Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26206 del 28/09/2021

Cassazione civile sez. trib., 28/09/2021, (ud. 29/04/2021, dep. 28/09/2021), n.26206

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17814/2018 R.G. proposto da:

Stanleybet Malta Limited, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Roberto A. Jacchia,

Antonella Terranova, Fabio Ferraro e Daniela Agnello, con domicilio

eletto in Roma, via Vincenzo Bellini n. 24 presso lo studio dei

primi tre difensori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 5180/2/17, depositata il 12 dicembre 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 aprile

2021 dal Consigliere Enrico Manzon.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto da Stanleybet Malta Limited (breviter, SMA) avverso la sentenza n. 9991/21/15 della Commissione tributaria provinciale di Milano che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per imposta unica sulle scommesse 2011-2012.

La CTR osservava in particolare:

– il gestore di CTD (centro trasmissione dati) doveva essere affermato soggetto passivo dell’imposta unica sulle scommesse in quanto “ricevitore” delle medesime, indipendentemente dall’esistenza di una valida concessione;

– che il bookmaker SMA doveva considerarsene co-obbligato;

– che ciò derivava da una corretta interpretazione/applicazione della normativa interna, la quale doveva considerarsi conforme sia alla Costituzione italiana sia al diritto dell’UE.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione SMA deducendo otto motivi, poi illustrati con una memoria.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle dogane, illustrato con memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Preliminarmente, l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza va disattesa.

In adesione all’indirizzo espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass., sez. un., 5 giugno 2018, n. 14437), e allorquando non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8093). In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo.

Nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla Stanleybet Malta Limited); e i principi da quelle Corte stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480).

Ne’ la giurisprudenza penale di questa Corte richiamata nell’istanza di rimessione alla pubblica udienza è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate. Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive va anzitutto nuovamente sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80). Ad ogni modo, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perché le parti hanno illustrato la propria rispettiva posizione in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte.

Con il primo motivo la ricorrente – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – denuncia la violazione/falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, L. n. 241 del 1990, art. 3, poiché la CTR ha respinto la sua eccezione di invalidità dell’atto impositivo impugnato per vizio motivazionale.

La censura è inammissibile.

La ricorrente infatti impugna il punto della sentenza della CTR lombarda che statuisce sulla questione de qua, senza tuttavia riportare il testo dell’avviso di accertamento impugnato, in patente violazione del principio di autosufficienza del ricorso, così impedendo alla Corte di sindacare sostanzialmente la critica proposta.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12, L. n. 4 del 1929, art. 24, artt. 24-97 Cost. e del principio unionale di obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale, poiché la CTR non ha accolto la sua eccezione di invalidità dell’atto impositivo impugnato a causa della mancata notifica del PVC redatto nei confronti del “ricevitore” (CTD); subordinatamente chiede il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.

La censura è infondata.

Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dall’orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 09/12/2015, n. 24823, secondo cui il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto; con la conseguenza che, fuori dal terreno dei tributi armonizzati, l’obbligo dell’amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale sussiste esclusivamente solo nelle ipotesi per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito (la giurisprudenza successiva che ha applicato il suddetto principio è numerosissima: v. Cass. 11 maggio 2018, n. 11560, Cass. 4 dicembre 2020, n. 27818, Cass. 2 gennaio 2021, n. 1530, Cass. 25/01/2021, n. 1445);

L’imposta unica sulle scommesse, come accennato, non è un tributo armonizzato e il diritto nazionale per essa non prevede espressamente un obbligo di contraddittorio endoprocedimentale; L’estraneità dell’imposta unica sulle scommesse al novero dei tributi armonizzati impone anche di disattendere l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; né in senso contrario vale richiamare il fatto che la Corte di giustizia si è comunque occupata della tematica dei giochi d’azzardo in alcune occasioni, poiché, come detto sopra, ciò ha fatto soltanto al fine di verificare se determinati meccanismi impositivi degli Stati membri potessero ostacolare una delle libertà fondamentali garantite dai trattati U.E., vale a dire la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 del TFUE (Corte giust. 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17 e ivi richiami ai precedenti), ma non per estendere alle imposte previste dalle legislazioni nazionali principi dettati per i tributi armonizzati.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4,D.L. n. 98 del 2001, art. 24, comma 10, poiché la CTR ha affermato corretta l’aliquota d’imposta applicata dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

La censura è inammissibile.

In realtà, rispetto al criterio di commisurazione dell’aliquota secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), n. 3), valevole per tutti i soggetti che svolgono l’attività di raccolta delle scommesse, in alcun modo parte ricorrente deduce o allega in ordine al fatto che l’eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere diversamente sulla determinazione dell’imponibile e sull’applicazione dell’aliquota operata dall’amministrazione doganale secondo le prescrizioni di legge, non consentendo, in questo modo, a questa Corte di apprezzare la rilevanza del profilo di censura.

