Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26211 del 18/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 18/10/2018, (ud. 22/03/2018, dep. 18/10/2018), n.26211

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8925/2015 proposto da:

Z.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato CARLO DE MARCHIS, che lo

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

BARBERINI 47, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PANDOLFO, che lo

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7010/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/09/2014; r.g.n. 8367/2012.

Fatto

RILEVATO

Che la corte d’appello Roma con sentenza n. 7010 del 2014 ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma del 2012, che aveva respinto la domanda di Z.M.G. diretta a far accertare la nullità dei cinque contratti a termine stipulati con Poste Italiane spa ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nel periodo dal 19.1.2007 sino al 10.10.2008, per lo svolgimento di mansioni di addetta al cali center per i prodotti (OMISSIS) e (OMISSIS).

Che la corte territoriale ha ritenuto che l’estensione della disciplina di cui all’art. 2, comma 1 citato alle imprese concessionarie dei servizi postali non è in contrasto con la normativa comunitaria, trattandosi di una disciplina esclusiva alternativa e non aggiuntiva rispetto a quella di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1.

Che, quanto al rispetto della clausola di contingentamento del 15%, la corte di merito ha escluso che si dovesse far riferimento, per la determinazione dell’organico aziendale, alle mansioni svolte, con inclusione di tutto l’organico dei lavoratori anche adibiti ai servizi finanziari, come la Z. e che infine anche la reiterazione dei contratti era avvenuta nell’arco temporale previsto per legge ed effettuata nel rispetto della norma, senza che venissero superati i limiti per ciascun anno solare di riferimento.

Che avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Z. affidato a tre motivi, a cui ha resistito Poste italiane spa con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che i motivi hanno riguardato: 1) la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 2 bis, come modificato dalla L. n. 247 del 2007, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: per la ricorrente la corte avrebbe errato nel ritenere legittima la fattispecie di contratto cd “acausale” esteso anche ad attività del tutto estranee allo svolgimento del servizio di carattere pubblico, in qualità di concessionaria di un servizio postale universale, come previsto dalla sentenza della corte costituzionale n. 214/2009, mentre una tale esigenza non sussisterebbe per attività finanziarie o di call center e comunque di Banco posta; 2) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, della Direttiva 1999/70/CE, nonchè l’omesso esame di fatto decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5: la sentenza impugnata avrebbe errato non accertando l’illegittimità della reiterazione dei cinque contratti a termine, con superamento del limite dei quattro mesi previsti dalla norma nei periodi diversi da aprile ad ottobre. Nell’anno solare 30.3.2008 30.3.2007, la Z. infatti avrebbe lavorato 161 gg e dunque per un periodo superiore a quattro mesi; 3) la violazione del D.Lgs. n. 368, artt. 1 e 2, artt. 1344 e 1345 c.c. e della direttiva 99/70 citata, nonchè un omesso esame di fatto decisivo. Per la ricorrente la corte d’appello avrebbe limitato la propria analisi al mero rispetto formale delle date di svolgimento della prestazione lavorativa, non facendo applicazione di un istituto generale previsto dall’art. 1344 c.c., una norma di contenuto aperto che fa riferimento al fenomeno dell’abuso del diritto, nel caso in esame attuato ponendo in essere contratti in frode alla legge. In particolare la corte di merito avrebbe valutato singolarmente la conformità alla normativa dei contratti a termine appartenenti alla sequenza e non avrebbe invece considerato la quantità dei rinnovi e la finalità perseguita che, viceversa, costituirebbe l’elemento cardine dell’abuso, in termini di frode alla legge perchè diretta in concreto ad eludere la normativa vincolistica.

Che il primo motivo è in parte inammissibile perchè privo di specificità, contenendo in realtà una mera ed inutile trascrizione integrale degli atti dei giudizi di merito non correlata alla censura mossa; da pagina 10 a pagina 32 viene trascritto per intero il ricorso di primo grado e quindi da pagina 32 a pagina 66 quello di appello, atti che non hanno nessuna finalità di critica diretta e specifica delle argomentazioni della sentenza impugnata relative alle ragioni per le quali la corte ha affermato la natura esclusiva/alternativa della disciplina dei contratti a termine cd “acasuali” introdotta con la L. n. 266 del 2005. Comunque il motivo, anche nelle poche e frammentarie critiche svolte alla tesi argomentativa della corte, non merita accoglimento perchè infondato.

