Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26215 del 16/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 16/10/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 16/10/2019), n.26215

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10460-2016 proposto da:

FUNZIONE PUBBLICA F. P. – CGIL PROVINCIALE DI NAPOLI, in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata ope legis in ROMA

presso la Cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato RAFFAELE FERRARA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE NAPOLI (OMISSIS) NORD, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLA BALDUINA n. 120/5, presso lo studio dell’avvocato FERRUCCIO

AULETTA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6162/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 15/10/2015 R.G.N. 705/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FERRUCCIO AULETTA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’appello della Funzione Pubblica – F.P. -C.G.I.L. Provinciale di Napoli avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato l’opposizione al decreto emesso ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 28 ed escluso il carattere antisindacale della condotta tenuta dalla ASL Napoli (OMISSIS) Nord la quale, nel predisporre il “Piano annuale pronta disponibilità 2013”, approvato con Delib. n. 177 del 15/2/2013, non aveva rispettato la procedura di concertazione, prevista dall’art. 7 del CCNL 20.9.2001 per il personale non dirigenziale del comparto sanità.

2. La Corte partenopea ha ricondotto la delibera citata nell’ambito degli atti organizzativi per i quali il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 34, prevede unicamente un onere di informazione del sindacato ed ha richiamato anche il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 1, che, nel testo risultante all’esito dell’intervento riformatore del 2009, esclude dalla contrattazione collettiva “le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’art. 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli artt. 5, comma 2, 16 e 17…”.

3. Il giudice d’appello ha desunto dalle disposizioni richiamate l’intento del legislatore di sottrarre alla concertazione ed all’attività negoziale la materia inerente l’organizzazione degli uffici, rimessa in via esclusiva all’unilaterale potere determinativo del datore, ed ha evidenziato che, in base al disposto del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 65, come interpretato autenticamente dal D.Lgs. n. 141 del 2011, art. 5, le modifiche normative hanno trovato immediata applicazione. Ha ritenuto, pertanto, che dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009 la disciplina contrattuale difforme dovesse considerarsi “automaticamente sostituita in applicazione dei meccanismi di eterointegrazione contrattuale previsti ex artt. 1339 e 1314 c.c.”.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Funzione Pubblica – F.P. – CGIL Provinciale di Napoli sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese l’ASL Napoli (OMISSIS) Nord con tempestivo controricorso. La causa, originariamente fissata per l’adunanza camerale del 21 febbraio 2019, è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione in udienza pubblica.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la Funzione Pubblica – F.P. – G.G.I.L. Provinciale di Napoli denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 34 e dalla L. n. 135 del 2012, art. 2, comma 17, nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 1, lett. b) e art. 7, commi 2 e 3, CCNL Sanità Pubblica, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 6 in relazione all’art. 1362 c.c. e ss.”. Premette la ricorrente che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, dopo l’intervento riformatore del 2009, è stato ulteriormente modificato dalla L. n. 135 del 2012, art. 2, comma 17, che ha reintrodotto l’esame congiunto, ove previsto nei contratti collettivi nazionali di cui all’art. 9 dello stesso decreto, “limitatamente alle misure riguardanti i rapporti di lavoro”. Addebita alla Corte territoriale di non aver tenuto conto della modifica normativa e sostiene che il Piano di Pronta disponibilità, che tra l’altro determina la dotazione organica e impegna il fondo economico accessorio previsto per tutto il personale dipendente della Asl, non poteva essere equiparato ad una determina dirigenziale di organizzazione degli uffici, trattandosi piuttosto di un atto di gestione dei rapporti di lavoro, da adottare previo esame congiunto, nel rispetto delle norme di legge richiamate in rubrica nonchè dell’art. 6, comma 1, lett. b) del CCNL, che prevede l’obbligo di concertazione in materia di “articolazione dell’orario di servizio” e di “definizione dei criteri per la determinazione della distribuzione dei carichi di lavoro”.

2. La seconda censura, formulata in via subordinata, lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2011, art. 5 in relazione al D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 65, comma 5, nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 1, modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 54, in relazione agli artt. 1339 e 1414 c.c. e in relazione all’art. 1362 c.c.”. La ricorrente sostiene, in via di estrema sintesi, che l’efficacia delle disposizioni riguardanti la contrattazione collettiva nazionale, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 65, è stata differita dal legislatore alla “tornata” contrattuale successiva a quella in corso al momento dell’entrata in vigore del decreto, sicchè sono stati fatti salvi gli effetti dei c.c.n.l. già stipulati, per i quali è stata prevista la caducazione non già per contrasto con la disciplina normativa bensì solo per il sopravvenire della fonte collettiva successiva, da negoziare nel rispetto dei diversi limiti posti dal legislatore.

