Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26212 del 19/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 19/12/2016, (ud. 15/09/2016, dep.19/12/2016),  n. 26212

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12487-2015 proposto da:

O.M., quale erede di O.S., rappresentato e

difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dagli Avvocati

Sabrina Mautone e Serafino Carlo Pionati;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12,

presso l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e

difende per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 117/2015 della Corte d’appello di Perugia,

depositato il 20 gennaio 2015;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15

settembre 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Perugia il 9 ottobre 2010, O.M., quel erede di O.S. (deceduto il (OMISSIS)), riassumeva il giudizio di equa riparazione introdotto dal proprio dante causa dinnanzi alla Corte d’appello di Napoli, poi dichiaratasi incompetente, volto ad ottenere l’indennizzo per la irragionevole durata del giudizio iniziato dinnanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per le pensioni civili, in Roma, con ricorso del 27 aprile 1989, e conclusosi con sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Campania della Corte dei conti, depositata il 5 marzo 2008, di rigetto della domanda;

che la Corte d’appello di Perugia, accertata una durata irragionevole di sedici anni, riteneva tuttavia che al ricorrente non potesse essere riconosciuto l’indennizzo richiesto perchè la domanda azionata dal suo dante causa dinnanzi alla Corte dei conti – domanda volta ad ottenere la riliquidazione della pensione in godimento tenendo conto dell’importo delle retribuzioni del personale in servizio di corrispondente anzianità e qualifica – era sin dal momento della sua proposizione manifestamente infondata; con la precisazione che con una ordinaria diligenza la parte avrebbe potuto avvedersi che la Corte costituzionale, sin dal 1973, aveva escluso l’esistenza di un principio che rendesse cogente la cosiddetta “riliquidazione automatica” delle pensioni, con necessario aggancio alla “dinamica salariale” dei dipendenti di pari grado in attività di servizio;

che dunque doveva escludersi che il dante causa del ricorrente avesse patito un qualsivoglia paterna d’animo per la pendenza del giudizio presupposto, pur se protrattasi in una misura irragionevole;

che per la cassazione di questo decreto O.M., nella qualità, ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo;

che il Ministero dell’economia e delle finanze ha resistito con controricorso.

Considerato che il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata;

che deve essere preliminarmente dichiarato inammissibile il controricorso dell’Amministrazione intimata, atteso che lo stesso risulta notificato presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione pur se nel ricorso era chiaramente indicata, ai fini delle comunicazioni di cancelleria e delle notificazioni tra difensori, la pec cui inviare l’atto; che trova, infatti, applicazione il principio per cui “in tema di giudizio per cassazione, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2, nel testo introdotto dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, è inammissibile il controricorso notificato presso la cancelleria della Corte anzichè presso l’indirizzo di posta elettronica certificata indicato in ricorso” (Cass. n. 26696 del 2013);

che con l’unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4, rilevando che, al momento della proposizione della domanda (1989) la questione devoluta alla Corte dei conti non era così scontata, in senso negativo, come affermato dalla Corte territoriale, atteso che solo nel 1993 è mutata la giurisprudenza;

che, d’altra parte, il fatto di avere già proposto un’azione giudiziaria aveva impedito al suo dante causa di poter agire per la riliquidazione del suo trattamento pensionistico sulla base della L. n. 216 del 1992; che erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha ritenuto che il ricorrente fosse consapevole della infondatezza della propria domanda già al momento della sua proposizione, in quanto le decisioni della Corte costituzionale sulle quali la detta valutazione è stata formulata erano in realtà successive all’introduzione del giudizio presupposto;

che il ricorso è infondato;

che nella giurisprudenza di questa Corte il diritto all’equa riparazione è escluso per ragioni di carattere soggettivo: a) nel caso di lite temeraria (v. fra le tante, Cass. n. 28592 del 2011; Cass. n. 10500 del 2011 e Cass. n. 18780 del 2010), cioè quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con la consapevolezza del proprio torto o sulla base di una prete sa di puro azzardo; b) nell’ipotesi di causa abusiva (cfr. tra le tante, Cass. n. 7326 del 2015; Cass. n. 5299 del 2015; Cass. n. 23373 del 2014), che ricorre allorchè lo strumento processuale sia stato utilizzato in maniera distorta, per lucrare sugli effetti della mera pendenza della lite; e c) in tutte le ipotesi in cui la specifica situazione processuale del giudizio di riferimento dimostri in positivo, per qualunque ragione, come la parte privata non abbia patito quell’effettivo e concreto pregiudizio d’indole morale, che è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (v. per tutte e da ultimo, Cass. n. 7325 del 2015); che, inoltre, il comma 2- quinquies, aggiunto alla L. n. 89 del 2001, art. 2 dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. a), n. 3) convertito, con modificazioni, in L. n. 134 del 2012, ha previsto, con elencazione da ritenersi non tassativa, talune ulteriori ipotesi di esclusione dell’indennizzo, in presenza delle quali il giudice non dispone di margini d’apprezzamento della fattispecie;

che tale norma è stata oggetto di ulteriore intervento da parte del legislatore con la L. n. 208 del 2015, la quale ha disposto che “non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all’art. 96 c.p.c.;

che, in base alla disciplina ratione temporis applicabile, tra le ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo per la violazione della ragionevole durata del processo non rientra quella della manifesta infondatezza della domanda, ove non sia caratterizzata dall’ulteriore profilo della temerarietà o della abusività (Cass. n. 21131 del 2015; Cass. n. 18834 del 2015);

che, nella specie, la Corte d’appello si è attenuta ai principi suindicati, procedendo ad un’autonoma valutazione in ordine alla sussistenza di una situazione di colpa grave in capo all’originario ricorrente nella proposizione del giudizio presupposto; valutazione, questa, idoneamente verificata sulla base delle indicazioni desumibili dalla sentenza che ha definito il giudizio presupposto e che, implicando apprezzamenti di fatto, si sottrae alle proposte censure;

che, d’altra parte, questa Corte ha di recente chiarito che l’indennizzo può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche in assenza della condanna per responsabilità aggravata, potendo il giudice del procedimento di equa riparazione, già prima delle modifiche di cui alla L. n. 208 del 2015, autonomamente valutare la temerarietà della lite (Cass. n. 9100 del 2016);

che il ricorso va quindi rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al testo unico approvato con D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte suprema di cassazione, il 15 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 196 dicembre 2016

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