Con il quinto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, – la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, poiché la CTR ha omesso di valutare la sua eccezione di violazione/falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, lett. b), artt. 1326, 1327 e 1336 c.c., affermando la sussistenza del presupposto territoriale del tributo.

Con il sesto ed il settimo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 34, – la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, poiché la CTR ha omesso di valutare la sua eccezione di violazione/falsa applicazione degli artt. 56 ss., TFUE e dei principi unionali di libera prestazione di servizi, parità di trattamento, non discriminazione e proporzionalità con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 come interpretato dall’art. 1, comma 66, della legge di stabilità per il 2011, con richiesta subordinata di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.

Con l’ottavo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente denuncia la violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 64, comma 3, in relazione all’art. 3 Cost., comma 1, art. 53 Cost., comma 1, ed alla sentenza corte costituzionale n. 27/2018.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono infondate.

Innanzitutto, quanto ai dedotti vizi di attività (omessa pronuncia) deve ribadirsi il consolidato principio di diritto che “Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01) e che “Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (Cass. n. 2313 del 01/02/2010; ex pluribus conf. Cass. n. 16171 del 28/06/2017; Cass. n. 9693 del 19/04/2018).

Ed appunto nel “merito cassatorio”, quali denunce di violazione/falsa applicazione di legge, le questioni sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante Cass. 8907-8911/2021, 9079-9081/2021, 9144-9153/2021, 9160/2021, 9162/2021, 9168/2021, 9176/2021, 9178/2021, 9182/2021, 9184/2021, 9160/2021, 9516/2021, 9528-9537/2021, 9728-9735/2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c.”.

Merita di essere specificamente sottolineato, peraltro, che il quadro normativo pertinente è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con il ricorso.

La Corte costituzionale, con riferimento all’ambito soggettivo dell’imposta, ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio ed ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni, svolgendo anch’esse una attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione.

A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole. L’attività consiste, infatti, nella raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale.

Entrambi i soggetti partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker.

Della sussistenza di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte (v. anche Cass. 27 luglio 2015, n. 15731), neppure attagliandosi al rapporto tra il bookmaker e ricevitore lo schema della solidarietà dipendente, che ricorre, invece, quando uno dei coobbligati, pur non avendo realizzato un fatto indice di capacità contributiva, si trova in una posizione collegata con il fatto imponibile o con il contribuente, sulla base di un rapporto a cui il fisco resta estraneo (da ultimo Cass. n. 26489/2020).

Ne’ viola il principio della capacità contributiva la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Ciò in quanto, attraverso la regolazione negoziale delle commissioni, il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera, assolvendo la rivalsa funzione applicativa del principio di capacità contributiva.

In forza di tale articolato percorso la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, restando esclusa la possibilità, per la già cristallizzata determinazione in quel periodo dell’entità delle commissioni tra ricevitorie e bookmaker, di poter procedere alla traslazione dell’imposta. Per le annualità d’imposta antecedenti al 2011, dunque, non rispondono le ricevitorie ma solamente i bookmaker, con o senza concessione, in base alla combinazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 e L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. a), usciti indenni dal vaglio di legittimità costituzionale.

La suddetta ragione di incostituzionalità non è stata ravvisata per i “rapporti successivi al 2011”, quindi non solo per gli eventuali rapporti negoziali perfezionati dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, ma anche per i rapporti che, seppure sorti in data antecedente, si sono protratti oltre l’entrata in vigore della medesima norma. In entrambi i casi, invero, la disposizione interpretativa del 2010 costituisce parametro normativo di riferimento per definire negozialmente l’assetto di interessi delle parti, sia in caso di rapporti sorti successivamente che per quelli già sorti e destinati a protrarsi, potendo le parti, alla luce e tenendo conto proprio della scelta normativa di assoggettare al tributo anche i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione, rimodulare la regolazione negoziale delle commissioni al fine di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera la ricevitoria. La solidarietà dell’obbligazione e la correlata possibilità di traslazione dell’imposta sono, infatti, destinate ad influire sulla stessa portata della regolazione negoziale delle commissioni tra le parti, che, anche quando i rapporti economici siano rimasti invariati, ossia non siano stati oggetto di modifiche o di nuovi accordi in conseguenza della L. n. 220 del 2010, assume, necessariamente, un valore di conformità e adeguatezza rispetto alla nuova configurazione legale del rapporto.

Va rilevato, inoltre, ai fini della territorialità dell’imposizione, che non rileva la conclusione del contratto di scommessa poiché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.), attività, queste, tutte svolte in Italia.

