Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26205 del 19/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 19/12/2016, (ud. 10/05/2016, dep.19/12/2016),  n. 26205

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. LOMBNARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 417-2015 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

S.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO

REGOLO 12/D, presso lo studio dell’avvocato ITALO CASTALDI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati DOMINICO PIZZILLO

BIANCA MARIA LEONE giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 5679/2010,

depositato il 10/07/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2016 dal Consigliere Dott. Relatore MILENA FALASCHI;

udito l’Avvocato Italo Castaldi difensore del controricorrente chiede

il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 14 luglio 2010 presso la Corte di appello di Roma S.R. proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno patrimoniale e non sofferto a causa della non ragionevole durata del giudizio di equa riparazione del processo introdotto dinnanzi al Tribunale di Benevento, con atto di citazione notificato il 7 agosto 1987, volto ad ottenere il pagamento del residuo compenso pattuito per lavori edili, concluso con sentenza del 10.03.2005, avverso la quale veniva proposto appello avanti alla Corte di appello di Napoli, definito con sentenza depositata il 25.06.2009.

La Corte di appello di Roma, con decreto in data 10 luglio 2014, in accoglimento del ricorso, condannava l’Amministrazione al pagamento di Euro 16.250,00 in favore del ricorrente per avere il giudizio presupposto avuto una durata eccedente il termine ragionevole di diciassette anni (durata complessiva di ventidue anni, detratto il tempo ragionevole di tre anni per il primo grado e di due anni per l’appello).

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il Ministero della giustizia, affidato a due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata nella redazione della sentenza. E’ preliminare l’esame dell’eccezione dedotta dal controricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3: il ricorso è ammissibile nei limiti appresso indicati, dato che, contrariamente a quanto assume lo S., espone sommariamente i fatti di causa, sotto i profili occorrenti per la soluzione delle questioni sollevate in questa sede, ed inoltre, attraverso una lettura globale, consente con sufficiente specificità di cogliere le ragioni per le quali si sollecita l’annullamento del provvedimento impugnato.

Infatti l’Amministrazione ricorrente pur avendo confezionato il ricorso con la riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali, tuttavia detto dato è contemperato dall’illustrazione, in termini argomentativi, delle domande e delle difese hinc inde, esponendo, nella parte dedicata allo svolgimento dei motivi di ricorso, le considerazioni alla luce delle quali i giudici del merito sono pervenuti alla conclusione oggetto di critica.

L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata. Premesso quanto sopra ed affermata la ammissibilità del ricorso, il primo ed il secondo motivo l’Amministrazione denuncia violazione c/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 nonchè vizio di motivazione per avere la corte di appello calcolato la durata irragionevole effettuando una era operazione di scomputo dalla durata complessiva del giudizio del periodo ritenuto ragionevole secondo i criteri standard, addebitando all’Amministrazione periodi di ritardo che non avrebbero potuto essere riferiti all’ufficio. In particolare, il periodo di stasi intervenuto fra la pronuncia di primo grado e l’introduzione del giudizio di appello, la stasi di circa un anno dalla interruzione alla sua riassunzione. Nè risulta in alcun modo considerata la rilevanza del comportamento delle parti: n. 4 rinvii ad istanza di parte entro l’anno 1990, tre per articolazione delle prove, uno per precisazione delle conclusioni non utilizzato; ulteriore rinvio per esame dell’elaborato peritale; oltre due anni in cui sono stati disposti sette rinvii, con invito delle parti al deposito del fascicolo di parte mancante. Prosegue il ricorrente sottolineando la mancata rilevanza della posta in gioco, trattandosi di credito pari ad Euro 2.700,00.

Le censure – da trattare congiuntamente per la loro evidente connessione – sono fondate per quanto di seguito si viene ad esporre.

Questa Corte ha affermato il principio, condiviso dal Collegio, per cui “in tema di diritto all’equa riparazione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, per la valutazione della ragionevole durata del processo deve tenersi conto dei criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiamato dalla norma interna, deve riconoscersi soltanto il valore di precedente, non sussistendo nel quadro delle fonti meccanismi normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice italiano. Anche in tale prospettiva, l’accertamento della sussistenza dei presupposti della domanda di equa riparazione – ovvero, la complessità del caso, il comportamento delle parti e la condotta dell’autorità – così come la misura del segmento, all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile all’apparato giudiziario, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza della relativa durata, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, appartiene alla sovranità del giudice di merito e può essere sindacato in sede di legittimità solo per vizi attinenti alla motivazione” (Cass. n. 24399 del 2009).

In tema di valutazione dei rinvii di udienza ai fini della L. n. 89 del 2001, questa Corte ha chiarito che “ai fini della eventuale ascrivibilità, nell’area della irragionevole durata del processo, dei tempi corrispondenti a rinvii eccedenti il termine ordinatorio di cui all’art. 81 disp. att. c.p.c., la violazione della durata ragionevole non discende, come conseguenza automatica, dall’essere stati disposti rinvii della causa di durata eccedente i quindici giorni ivi previsti, ma dal superamento della durata ragionevole in termini complessivi, in rapporto ai parametri, di ordine generale, fissati dall’art. 2 Legge suddetta. Da tale durata sono detraibili i rinvii richiesti dalle parti solo nei limiti in cui siano imputabili ad intento dilatorio o a negligente inerzia delle stesse, e, in generale, all’abuso del diritto di difesa, restando addebitabili gli altri rinvii alle disfunzioni dell’apparato giudiziario, salvo che ricorrano particolari circostanze, che spetta alla P.A. evidenziare, riconducibili alla fisiologia del processo” (Cass. n. 11307 del 2010; Cass. n. 6868 del 2011).

Nella specie, non risulta che la Corte d’appello abbia considerato neanche alcune delle vicende processuali ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo, quanto alla sua complessità, definita ordinaria, avendo omesso ogni riferimento in ordine al comportamento delle parti e alla verifica di quali dei rinvii menzionati nel ricorso fossero, e in quale misura, addebitatali alle parti e non all’amministrazione della giustizia.

La assoluta assenza di ogni valutazione dell’elemento in questione, nonchè della stasi di circa un anno dalla interruzione alla sua riassunzione, ai fini della determinazione della irragionevole durata integra la denunciata violazione di legge. Per altro verso, inoltre, l’apprezzamento della Corte della complessità del giudizio presupposto in termini di assoluta ordinarietà non sembra tenere conto delle vicende processuali rappresentate dalla difesa erariale (numerosi rinvii dettati da asserite esigenze istruttorie, senza però assolvere i relativi incombenti; utilizzazione dei termini per proporre impugnazione nella determinazione massima).

In conclusione il ricorso va accolto, con cassazione del decreto impugnato e rinvio della causa alla Corte d’appello di Roma, la quale, in diversa composizione, provvederà ad una nuova valutazione del comportamento delle parti e della incidenza dei rinvii e delle altre condotte processuali sulla durata del giudizio presupposto, alla luce degli indicati principi di diritto; al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte, accoglie il ricorso;

cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 10 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2016

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