3. Il primo motivo è fondato nella parte in cui rileva che il testo del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, rilevante nella fattispecie è quello risultante all’esito dell’ulteriore modifica attuata dal D.L. n. 95 del 2012, art. 2, comma 17, convertito dalla L. n. 135 del 2012, con il quale l’esame congiunto, escluso per le “determinazioni relative all’organizzazione degli uffici” è stato reintrodotto, ove previsto dalla contrattazione collettiva, “limitatamente alle misure riguardanti i rapporti di lavoro”.

Tuttavia la censura, con la quale si contesta la qualificazione dell’atto, ritenuto dal giudice d’appello espressione del potere di “micro” organizzazione degli uffici, non può essere scrutinata in questa sede, innanzitutto perchè, come osservato nelle conclusioni della Procura Generale, il sindacato ricorrente inammissibilmente prospetta una questione giuridica, implicante accertamenti di fatto, non sollevata nel giudizio di merito, nel quale invece aveva sostenuto che il Piano in quanto “atto di pianificazione e programmazione, investendo ed impegnando complessivamente l’intera organizzazione aziendale”, doveva essere assoggettato alla disciplina prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 6 (pag. 2 della sentenza impugnata) e non a quella dettata dall’art. 5, comma 2, invocato in questa sede nel testo risultante all’esito dell’intervento riformatore del 2012.

E’ noto che nel giudizio di cassazione, ove una questione giuridica implicante un accertamento di fatto (nella specie la distinzione fra “determinazioni relative all’organizzazione degli uffici” e “misure riguardanti i rapporti di lavoro” e la conseguente riconduzione dell’atto all’una o all’altra categoria previo esame del contenuto dello stesso) non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, “il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (in tal senso fra le più recenti Cass. n. 2038/2019).

3.1. Il motivo, inoltre, non è formulato nel rispetto dell’onere di specificazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 perchè, sebbene incentrato sull’interpretazione e sulla qualificazione della Delib. n. 177 del 15 febbraio 2013, non ne riporta nel ricorso il contenuto, neppure nelle parti essenziali, e, quindi, ne omette la “specifica indicazione”, che, anche qualora venga dedotta la violazione di norme di diritto, è finalizzata a consentire alla Corte la comprensione del motivo di doglianza, l’individuazione degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa e, soprattutto, la valutazione della sua decisività. A tali fini non è sufficiente che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. n. 19048/2016).

3.2. Infine il ricorrente omette di considerare che l’interpretazione degli atti unilaterali può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, applicabili ex art. 1324 c.c., perchè l’accertamento della volontà dell’autore in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto. E’ necessario, pertanto, che con il ricorso per cassazione la parte denunci la violazione dei canoni legali, mediante l’esplicito riferimento alle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, e precisi in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27136/2017), non potendo limitarsi a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative rispetto a quelle proposte dal giudice di merito.

I richiamati principi operano anche qualora il ricorso miri a contestare la qualificazione giuridica dell’atto, perchè al riguardo si deve ribadire, in continuità con orientamento già espresso da questa Corte (Cass. n. 13399/2005 e Cass. n. 24262/2007), che il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi: la prima, consistente nella ricerca e nell’individuazione della volontà, dei contraenti o dell’autore dell’atto unilaterale, è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.; la seconda è quella della qualificazione, che procede secondo il modello della sussunzione, cioè del confronto tra fattispecie concreta e tipo astrattamente definito dalla norma per verificare se la prima corrisponde al secondo. Solo questa seconda fase, non la prima, comporta l’applicazione di norme giuridiche, con la conseguenza che nel giudizio di legittimità il vizio di sussunzione è denunciabile ex art. 360 c.p.c., n. 3, a condizione che resti fermo l’accertamento del contenuto dell’atto effettuato dal giudice del merito, accertamento che, invece, è quello inammissibilmente contestato nella fattispecie.

Sussistono, pertanto, plurimi profili di inammissibilità che impediscono di scrutinare nel merito la censura.

4. E’ infondato il secondo motivo, con il quale si sostiene che non poteva la Corte territoriale fare applicazione della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, destinata ad operare solo a seguito della stipulazione di un nuovo CCNL.

Il D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 65, nel dettare la disciplina transitoria dello stesso decreto, ha stabilito che: “entro il 31 dicembre 2010, le parti adeguano i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto alle disposizioni riguardanti la definizione degli ambiti riservati, rispettivamente, alla contrattazione collettiva e alla legge, nonchè a quanto previsto dalle disposizioni del Titolo III del presente decreto” (comma 1); “in caso di mancato adeguamento ai sensi del comma 1, i contratti collettivi integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto cessano la loro efficacia dal 1 gennaio 2011 e non sono ulteriormente applicabili” (comma 2); “le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso”(comma 5).

