con il negozio e, quindi, alla relativa causa concreta (Cass. 23 maggio 2011 n. 11295).

La ricostruzione della volontà negoziale nel senso di individuare una volontà traslativa della proprietà dei beni in caso di loro ritrovamento rende infondata anche la censura relativa alla nullità del contratto per mancanza di oggetto o per l’inesistenza nel nostro ordinamento di un atto di rinuncia alla proprietà con effetti traslativi o per essere una vendita a sorte che non può presumersi.

Peraltro, deve ribadirsi che il contratto di transazione in esame ha natura commutativa nel quale ciascun contraente subisce un sacrificio patrimoniale determinato, onde procurarsi un vantaggio corrispondente. La valutazione del giudice in tal caso deve tener conto delle sole prestazioni dedotte in contratto e non anche delle reciproche concessioni, ossia delle pretese originarie dei contraenti, poichè le valutazioni delle parti circa la situazione preesistente restano assorbite nel nuovo regolamento contrattuale, vale a dire nelle reciproche attribuzioni patrimoniali.

La Corte d’Appello ha individuato il nesso sinallagmatico tra le prestazioni dei contraenti ritenendo ricompresa nella fase genetica anche la volontà di regolare l’eventualità sopravvenuta del ritrovamento dei beni. D’altra parte anche per i contratti cosiddetti commutativi le parti, nel loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze, che incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, la applicabilità dei meccanismi riequilibratori previsti nell’ordinaria disciplina del contratto ex artt. 1467 e 1664 c.c. (Sez. 1, Sent. n. 948 del 1993).

L’assunzione del suddetto rischio supplementare può formare oggetto di una espressa pattuizione, ma può anche risultare per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni;

l’accertamento in concreto di detta volontà, attraverso l’interpretazione delle clausole contrattuali, costituisce, come si è detto, un’indagine di fatto riservata al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se esente da errori di diritto come nella specie. Nessun vizio del ragionamento o errore di diritto può addebitarsi alla Corte d’Appello in relazione ai criteri ermeneutici utilizzati nella ricostruzione della volontà delle parti.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge art. 360 c.p.c., n. 3 artt. 1427,1429,1439 c.c.; erronea esclusione dei presupposti per l’annullamento del contratto per dolo.

La censura attiene alla esclusione da parte della Corte d’Appello dei presupposti per l’annullamento del contratto per dolo. A parere del ricorrente vi era la prova che una delle parti, al momento della scrittura privata, deteneva i beni che nella stessa erano stati dichiarati perduti distrutti o dispersi come del resto era stato riscontrato anche in sede di ordinanza inibitoria dalla Corte d’Appello che aveva valorizzato tre circostanze oggettive: il rinvenimento dei beni nei magazzini di D.B., la cessione in favore della moglie e la vendita all’asta. Tali elementi, considerati nel loro insieme, rendevano inverosimile l’ipotesi ricostruttiva circa l’esclusione del dolo di D.B.P. al momento della stipula della transazione, quando egli ometteva di riferire di essere in possesso dei beni dei quali dichiarava lo smarrimento la distruzione la dispersione.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato violazione di legge art. 1427,1428,1429,1431 c.c., erronea esclusione dei presupposti per l’annullamento del contratto per errore

Il motivo è subordinato al rigetto del precedente; qualora dovesse ritenersi escluso il dolo in ogni caso dovrebbe riconoscersi l’errore in quanto indiscutibilmente la volontà negoziale di Co.Ug. si era formata in relazione ad un presupposto di fatto non rispondente alla realtà, consistente nell’attuale inesistenza indisponibilità o irreperibilità dei beni che invece erano detenuti dal D.B., elementi essenziali per la determinazione della sua volontà.

L’errore, essenziale e determinante nella formazione del consenso, era anche riconoscibile da parte di D.B.P. con l’ordinaria diligenza, in quanto egli avrebbe dovuto verificare se nei propri magazzini fossero in realtà detenuti i suddetti beni. La causa di annullamento esisteva al momento in cui venne stipulata la scrittura privata e dunque non poteva escludersi l’errore già dal momento genetico del negozio.

5.1 I motivi quarto e quinto, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.

La Corte d’Appello di Roma ha evidenziato – con riguardo al motivo di appello circa l’invalidità della transazione perchè inficiata dal dolo – che dall’istruttoria processuale di primo grado non era emerso alcun elemento specifico e concreto circa la circostanza che il D.B., attraverso dichiarazioni menzognere, avesse posto in essere raggiri generale nei confronti del Co. mediante una rappresentazione alterata delle circostanze di fatto relative alle condizioni dei beni oggetto della transazione. Peraltro, la Corte d’Appello, ha anche precisato che i due procedimenti penali instaurati nei confronti del D.B. si erano conclusi con la remissione di querela e con l’archiviazione. Pertanto, in difetto di elementi comprovanti un comportamento fraudolento del D.B. ed anche tenuto conto del rilevante lasso di tempo intercorso tra la stipula della scrittura privata e il ritrovamento dei suddetti beni non poteva dirsi raggiunta la prova sulla sussistenza del dolo nella formazione del contratto. Tale prova era a carico della parte che aveva denunciato il vizio chiedendone l’annullamento.