Neppure è condivisibile l’interpretazione propugnata della sentenza della Corte Cost. n. 27/2018, né è configurabile, alla stregua dei principi da essa affermati, una irragionevolezza della norma interpretativa nella parte in cui, prevedendo la imponibilità anche delle scommesse a quota fissa offerte con modalità transfrontaliera in assenza di concessione, non ha tenuto conto che il movimento delle suddette scommesse, proprio in quanto realizzate fuori sistema, non viene rilevato, sicché la base imponibile viene determinata senza considerare il movimento netto reale, essendo le stesse escluse dalla formazione del movimento netto che determina l’applicazione delle aliquote, con la conseguenza che verrebbero applicate aliquote superiori a quelle che avrebbero dovuto applicarsi per legge. Il profilo di censura, del resto, postula solo in astratto la circostanza che l’applicazione della disciplina di determinazione del movimento netto sul quale commisurare l’aliquota dell’imposta unica anche nel caso di scommettitore privo di concessione, avrebbe determinato l’applicazione dell’aliquota massima che diversamente, ove si fossero considerate anche le scommesse fuori sistema, non sarebbe stata applicata. In realtà, rispetto al criterio di commisurazione dell’aliquota secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), n. 3), valevole per tutti i soggetti che svolgono l’attività di raccolta delle scommesse, in alcun modo parte ricorrente deduce o allega in ordine al fatto che l’eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere diversamente sulla determinazione dell’imponibile e sull’applicazione dell’aliquota operata dall’amministrazione doganale secondo le prescrizioni di legge.

Quanto alle prospettate frizioni con il diritto unionale, premesso che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata, sicché rileva l’art. 56 del TFUE, la Corte di Giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, ha preso diretta e specifica cognizione proprio delle medesime questioni sollevate con il ricorso, ed ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato”.

Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: per conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07).

Il legislatore nazionale ha proceduto a questa valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64 i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”.

La prevalenza dell’ordine di valori di ciascuno Stato membro comporta che gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83).

Orbene, la Corte di Giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri.

Anzi, come ha pure sottolineato la Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 27/18), a seguire la tesi prospettata in ricorso e ribadita in memoria si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione…”.

Ne’ vi è incongruenza, poi, tra i punti 17, 26 e 28 di quella sentenza. Col punto 17, in relazione al bookmaker, ci si limita a stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro; ma col punto 24 si specifica, in concreto, che, “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicché, si conclude col punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”. Quanto al centro trasmissione dati, il punto 26 si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), ma ciò non toglie – punto 28 – che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione che li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro.

La diversità della situazione è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte giust. 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi esplicitamente perseguiti dal legislatore italiano (L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 644), come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia. Di qui l’esclusione, anche con riguardo alla posizione del centro trasmissione dati, di qualsiasi restrizione discriminatoria.

Quanto all’asserita violazione del principio dell’affidamento, prospettata in relazione alla portata innovativa della disposizione interpretativa della legge del 2010 che avrebbe introdotto, “improvvisamente e imprevedibilmente” la responsabilità delle ricevitorie dei bookmaker privi di concessione, al di là dei profili di inammissibilità della censura con riferimento alla posizione del ricevitore, in ordine alla quale, peraltro, la Corte costituzionale, con la sentenza citata, si è già espressa con la pronuncia di incostituzionalità relativamente alla portata innovativa retroattiva della norma, va rilevato, quanto alla posizione del bookmaker estero, che la stessa Corte costituzionale non ha posto in discussione il fatto che costui, anche privo di concessione, doveva essere considerato soggetto passivo dell’imposta unica anche prima della entrata in vigore della disposizione interpretativa, sicché non può porsi alcuna violazione del principio del legittimo affidamento”.

Va poi anche rilevato che in memoria il profilo centrale della linea difensiva in esame si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale.

Più in particolare, tali argomentazioni difensive si fondano sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione.

Tuttavia, le suddette considerazioni rendono priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione.

La ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame.

La giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4 bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”. Il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, peraltro non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1 si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3 si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”.

L’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare.

A parte il rilievo che il pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati.

Con il quarto motivo la ricorrente – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – lamenta la violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, poiché la CTR non ha ritenuto applicabile l’esimente, prevista dalla evocata disposizione legislativa, in relazione alle sanzioni applicate dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

La censura è infondata.