4.1. Successivamente il legislatore è intervenuto, con il D.Lgs. n. 141 del 2011, art. 5, a dettare l’interpretazione autentica della disposizione prevedendo, al comma 1, che “il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 65, commi 1, 2 e 4, si interpreta nel senso che l’adeguamento dei contratti collettivi integrativi è necessario solo per i contratti vigenti alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo, mentre ai contratti sottoscritti successivamente si applicano immediatamente le disposizioni introdotte dal medesimo decreto” ed al comma 2 che “il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 65, comma 5, si interpreta nel senso che le disposizioni che si applicano dalla tornata contrattuale successiva a quella in corso al momento dell’entrata in vigore dello stesso D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, sono esclusivamente quelle relative al procedimento negoziale di approvazione dei contratti collettivi nazionali e, in particolare, quelle contenute nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 41, commi da 1 a 4, art. 46, commi da 3 a 7, e art. 47, come modificati rispettivamente dal D.Lgs. n. 150 del 2009, artt. 56 e 58, art. 59, comma 1, nonchè quella del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 66, comma 3”.

4.2. Deve essere escluso il carattere innovativo della disposizione dettata con il richiamato D.Lgs. n. 141 del 2011, art. 5 perchè, al contrario, l’interpretazione puramente letterale dell’art. 65, comma 5, invocata dal sindacato ricorrente, sarebbe tale da ingenerare una contraddizione all’interno della stessa disposizione.

Infatti, poichè dai commi 1 e 2 si evince che i contratti integrativi avrebbero dovuto adeguarsi alla nuova disciplina di legge, divenendo altrimenti inefficaci, e poichè la contrattazione integrativa pubblicistica è giuridicamente destinata ad operare nel quadro di quanto stabilito dalla contrattazione nazionale, si determinerebbe la conseguenza distonica per cui il predetto adeguamento del c.c.I. alla nuova normativa di legge avrebbe dovuto avere corso pur a fronte di una contrattazione nazionale che, secondo la tesi prospettata dal ricorrente, avrebbe conservato la sua efficacia, sebbene rispondente ai diversi principi che ispiravano la normativa previgente.

E’ dunque chiaro che altra debba essere (‘esegesi dell’art. 65, che va letto considerando, da un lato, l’esigenza di pronto adeguamento desumibile dalla disciplina dettata dai primi due commi della disposizione e, dall’altro, che l’intero sistema, quale innovato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, era volto ad assicurare in ogni caso preminenza alle disposizioni legali, salvo quanto da esse diversamente disposto, rispetto alla contrattazione collettiva nazionale (art. 2 D.Lgs. cit. come modificato appunto dal D.Lgs. n. 150 cit.).

La norma interpretativa, limitando, per quanto qui interessa, la dilazione di efficacia alle sole regole procedurali di negoziato, ha esplicitato un contenuto dell’art. 65 già desumibile dal testo originario della disposizione, la cui esegesi non poteva che essere finalizzata a rendere compatibili i commi 1 e 2 con il comma 5.

Ciò in coerenza, sia con i principi di fondo della nuova disciplina (art. 2 cit.), sia con l’esigenza, rispettosa dei principi fissati dall’art. 97 Cost., di non rimettere l’adeguamento organizzativo del sistema rispetto al nuovo assetto di legge ai tempi potenzialmente incerti della futura contrattazione collettiva nazionale.

Quella in esame è, dunque, norma di effettiva interpretazione autentica dell’originario testo di legge, non a caso intervenuta a fronte di contrastanti orientamenti dei giudici di merito, della cui legittimità costituzionale non si può dubitare, perchè ispirata dall’esigenza di interesse generale di assicurare coerenza e certezza all’ordinamento giuridico, ovviando alla contraddittorietà altrimenti insita nel testo originario, senza finalità di interferire rispetto ad una specifica controversia.

Non si può ipotizzare, pertanto, la lesione di un legittimo affidamento ingenerato nei consociati, stante la riscontrata ambiguità di formulazione del dettato normativo (sulle condizioni che giustificano l’adozione di norme di interpretazione autentica e, quindi, retroattive si rimanda fra le più recenti a Corte Cost. n. 132/2016).

Ne discende che, come correttamente affermato dalla Corte territoriale, le nuove regole di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5. trovano applicazione fin dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009.

5. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Non occorre dare atto dei presupposti processuali previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, perchè dagli atti risulta l’esenzione dal pagamento del contributo unificato in ragione della natura dell’azione proposta.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.500,00 per competenze professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese generali del 15% e accessori di legge.

Rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2019

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