Ne consegue che le doglianze, anche là dove denunciano il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si appalesano inammissibili, giacchè – a fronte dell’anzidetto accertamento compiuto dalla Corte territoriale, la quale ha individuato le fonti del proprio convincimento e valutato le risultanze probatorie dando conto dell’iter logico e deduttivo seguito – i ricorrenti, lungi dall’evidenziare deficienze intrinseche delle argomentazioni che sorreggono il decisimi, tendono, in realtà, ad una non consentita rivalutazione delle emergenze processuali al fine di conseguirne una lettura ad essi favorevole, ma diversa da quella fornita dal giudice di merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova.

E peraltro, come si è più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 3267 del 12/02/2008, Rv. 601665), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.

Allo stesso modo con riferimento all’errore lesivo della libera formazione del consenso la Corte d’Appello ha osservato che l’errore rileverebbe soltanto nel caso in cui avesse inciso sul percorso formativo della volontà nel momento della definizione dell’accordo transattivo. Nella specie, invece, non risultava che all’epoca della sottoscrizione dell’accordo il Co. versasse in errore sulla circostanza di fatto presupposto dell’accordo medesimo. Dalle risultanze istruttorie infatti emergeva che i beni in oggetto, antecedentemente alla scrittura privata, erano stati effettivamente smarriti o distrutti. In particolare, dopo il sequestro penale e la riconsegna di alcuni beni al Co., quelli oggetto della transazione, non si erano più rinvenuti. Lo smarrimento era quindi un fatto reale e il successivo ritrovamento avvenuto a distanza di anni non poteva rappresentare un fatto dal quale desumere la sussistenza di un errore non esistente al momento genetico del negozio.

Anche in questo caso la complessiva censura si risolve nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatti come emersi nel corso dei precedenti gradi del procedimento, cosi mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dal giudice di appello non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità.

Nel caso in cui le parti di un contratto per sua natura commutativo, nell’esplicazione della loro autonomia privata, esplicitamente o implicitamente abbiano convenuto l’unilaterale o reciproca assunzione di un prefigurato rischio futuro, estraneo al tipo negoziale prescelto, e tale da modificarlo e renderlo, per tale aspetto, aleatorio, non può escludersi l’annullabilità del contratto per errore, da ritenersi astrattamente ravvisabile ogni qual volta il processo formativo della volontà risulti viziato da una falsa rappresentazione della realtà circa i presupposti del contratto in relazione agli elementi in base ai quali ha luogo la valutazione del rischio contrattuale, la cui inesatta percezione può essere ritenuta determinante ai fini della formazione del consenso, restando esclusa, invece, l’annullabilità del negozio, nell’ipotesi in cui l’errore ricada sull’alea, cioè sulla probabilità di verificazione dell’evento destinato ad incidere sull’equilibrio contrattuale, atteso che, nel primo caso, l’errore si ripercuote sulla causa del negozio o sul suo contenuto, mentre nel secondo caso non dà luogo ad una inesatta percezione della realtà, ma ad un difetto di previsione incidente, al più, sui motivi del negozio (Sez. 1, Ord. n. 12453 del 2018).

In conclusione, deve ribadirsi che l’errore, quale vizio della volontà, assume rilevanza quando incida sul processo formativo del consenso, dando origine ad una falsa o distorta rappresentazione della realtà, a cagione della quale la parte si sia indotta a manifestare la propria volontà. Pertanto, l’effetto invalidante dell’errore è subordinato, prima ancora che alla sua essenzialità o riconoscibilità, alla circostanza (della cui prova è onerata la parte che deduce il vizio del consenso) che la volontà sia stata manifestata in presenza di tale falsa rappresentazione; il relativo accertamento rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Sez. 3, Sent. n. 21074 del 2009).

Non merita, pertanto, censura la sentenza impugnata.

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, omessa valutazione delle false dichiarazioni di D.B.P., tese a mantenere il possesso dei beni accertato dal giudice penale. La sentenza d’appello avrebbe completamente omesso di esaminare il fatto che le false dichiarazioni di D.B.P. accertate dal giudice penale non attenevano all’attività di custodia svolta negli anni dal D.B., come affermato nella sentenza, ma anche ai fatti antecedenti alla stipula della transazione. Sarebbe stato omesso, dunque, l’esame del profilo temporale delle false dichiarazioni fornite da D.B.P. che, se esattamente valutato, avrebbe dovuto portare a considerare il dolo come un fatto accertato dal giudice penale nel procedimento avente ad oggetto la custodia dei beni.

6.1 Il sesto motivo è inammissibile.

Il ricorrente deduce l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal D.B. al GIP senza riportarne il contenuto per esteso, non consentendo in tal modo un esame della censura circa l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Il ricorrente che, in sede di legittimità, denuncia la mancata considerazione o il fraintendimento di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova e di fornire un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di specificità del ricorso, la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso mediante indagini integrative” (ex plurimis Sez. 1, Sent. n. 5478 del 2018 Sez. U., Sent. n. 28336 del 2011).

Peraltro, dalla sentenza impugnata emerge che la Corte d’Appello ha preso in esame le dichiarazioni effettuate dal D.B. e dunque nessuna omissione della valutazione della prova può ritenersi sussistente.

7. Il ricorso è rigettato.

8. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7300 più 200 per esborsi;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione SeCONDA Civile, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2021

 

 

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