Va ricordato che, secondo questa Corte, l’incertezza normativa oggettiva tributaria “e’ caratterizzata dall’impossibilità d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, e va distinta dalla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto (il cui accertamento è demandato esclusivamente al giudice e non può essere operato dall’amministrazione), come emerge dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, che distingue le due figure, pur ricollegandovi i medesimi effetti. Peraltro, il fenomeno dell’incertezza normativa oggettiva può essere desunto dal giudice attraverso la rilevazione di una serie di “fatti indice”, quali ad esempio: 1) la difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente” (Cass. 17 maggio 2017, n. 12301; Cass. 13 giugno 2018, n. 15452, Cass. 12 aprile 2019, n. 10313, Cass. 9 dicembre 2019, n. 32082).

Con riferimento al caso di specie, la sopra citata sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 23 gennaio 2018, nel ricostruire l’ambito applicativo del D.Lgs. n. 504 del 1988, art. 3 come interpretato autenticamente dalla L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha bensì affermato che, anche alla luce della disciplina previgente, soggetto passivo dell’imposta è anche chi svolge l’attività di gestione delle scommesse anche se privo di concessione, con conseguente responsabilità del “bookmaker” estero che, mediante un proprio intermediario, svolga l’attività di gestione delle scommesse pur se privo di concessione.

La stessa sentenza ha tuttavia anche evidenziato che “il tenore letterale della disposizione consentiva anche una diversa interpretazione, nel senso che, attraverso il richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 1 al rispetto della concessione e della licenza di pubblica sicurezza, essa contemplasse i soli soggetti operanti nel sistema concessorio (ad esclusione perciò dei “bookmaker” con sede all’estero, sforniti di titolo concessorio in Italia, e della rete delle ricevitorie di cui essi si avvalgono nel territorio italiano)” (punto 4.1.), dando poi atto del fatto che “con la disposizione interpretativa della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), il legislatore ha dunque esplicitato una possibile variante di senso della disposizione interpretata” e che la stessa Agenzia autonoma dei monopoli di Stato aveva espressamente riconosciuto che la normativa in esame si prestava alla considerazione di incertezza applicativa (punto 4.1.).

In sostanza, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la previsione contenuta nel D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 si prestava ad un duplice opzione interpretativa in ordine alla sussistenza o meno della individuazione della soggettività passiva del “bookmaker” estero che, mediante una ricevitoria operante nel territorio nazionale, avesse svolta l’attività di gestione delle scommesse senza concessione e che la disposizione interpretativa del 2010 è intervenuta al fine di esplicitare il contenuto della incerta previsione, orientando la scelta interpretativa nel senso della sussistenza della soggettività passiva.

La fattispecie, dunque, deve essere collocata nell’ambito della previsione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, sussistendo, fino al momento della entrata in vigore della disciplina interpretativa del 2010, una condizione di obiettiva incertezza normativa in ordine alla soggettività passiva del “bookmaker” estero operante in Italia, mediante propri intermediari, senza concessione. Nel caso di specie, a contrario, non può invece evocarsi l’esimente de qua, trattandosi di anni d’imposta successivi al 2010 e quindi non sussistendo più alcuna incertezza interpretativa per effetto della legge interpretativa giudicata pro futuro costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale.

Non si ravvisa la necessità alcuna di promuovere un nuovo rinvio dinanzi alla Corte di giustizia, neppure ponendosi una questione di interpretazione della precedente statuizione della Corte, esaustiva e completa, risolvendosi le deduzioni in una mera critica della sentenza resa nella causa C-788/18, che si rivela sterile per le ragioni esplicate, e, per altro verso, sembra postulare che la Corte di giustizia abbia riconosciuto nella propria giurisprudenza precedente la legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei centri di trasmissione dati, mentre la stessa Corte, “pur avendo constatato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni delle gare avviate per l’attribuzione di contratti di concessione di servizi connessi ai giochi d’azzardo, non si è pronunciata sulla legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei CTD in quanto tale” (Corte giust., in causa C375/17, cit., punto 67).

Come detto, va poi ribadito che è poi irrilevante la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. 25439/2020) che si riferisce alla diversa questione della rilevanza penale dell’attività d’intermediazione e di raccolta delle scommesse, esclusa, in base alla giurisprudenza unionale, qualora l’attività di raccolta sia compiuta in Italia da soggetti appartenenti alla rete commerciale di un bookmaker operante nell’ambito dell’Unione Europea che sia stato illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni. Il fatto che quel bookmaker non risponda del reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o discommessa, previsto e punito dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 4, commi 1 e 4-bis, nessuna influenza produce sulla soggettività passiva della imposta unica sulle scommesse, che il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3 riferisce a chiunque, con o senza concessione, gestisce i concorsi pronostici o le scommesse.

In conclusione il ricorso va rigettato.

L’intervento risolutore delle questioni, in epoca successiva alla proposizione del ricorso, ad opera della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia, giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2021

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