Che infatti la questione della cd “acausalità” del contratto a termine di cui all’art. 2, comma 1 bis, è stata già risolta dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza del 31/05/2016 n. 11374, nella quale si è affermato il seguente principio di diritto: “Le assunzioni a tempo determinato effettuate da imprese concessionarie di servizi nel settore delle poste, che presentino i requisiti specificati dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, non necessitano anche dell’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ai sensi dell’art. 1, comma 1 del medesimo D.Lgs.”.

Che inoltre la questione di compatibilità della normativa nazionale con la clausola di non regresso di cui all’articolo 8 della direttiva 1999/70 è stata dichiarata infondata dalla Corte di Giustizia (ordinanza sez. 6, 11/11/2010, n. 20, Vino c/o Poste), che ha valorizzato l’assunto secondo cui l’adozione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, perseguiva uno scopo distinto da quello dell’attuazione, nell’ordinamento nazionale, dell’accordo quadro di cui alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, essendo finalizzata, piuttosto, a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado di flessibilità allo scopo di garantire l’attuazione della direttiva 1997/67/CE in tema di sviluppo del mercato interno dei servizi postali, con particolare riferimento al miglioramento della qualità del servizio.

Che neanche merita accoglimento il secondo motivo di gravame che, come il primo motivo, presenta anche profili di inammissibilità perchè con riferimento ad una stessa questione – la durata e la sequenza dei cinque contratti intercorsi tra le parti dal 30 marzo 2007 al 30 marzo 2008 e la relativa previsione della norma (“assunzione effettuata per un periodo massimo di sei mesi compresi tra aprile e ottobre di ogni anno e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti”) – la ricorrente denuncia sia una violazione di legge, sia un omesso esame di fatto decisivo, senza che siano chiaramente formulate censure aventi ad oggetto un’errata interpretazione della norma prima ricordata e, distintamente, un mancato esame del fatto storico, che non viene neanche chiaramente individuato.

Che comunque il motivo è infondato. Ed infatti premesso che in assenza di una espressa indicazione nella norma all’anno solare (calcolato quindi dal primo contratto), deve ritenersi che il riferimento del legislatore sia stato all’anno civile di calendario (1 gennaio-31 dicembre), nel caso in esame la decisione della corte va comunque esente da censura atteso che la sentenza, pur avendo fatto riferimento “all’anno solare”, ha poi correttamente ritenuto che i contratti stipulati nei periodi diversi da aprile/ottobre, relativi comunque ai diversi anni di riferimento, non avevano mai superato complessivamente i quattro mesi.

Che il terzo motivo egualmente non merita accoglimento. Anche tale motivo infatti contiene identici profili di inammissibilità in quanto la censura viene formulata e articolata sia in termini di violazione di legge, in particolare con riferimento alla fattispecie del contratto in frode alla legge di cui agli artt. 1344 e 1445 c.c., sia anche in termini di omesso esame di fatto decisivo, senza una chiara distinzione così che la sua formulazione non permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (cfr. Cass. n. 9100/2015).

Che invero la censura della violazione dell’art. 1344 c.c., è priva di specificità e per nulla articolata, ma egualmente inammissibile è la censura dell’omesso esame di fatto decisivo. Ed infatti la sentenza, sia pure con una motivazione stringatissima e del tutto insufficiente (la sentenza si limita ad affermare: “la reiterazione dei contratti, pure dedotta come motivo di appello, rientra nei limiti stabiliti dalla norma non avendo superato i singoli contratti i limiti per ciascun anno solare di riferimento”), esamina tuttavia entrambe le questioni poste dalla ricorrente, sia con riferimento alla violazione dei limiti temporali in cui contratti andavano stipulati – questione oggetto del secondo motivo di gravame – sia con riferimento alla reiterazione degli stessi in termini di abuso.

Che poichè la reiterazione dei contratti, fatto storico decisivo posto alla base della doglianza della ricorrente, risulta essere stata esaminata dalla Corte, sia pure nel limitato e insufficiente ambito motivazionale prima ricordato, non può affermarsi che vi sia stato da parte della corte romana l’omesso esame di un fatto decisivo che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione applicabile ratione temporis alla presente causa, ora richiede.

Che il ricorso deve quindi essere respinto, con condanna della ricorrente, soccombente, alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 22 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018

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